I VINCITORI DEL 31° TGLFF
Le Giurie della 31ma edizione del TGLFF – Torino Gay & Lesbian Film Festival hanno assegnato il Premio “Ottavio Mai” per il Miglior lungometraggio, il Premio Queer e il Premio per il Miglior cortometraggio. I riconoscimenti saranno consegnati stasera, 9 maggio, alle ore 20.30, presso la Sala 1 della Multisala Cinema Massimo, durante la cerimonia di chiusura del festival.
Saranno consegnati anche i premi del pubblico a un lungometraggio scelto tra il Concorso lungometraggi e il Premio Queer e a uno dei cortometraggi in concorso.
Seguirà l’esibizione musicale di Rachele Bastreghi, cantautrice e musicista toscana, voce femminile del gruppo italiano Baustelle. Alle 22.00, poi, sarà proiettato, in anteprima italiana, Baby Steps di Barney Cheng, film di chiusura della 31a edizione del TGLFF.
Concorso lungometraggi
La giuria del Concorso lungometraggi, composta da Alessandro Borghi, Wieland Speck e Paola Turci, assegna il premio “Ottavio Mai” per il miglior lungometraggio a
La belle saison (Summertime) di Catherine Corsini (Francia, 2015, 105′)
Con la seguente motivazione: “Un film profondo e autentico, che usa come strumento una recitazione che va al di là delle parole. Un inno a inseguire la nostra felicità nonostante gli ostacoli che a volte la vita ci pone davanti, prendendo in esame un periodo storico fondamentale per l’emancipazione femminile come gli anni ’70 e le problematiche che ancora oggi ci troviamo ad affrontare, raccontando finalmente l’amore tra due donne in modo libero. Che sia fonte d’ispirazione per la nostra mente e soprattutto per la nostra classe politica“.
La Giuria assegna inoltre una menzione speciale a
Holding the Man di Neil Armfield (Australia, 2015, 127′)
Con la seguente motivazione: “Holding the Man ricorda la storia della comunità gay e mostra un ritratto doloroso di questioni relative all’AIDS, nella fattispecie a partire dagli anni ’80-’90 fino ai giorni nostri. Stile, fotografia e interpretazione brillante si fondono in un’immagine onesta e intrisa di sentimenti, dipingendo la famiglia, spesso nemica dei suoi figli queer, come una possibile fonte di sostegno sincero e amorevole“.
Il Premio del pubblico The Best Torino per il Miglior lungometraggio va a
Viva di Paddy Breathnach (Irlanda, 2015, 100′)
Premio Queer
La Giuria, guidata da Gianluca e Massimiliano De Serio e composta dagli studenti del DAMS di Torino (Matteo Ambrosino, Donato Luigi Bruni, Francesca Giuffrida, Xue Shan, Lara Vallino), assegna il Premio Queer a
Califórnia di Marina Person (Brasile, 2016, 90′)
Con la seguente motivazione: “Per la capacità di dipingere il percorso di crescita e scoperta dell’identità sessuale di un’adolescente attraverso uno sguardo libero, intriso di un mai banale realismo nella ricostruzione storica, di un lirismo dei rapporti tra i corpi e i respiri naturali e credibili, in un coerente universo estetico dove fotografia, musica e attori si fondono in un oggetto vivo e pulsante, come la vita“.
La Giuria assegna inoltre una menzione speciale a
Los héroes del mal di Zoe Berriatúa (Spagna, 2015, 93′)
Con la seguente motivazione: “Per l’audacia e l’efficacia del rapporto tra colonna sonora e visiva e la scelta stilistica che accoglie una commistione di generi cinematografici, che scavano in profondo in modo ironico e cruento il tema della violenza sociale“.
Concorso cortometraggi
La Giuria, guidata da Alessio Vassallo e composta dagli studenti dell’Agenzia Formativa TuttoEuropa (Francesca Bianchi, Alessandra Cristallini, Mara Erriu, Samuel Petrucci, Elena Rovati), assegna il premio per il miglior cortometraggio a
Balcony di Toby Fell-Holden (Regno Unito, 2015, 17′)
Con la seguente motivazione: “Per la capacità di stupire ribaltando gli stereotipi e di riconsiderare il concetto di diversità. Per la sentita interpretazione delle due protagoniste e per la regia attenta e mai invadente“.
Il Premio del pubblico per il Miglior cortometraggio va a
Double Negative di Brian Dilg (USA, 2015, 16′)
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LE RECENSIONI DI VINCENZO PATANÈ
Tung lau hap woo (Utopians)
di Scud
VOTO:
Il cinema di Hong Kong, per fortuna non ancora fagocitato da quello cinese, continua a dimostrare una vivacità e una libertà straordinarie (quantunque soggette e censure e a processi per oscenità). Scud, già apprezzato dal pubblico del TGLFF per i suoi film precedenti – Permanent Residence e Amphetamine – ora propone Tung lau hap woo (Utopians). La storia è quella di Hins (Adonis He, l’attore feticcio del regista), uno splendido ragazzo etero ventenne, che subito vediamo nudo (per tutto il film di fatto sarà più nudo che vestito) per essere poi legato in una posizione molto erotica. All’università Hins rimane affascinato dal suo aitante professore di filosofia, Ming; abbandona dunque la sua ragazza Joey per vivere fino in fondo l’utopia di sesso libero professata dal docente. I due però devono poi subire un processo perché il ragazzo è minorenne (ma poi per fortuna si scopre che in realtà ha già compiuto i fatidici ventun’anni…). Un po’ confuso sul piano della consequenzialità, tanto che non tutti i passaggi sono chiari, e su quello ideologico – Scud mischia un’idea del tutto personale, molto libertina, dell’utopia platonica e socratica col decadente Yukio Mishima, il tutto condito con …Papa Francesco – il film si impone per le numerose scene forti, quelle che per inciso tanti vorrebbero vedere in un Festival: le nudità, le scene di sesso decisamente esplicite (non solo gay) e soprattutto l’idea di un mondo in cui tutti sono liberi di essere se stessi.
Colla
di Renato Muro
VOTO:
Procida, l’isola adorata da Lamartine ma soprattutto l’isola di Arturo di Elsa Morante, colpisce ancora col corto (30′) Colla di Renato Muro. Il diciannovenne Domenico proprio non ci sta a essere lasciato da Marcello (per vendetta gli cosparge di colla il motorino, a simboleggiare il rifiuto del distacco) e perciò è costretto a ricercare altre motivazioni. Stavolta nel suo peregrinare nell’isola, toccando i posti a lui cari perché ci andava con Marcello, imbarca il quattordicenne Lallo (col quale va anche a trovare Sara, un travestito che dispensa dall’alto della sua esperienza pillole di saggezza). Tra Domenico e Lallo nasce un rapporto che vorrebbe essere molto di più – come mostrano anche un cuore segnato attorno ai loro nomi e delle domande insidiose del ragazzo sul piano erotico – che Muro sa cogliere appieno. Il tutto sullo sfondo dell’isola, un posto indefinito, un’isola circoscritta da cui nessuno, anche volendo, può distaccarsi, che strega e affascina nello stesso tempo.
Mørke Rum (Perpetual)
di Peter Lavrsen
VOTO:
Nella prima fascia di corti presentati, rifulge di luce propria il danese Mørke Rum (Perpetual), diretto da Peter Lavrsen. Il protagonista è Sebastian, un bel ragazzo gay biondo di 17 anni alla ricerca del primo incontro sessuale e, più che mai, della persona giusta per una relazione seria, al quale gli piacerebbe donare la sua verginità. Così incontra Jacob, conosciuto via chat, prestante giovane più grande e, soprattutto, più scafato di lui. Sebastian (ma a lui dice di chiamarsi Alexander) va con Jacob in una sauna; il posto gli sembra però squallido per dare tutto se stesso all’altro (il quale peraltro non vuole ospitarlo a casa, chissà perché…). Il gioco continua finché Sebastian si convince che Jacob sia proprio colui che cercava e quindi gli offre la sua verginità; ma non ci vuole molto per accorgersi di essere stato usato.
In 27 minuti il regista danese spiattella con bravura tutti i timori e le titubanze della prima volta, tra empiti romantici tipici dell’adolescenza mischiati alla tremenda delusione per essere stato ingannato. Amore vs sesso, quindi, ma anche esperienza vs ingenuità. Così non pochi, soprattutto fra i giovani, si riconosceranno nella vicenda. Le scene di sesso e quelle nella luce arancio della sauna sono particolarmente efficaci, così come il senso di smarrimento e di incertezza che il ragazzo palesa alla sua amica del cuore.
Bullied to Death
di Giovanni Coda
VOTO:
Già presente al TGLFF 2013 con Il rosa nudo, che poi ha mietuto premi su premi in tutto il mondo, il sardo Giovanni Coda propone ora Bullied to Death, ispirato dal suicidio qualche anno fa del quattordicenne statunitense J.R., infelice perché solo ad affrontare il tremendo bullismo subito per la sua omosessualità. Lo stile è lo stesso, tra cinema sperimentale e videoarte: scene seducenti, esteticamente eleganti quanto indovinatissime, si succedono davanti ai nostri occhi, mentre ci vengono ricordati tanti, troppi casi di suicidio in tutto il mondo di adolescenti, distrutti dentro e quindi pronti al passo definitivo perché picchiati a morte, osteggiati, vilipesi, derisi, emarginati dagli altri per la loro omosessualità. C’è scollamento dunque fra le immagini e la tesi portata avanti con una voce fuori campo e delle foto. Ecco dunque le istruzioni per l’uso: bisogna vederlo lasciandosi trascinare dal lirismo che pervade ogni cosa, dalla commovente voglia di ricordare chi non ce l’ha fatta, già in giovane età, a sopportare un bullismo che equivale tout court a un assassinio, di cui la società sbagliata e discriminatoria è atrocemente complice.
Principe Maurice #Tribute
di Daniele Sartori
VOTO:
Intensa, raffinata, curatissima, così è l’ultima opera di Daniele Sartori (il regista di Contatto forzato). Principe Maurice #Tribute ricostruisce la storia di un personaggio sui generis (per fortuna vivissimo, ad onta del titolo): Principe Maurice, all’anagrafe Maurizio Agosti, famoso per le straordinarie performance in tanti storici locali – dal Cocoricò di Riccione al Plastic di Milano – e ispiratore degli ultimi Carnevali di Venezia. Con interviste e filmati, Sartori approfondisce la sua carriera lunga una trentina d’anni di intrattenitore e cantante, che deve molto a Lindsay Kemp e a Klaus Nomi, con travestimenti sofisticati e azzardati ma mai banali, che spiazzano audacemente lo spettatore. Maurice in persona ricorda come sia arrivato a traguardi tanto originali così come le sue relazioni sentimentali più importanti: quella con Grace Jones e con un giovane veneziano (purtroppo scomparso), col quale ha condiviso per anni una rara comunanza di affetti. Un personaggio insolito e affascinante, il cui spessore culturale gli permette di saltare senza problemi dal Futurismo alle canzoni più celebri.
Closet Monster
di Stephen Dunn
VOTO:
Film bizzarro Closet Monster, diretto dal canadese Stephen Dunn, ma con tutte le carte in regola per diventare un cult come Donnie Darko (col quale ha peraltro delle cose in comune). Oscar – il delizioso Connor Jessup, conosciuto per la serie televisiva Falling Skies – sin da bambino si diletta con abilità a creare make-up per film dell’orrore. Oscar vive perennemente in un mondo sospeso e irreale, con i piani che si incastrano e si accavallano confusamente, non facendogli talora distinguere ciò che è vero da ciò che vive solo nella sua mente. Abbandonato dalla madre, vive col padre, col quale ha un rapporto problematico. Per fortuna a dargli conforto ci pensa un criceto, Buffy, che è la sua vera compagnia e con cui parla in continuazione, a mo’ di Calvin e Hobbes (ma con dialoghi molto meno acuti del fumetto…). Inoltre, Oscar non ha ancora messo a fuoco la sua omosessualità, per lui collegata all’idea di violenza, scaturita anche per aver assistito di persona da bambino ad un tremendo episodio di omofobia. Così, si sente attratto dai ragazzi ma poi qualcosa dentro lo blocca, costringendolo a non concretizzare. Alla fine, aiutato dall’amico Wilder, riesce forse a superare il problema, anche se non si può dire che esca definitivamente, come si dice in inglese, “dall’armadio” (il titolo significa appunto “il mostro nell’armadio”, riferendosi a quello dove ci sono ancora gli abiti della madre e dove sbatte dentro a suon di calci il padre). Il film appare irrisolto e talora sbanda un po’ ma (al di là della bellezza di Connor) è suggestivo – anche per gli effetti speciali, di oggetti che escono fuori dal corpo di Oscar, che ricordano il celebre Tetsuo del giapponese Shinya Tsukamoto – e quindi si imprime fortemente nella mente. Cosa non da poco, no?
Théo et Hugo dans le même bateau
di Olivier Ducastel e Jacques Martineau
VOTO:
Che scena, quella iniziale! Ben ventidue, lunghi minuti in un sex club, con decine di corpi maschili madidi di sudore, intenti a ogni tipo di amplesso. Fra loro Hugo e Théo. Théo possiede Hugo. I due escono, ancora ebbri di desiderio, magari con l’intento di continuare altrove a far sesso. Ma quando Théo rivela di non aver usato il preservativo e Hugo di essere sieropositivo scoppia il dramma. Non rimane che andare al pronto soccorso, sperando che la cura blocchi immediatamente il virus nel corpo di Théo. Dopo l’ospedale, i due escono assieme e non hanno alcuna voglia di lasciarsi. Certo, si litigano, dicendosi brutte cose e rinfacciandosi l’un l’altro la colpa dell’accaduto ma poi capiscono che il desiderio (ma forse è amore!) che li unisce è troppo forte. Al di là dell’incredibile scena ex abrupto dell’inizio, Théo et Hugo dans le même bateau (premio del pubblico ai Teddy Awards 2016) di Olivier Ducastel e Jacques Martineau – registi ben noti al TGLFF – ha tanti pregi. La struttura, innanzitutto. È girato in tempo reale (come già in film di Agnès Varda e Chantal Akerman) con un orologio che spesso ci ricorda quanti minuti siano passati fra un’azione e l’altra. Non è solo questione di tempi, però, ma anche di spazi, visto che i due – come in Tutto in una notte di John Landis – vagano senza sosta in una Parigi notturna e deserta, seducente complice di quell’amore appena sbocciato. I dialoghi poi affrontano con levità ma anche intensamente tanti argomenti, dalla paura della malattia alla forza inebriante del desiderio che spesso non ammette deroghe.
Fourth Man Out
di Andrew Nackman
VOTO:
Diverte molto Fourth Man Out, dello statunitense Andrew Nackman, grazie a situazioni molto simpatiche e battute decisamente calzanti. Quattro amici da sempre – Adam, Chris, Ortu e Nick (Chord Overstreet, il Sam di Glee) – vedono il loro rapporto sobbalzare quando Adam rivela agli altri tre, nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno, di essere gay. Come comportarsi con lui? La prima reazione è la freddezza, poi subentra un atteggiamento di difesa poiché i tre temono che l’altro prima o poi ci proverà (e infatti scoppia un piccolo incidente fra Adam e Chris, il suo migliore amico). Finalmente viene però il momento in cui Adam viene compreso e addirittura aiutato nella ricerca di un partner (che alla fine, per la cronaca, verrà trovato). Insomma, la prima parte si concentra sull’imbarazzo dei tre, chiusi in un egocentrismo che non li fa riflettere su quanto siano costati all’amico gli anni di silenzio e il coraggio per il coming out, la seconda sulla solidarietà. Il tutto con molte risate, ma senza altre presunzioni se non quella di piacere al pubblico.
“VIVA”
di Paddy Breathnach
VOTO:
“Chissà perchè tutto ciò che accade in quest’isola diventa un dramma?”, sostiene uno dei protagonisti di Viva. Effettivamente quasi sempre, quando si raccontano storie cubane (da Fragola e cioccolato a La partida), si scivola nel dramma o più propriamente nel mélo, un po’ perché dietro c’è sempre la povertà, che di per sé basta e avanza, un po’ perché il melodramma è proprio del sangue latinoamericano.
È anche il caso di Viva, candidato all’Oscar per l’Irlanda, diretto efficacemente da Paddy Breathnach e prodotto niente di meno che da Benicio del Toro. Il protagonista è il diciottenne gay Jesús che vive a l’Avana da solo – la madre è morta, mentre il padre, che ha visto l’ultima volta a tre anni, è in carcere – e sbarca il lunario facendo il parrucchiere a domicilio per donne anziane e curando le parrucche di Mama, che dirige con piglio un affermato cabaret di travestiti. Jesús chiede a Mama di esibirsi anche lui nel suo locale come drag queen, cantando in lipsynch col nome di Viva. In breve si rivela molto bravo, strappando applausi, ma la ricomparsa del padre spariglia il gioco, perché quest’ultimo, ex pugile violento e macho, non vuole che il figlio faccia quella vita. Stretto fra l’incudine e il martello, Jesús ondeggia pericolosamente fra la compassione per il padre ritrovato, gravemente ammalato, e la voglia di realizzare se stesso finché finalmente trova, passando anche attraverso la prostituzione, il coraggio necessario per dominare la situazione. La vicenda si dipana con scioltezza, avvincendo e commovendo lo spettattore, grazie a momenti pregnanti e ricchi di umanità, che toccano l’acme nelle struggenti canzoni d’amore presentate nel locale.
Henry Gamble’s Birthday Party
di Stephen Cone
VOTO:
Festa (con sorprese) per il compleanno del caro diciassettenne biondo Henry. Stavolta non sono solo gay – come nel celebre film di William Friedkin del 1970 – gli invitati al Henry Gamble’s Birthday Party, diretto dallo statunitense Stephen Cone. A partecipare alla festa della famiglia religiosissima di Henry ci sono molti amici della congrega, che parlano tanto di Dio ma poi non disdegnano di bere vino, sparlano, pettegolano, fanno sesso (magari chiedendo perdono a Dio durante il coito) e altro ancora, in un clima non privo di tensione, gravido di sguardi lascivi e di pulsioni sessuali. Il fulcro è la piscina dove tutti sembrano voler lavare i propri pensieri impuri, occhieggiando però nello stesso tempo le nudità degli altri. C’è di tutto: dal giovane omosessuale che, fallito un suicidio, si fa volutamente male con una lametta alla moglie del pastore battista che rivela di essere andata a letto con un amico di famiglia eccetera. Ma a noi interessa che Henry, che pure sbava per l’amico del cuore Gabe, alla fine cede all’amico di colore Logan, il quale per tutta la sera non ha occhi che per lui. La storia corale, ricca di una ventina di personaggi, è ben strutturata e recitata e sa cogliere in pieno la fragilità umana, i desideri, i complessi di colpa e la forza dei momenti in cui il richiamo della carne finalmente trionfa.
Face à la mer
di Sabry Bouzid
VOTO:
Nell’ambito della sezione “Extra – Tunisia” – impreziosita dalla presenza di quattro tunisini (un militante, un’avvocatessa, un regista e un’attrice) che lottano affinché l’omosessualità nel paese africano non sià più repressa – sono stati mostrati due corti. Face à la mer, di Sabry Bouzid, lungo 20′, racconta del coming out di Yacine, un bel ragazzo che ha una relazione con un amico ma che proprio non riesce a dirlo alla sorella Zaineb, che praticamente gli fa da madre; quando lo fa, la reazione di quest’ultima è isterica ma poi le cose si mettono a posto. Una visione ottimista, che sembra voler essere un augurio alla Tunisia. Il corto è ben girato, con suggestive scene sott’acqua del protagonista e poi della sorella, che simboleggiano palesemente un “nascosto” per troppo tempo soffocato e che ora è giusto venga fuori. Ora infatti è il momento adatto, in questo piccolo, coraggioso paese che ha acceso il fuoco della primavera araba (anzi, finora è l’unico che l’ha onorata).
Boulitik
di Walid Tayaa
VOTO:
Boulitik, diretto da Walid Tayaa, vede i suoi 25′ minuti dividersi, in maniera non equa tra tre racconti. Edifici vede il privato fondersi col pubblico: a Parigi il protagonista vive la sua giornata col suo compagno, mentre la radio racconta la lotta ormai vinta per detronizzare Ben Ali in Tunisia. Le rocce vede un pescatore attratto dal giovane corpo di un nuotatore. I fichi d’India è ambientato nella cucina di un politico che prepara un discorso per essere eletto, parlando di libertà e di rispetto, quel rispetto che non dimostra però suo figlio gay. Quest’ultimo episodio è l’unico riuscito, mentre gli altri – se pure si fanno apprezzare per una regia sì lenta ma non banale – non riescono a fare arrivare allo spettatore nessun messaggio particolare, perché il tutto si risolve su un piano visivo che però sembra avere le armi spuntate.
Die Geschwister (Brother & Sister)
di Jan Krüger
VOTO:
Die Geschwister (Brother & Sister), del tedesco Jan Krüger, promette ma non mantiene, a volte dà l’impressione di essere un thriller ma poi scivola in una banale storia d’amore, peraltro già vista tante altre volte. Thies è un agente immobiliare. Bruno, un ragazzo polacco biondo e carino, lo circuisce fino ad andarci a letto; così ottiene che Thies gli dia un appartamento assieme alla sorella Sonja, pur essendo contro legge, visto che i due sono senza permesso di soggiorno. In breve però Thies capisce che i due sono amanti, che Sonja è in realtà bielorussa e che tra i due c’è un patto di soliedarietà che alla fine non ammette estranei. Si sente dunque usato, ma d’altra parte l’attrazione per prova per Bruno è troppo forte…
Sullo sfondo di una Berlino multietnica e un po’ fricchettona, densa di tensioni sociali, tra case occupate abusivamente e graffiti nonstop, il film vorrebbe offrire anche una riflessione sulla solidarietà verso gli immigranti ma in realtà si ferma sul rapporto fra i due protagonisti, condizionato dall’iniziale menzogna sulla vera relazione fra Bruno e Sonja. Così, il racconto va avanti stancamente, fra momenti morti e snodi narrativi sprecati. In compenso, efficaci le scene di sesso, pur pudiche.
Wo willst du hin, Habibi? (Where Are You Going, Habibi?)
di Tor Iben
VOTO:
Uscito nelle sale in Germania con successo, Wo willst du hin, Habibi? (Where Are You Going, Habibi?), è il secondo film di Tor Iben (già visto al ToGay 2011 con Cibrail). È una commedia leggera quanto godibile. A Berlino, Ibo è un bel ragazzo gay di origine turca, con alle spalle una famiglia tradizionalista. Quando il suo ragazzo va a vivere a Stoccolma, per caso incontra Ali, biondo e dal fisico plastico (è un lottatore), che si arrangia tra rapine e furti, che inevitabilmente comportano come effetti collaterali ospedale e/o carcere. Ibo lo salva due volte da situazioni pesanti e Ali apprezza, anche perché è solo, abbandonato da tutti. Così accetta qualche primo scambio fisico ma non di più, anche perché è tanto attratto dalle donne. Quando il rapporto sembra arrivato al punto di non ritorno – anche perché Ibo è cacciato fuori da casa nel momento in cui si scopre che è gay – Ali cambia idea, così come il padre di Ibo, e quindi il finale (complici …delle polpette svedesi) è lieto. Se finale appare affrettato, tanto da dare quasi un tono favolistico, il film è simpatico e accattivante (anche per i due attori belli) e sa catturare lo spettatore con momenti indovinati e anche divertenti.
Vincenzo Patanè
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Vincenzo Patanè — nato ad Acireale, ma napoletano per essenza e per cultura — insegna Storia dell’Arte a Venezia. Ha pubblicato Ebano Nudo (1982), Cinema & Pittura (1992), A qualcuno piace gay (1995), Derek Jarman (1995), Shakespeare al cinema (1997), Arabi e noi. Amori gay nel Maghreb (2002), L’altra metà dell’amore. Dieci anni di cinema omosessuale (2005), 100 classici del cinema gay. I film che cambiano la vita (2009), Oasi gay. Miti & titani della cultura omosessuale e lesbica (2010) e L’estate di un ghiro. Il mito di Lord Byron attraverso la vita, i viaggi, gli amori, le opere (2013).
E’ inoltre autore dei saggi “L’omosessualità nel cinema americano 1987/1998″ e “Breve storia del cinema italiano con tematica omosessuale” (in Lo schermo velato di Vito Russo, 1999), “L’immaginario gay & il cinema” (in We Will Survivel, 2007) e “Homosexuality in the Middle East and North Africa” (in Gay Life and Culture: A World History, 2006, in italiano Vita e cultura gay — Storia universale dell’omosessualità dall’antichità a oggi, 2007). Ha poi curato numerosi libri di arte, tra cui Eros e mito. Achille e Chirone di Marco Silombria (2006).
Giornalista, critico cinematografico e attivista gay, dal 2004 é responsabile del settore cinema della rivista Pride, dopo esserlo stato per quindici anni per il mensile Babilonia. Alla bisogna generoso collaboratore del sito cinemagay.it. E-mail: [email protected]