GRANDE COMMOZIONE PER IL LEONE D’ORO AL FILM GAY “DESDE ALLA'”
Grande data quella del 12 settembre 2015. Il risarcimento alfine è arrivato. La giuria preseduta da Alfonso Cuarón ha premiato per la seconda volta nella storia della Mostra del Cinema di Venezia (la prima è stato con Brokeback Mountain) un’opera in cui la tematica omosessuale fa da asse portante dell’intera narrazione, dimostrando maggior coraggio dei giurati gay che hanno assegnato il Queer Lion. Costoro hanno scartato fin dall’inizio “Desde Allà” dalla rosa dei possibili vincitori, temendo che lo spettatore comune non riuscisse a cogliere la complessità di un film in cui il motore primario della vicenda (l’abuso del protagonista da bambino dal parte del padre) è volutamente disgiunto da ciò che viene narrato e che, senza cogliere le fondamentali e interessantissime implicazioni metaforiche della storia, potesse scambiare la difficile relazione tra il maturo tecnico odontoiatrico e il giovane ragazzo di vita come un banale rapporto pederastico tra un adulto voglioso e un giovane disarmato, rapporto moralmente e socialmente deprecabile; così i giurati gay hanno preferito orientarsi da subito verso un titolo più facile e popolare come “The Danish Girl“. Tanto di cappello, dunque, a Mr. Cuarón & C. che hanno dimostrato la propria fiducia nell’intelligenza del pubblico e che hanno messo in evidenza un film ricco di stimoli e di forme espressive davvero originali. Per di più preferendo un’opera prima a discapito di quelle di maestri del calibro di Amos Gitai, Marco Bellocchio, Jerzy Skolimowski o Aleksandr Sokurov e sottolineando che il compito di un festival è soprattutto la valorizzazione del nuovi talenti e non solo un’ennesima celebrazione di mostri sacri. Inoltre questa loro scelta diventa anche quasi uno schiaffo a vari giornalisti inviati a seguire il festival senza un’autentica preparazione cinematografica, ai quali non basta appellarsi alla differenza dei gusti personali per uscire assolti dal non aver colto l’espressione innovativa di un film come “Desde Allà”. (Se non lo si fosse capito ci riferiamo anche a Repubblica e al suo voto al film in questione di 0,5 su una scala da 0 a 6). Andiamo a chiudere queste brevi considerazioni con un’osservazione relativa anche al comportamento del servizio di informazione pubblica. Pressoché tutte reti della RAI, sia le radiofoniche che le televisive, si sono trovate nel massimo imbarazzo a dover riferire del Leone d’Oro, balbuzienti perché impreparate nell’accostare le parole “film” e “omosessuale” e in questo caso era impossibile non riportare la cosa. Fino al paradosso di RAI News 24 che nell’intervista al regista Lorenzo Vigas nel backstage della premiazione lo ha interrogato su tutto, perfino sullo stato di salute del cinema latino-americano, tranne che sul tema gay centrale del suo film. Eppure anche nella conferenza stampa seguita alla premiazione, il regista Lorenzo Vigas (etero) si era detto fiducioso che la tematica omosessuale del film servisse alla causa gay nei Paesi sudamericani, forse ignaro che da noi le cose non vanno meglio. Ennesima ed esplicita dimostrazione di quanto siano importanti le opere come questa e i premi fuori dai festival lgbt loro assegnati. Il film “Desde allà” è stato acquistato poche ore prima dall’assegnazione del Leone d’Oro dal distributore italiano Valerio De Paolis con la sua neonata casa di distribuzione Cinema.
COMMENTO AI PREMI QUEER LION ( vedi pagina)
La giuria ha deliberato e i verdetti vanno sempre accettati anche quando non sono condivisi. Durante la cerimonia di premiazione del Queer Lion i giurati hanno dettagliato come la loro attenzione si sia concentrata su 4 titoli in particolare: “Arianna” di Carlo Lavagna in concorso nelle Giornate degli Autori, “Baby Bump” di Kuba Czekaj di produzione Biennale College, “The Danish Girl” di Tom Hooper nel concorso principale Venezia 72 e “Spotlight” di Thomas McCarthy nel Fuori Concorso. Il verdetto finale espresso nelle motivazioni indica bene quale sia stato il criterio che ha fatto convergere il massimo riconoscimento lgbt veneziano sul film anglo-americano: si è data la massima importanza alla trattazione di un tema rilevante e ancora inconsueto che tramite un prodotto assolutamente main stream può finalmente arrivare anche a un vasto pubblico. Personalmente non sappiamo se il Queer Lion porterà un incremento di pubblico nelle sale quando il film uscirà nel febbraio prossimo, di certo sarà interessante vedere se la Universal menzionerà o meno il premio sulla stampa e nella pubblicità promozionale, stampandone il logo su manifesti e locandine. Come appare anche dalle nostre considerazioni critiche già pubblicate, del film abbiamo apprezzato le eccelse interpretazioni di Eddie Redmayne e Alicia Vikander nonché l’aspetto estetico ma non certo la correttezza storica che ha trascurato i travagli interiori e le difficoltà sociali di un transessuale negli ultimi anni ’20 del secolo passato (ben espresse nei diari) a favore di una romantica love-story fatta di reciproca comprensione e buoni sentimenti tra coniugi. Tanto più che le cose non andarono esattamente così, perché basta digitare su Wikipedia i nomi di Einar Wegener (Lili Elbe dopo l’operazione) o della moglie Gerda Wegener, per apprendere che lei era lesbica e che aveva sposato proprio quel tipo di marito per avere una figura ambigua che la potesse eccitare sessualmente oltre che per una copertura sociale. Anche se non si pretende che la fiction cinematografica combaci necessariamente con la realtà documentaria, avremmo preferito un altro approccio più complesso all’intera vicenda. (E per generosità non teniamo in conto la sequenza finale dove si preconizza un roseo futuro per coloro che avrebbero patito in seguito lo stesso travaglio del protagonista, sequenza dove il romanticismo kitsch traborda ogni limite consentito). A causa degli incastri di palinsesto non siamo ancora riusciti a vedere “Baby Bump“, ma le voci raccolte anche da chi ha avuto modo di vederlo in streaming su MyMovies sono tutte positive, per cui accettiamo a scatola chiusa la menzione speciale assegnata dalla giuria, garantendo che arriveremo a riparlarne qui con cognizione di causa nei giorni prossimi. La posizione che ci trova maggiormente in disaccordo col verdetto finale è che nella rosa dei titoli presi in esame per il premio rainbow non compaiano né il delicato italiano “Arianna” di Carlo Lavagna, né il duro e difficile venezuelano “Desde allá” di Lorenzo Vigas. Vedremo tra poche ore se i premi ufficiali porranno un risarcimento da parte delle giurie straight chiamate a pronunciarsi anche sui film lgbt. Nel frattempo Ondina Quadri, protagonista di “Arianna” ha già ricevuto un importante premio come miglior attrice debuttante.
Regia di Frederick Wiseman
Voto: 9/10
Tendenza: QQQ
Anche un maestro del film documentario come Frederick Wiseman, a cui lo scorso anno venne assegnato proprio qui al Lido il Leone alla carriera, si è occupato nel suo ultimo lavoro di persone e personaggi lgbt. Nel quadro che propone del quartiere newyorchese di Jackson Heights, il più multietnico della Grande Mela dove vi si parlano oltre centosessanta lingue e dialetti con una predominanza dello spagnolo, non può far a meno di riportare la realtà di gay e trans accanto a quella di colombiani, ebrei, italoamericani che ogni giorno sono impegnati in una continua lotta per non soccombere al peso del razzismo e della burocrazia. L’occhio di Wiseman si inoltra col suo consueto stile ricco di umanità, curiosità e comprensione nelle strade e nelle piazze del quartiere, catturando i volti, i corpi e le voci delle persone che gli descrivono i problemi che stanno affrontando, le manifestazioni razziste contro di loro o gli sfratti minacciati ed effettivi a cui sono sottoposti. Dalle 3 ore e passa del documentario se ne ricava l’immagine di una realtà odierna uguale a tutte le latitudini, con una New York obbligata a volgere lo sguardo al suo passato se vuole costruire un futuro per i suoi abitanti, ma dove la città è solo un punto di osservazione privilegiato da cui guardare i problemi universali legati al mix delle etnie miscelate tra loro, messe a confronto o aizzate l’una contro l’altra o l’una vicino all’altra. Il documentario sembra non seguire una struttura predeterminata, ma il filo logico è più che evidente là dove vicende e esperienze si susseguono e si mescolano fluidamente confluendo l’una nella successiva. Una donna messicana, una dei tanti latinos che sono diventati la comunità più numerosa del quartiere, racconta della figlia che ha impiegato settimane per attraversare la frontiera senza acqua e senza cibo, avendo la meglio anche sui cosiddetti coyotes. E attenzione: in azione c’è il B.I.D. (Business Improvement District), il braccio armato dei proprietari delle case che intendono aumentare gli affitti, e non deve neppure faticare troppo perché sono in tanti gli inquilini costretti negli attuali tempi di crisi a dover abbandonare le proprie abitazioni. La comunità lgbt del quartiere si riunisce da anni nella sinagoga, ma ora la situazione sta cambiano (“Non fraintendetemi… nulla in contrario… brava gente… bel posto. Solo, non è casa nostra”) e si discute se restare o andarsene. C’è la vedova anziana quasi centenaria che non conosce il segreto della sua longevità, ma conosce bene il peso dell’abbandono sociale e della solitudine e racconta in un inglese ancora difficoltoso col più cordiale dei sorrisi non simulati “non ho nessuno, solo una qualche badante. Per questo sborso duemila dollari a settimana… perché ci sia qualcuno che mi stia a sentire”. Le fa eco un’altra vecchietta che sa solo elencare i propri malanni. Ci si sposta in un negozio messicano di immagini religiose, madonne di gesso e sacri cuori trafitti, non si sa se icone cattoliche o non piuttosto talismani pagani. Accanto c’è un centro estetico canino gestito da colombiani con specialisti in pedicure per chihuahua, ma vi si vendono anche magliette su misura delle nazionali di calcio realizzate in varie taglie e fatte in modo che la bestiola non si bagni quando fa i suoi bisogni. Lo sport è una discriminate. La Colombia ha battuto l’Uruguay e i tifosi festeggiano oltre misura tanto da provocare scontri con la polizia e c’è chi ne esce con il volto massacrato dai manganelli. Tutto ciò accade di fronte a una scuola di danza del ventre dalle allieve più improbabili. Un trans protesta per il modo in cui è stato discriminato dalla cameriera di un locale. I Lesbian & Gay Big Apple Corps protestano e reclamano più diritti maggior rispetto. Lungo queste strade si tiene un Pride dalle forme e dai modi del tutto particolari celebrato in memoria di un ragazzo vittima anni addietro dell’omofobia. Un sacerdote in una chiesa predica contro la droga “risposta sbagliata a una domanda giusta” mentre un nord africano francofono in un inglese elementare comprensibile da chiunque impartisce lezioni di guida ad aspiranti tassisti pakistani, bengalesi, nepalesi, indiani… : “sempre ricordare i punti cardinali in senso orario: Nord, Est, Sud e Ovest. Non sapete come fare? Semplice! Basta riferirsi alla massima: Never Ever Smoke Weed (mai farsi le canne) cioè North, East, South, West. Siamo in un quartiere dove sono gli interessi economici o le necessità personali a fare da collante tra gli abitanti, il conseguimento di un obiettivo comune, la ragione di comunicare e di “fare gruppo”. In più di un’occasione la propria sopravvivenza dipende solo da questo; anche a costo di annullare la propria individualità nel momento in cui si entra in un gruppo di propri simili. Si può forse concludere che “In Jackson Heights” vediamo l’ennesima riconferma della morte del sogno americano, ma se questo quartiere equivale al mondo allora è la dimostrazione che anche il sogno occidentale è morto. E’ la conclusione del film espressa nelle parole dell’ultima intervista all’imbianchino riciclatosi nel settore delle pulizie quando da sociologo autodidatta afferma: “la mia impressione (ma è quello che sento io… e non voglio mortificare le vostre esperienze), è che in questo paese si ha un sacco di libertà. Anche quella di venir maltrattati e derubati sul lavoro”.
Regia di Arturo Ripstein
Voto: 7/10
Tendenza: G
Ultime giornate di festival, ma ancora tanti titoli lgbt di cui rendere conto anche a firma di maestri del cinema. Come Arturo Ripstein, celebrato autore messicano, presente a Venezia 72 i festeggiamenti dei suoi 50 anni di carriera. Sullo schermo è stato proiettato il suo film più recente “La Calle de la Amargura”, ritratto di un quartiere di degrado urbano attraverso un caso di cronaca di qualche tempo fa: due nani lottatori di lotta libera trovati in un albergo a ore avvelenati col collirio da due prostitute. Teso, disperato e grifagno ma nel contempo umanissimo, compassionevole e pietoso, talora anche facciatamente ironico. Un incubo ripreso nei toni dei grigi e dei neri più che girato in B/N. Urbanisticamente e socialmente una situazione che potrebbe ricordate le Vele di Scampia trasferite da qualche parte in Latino America. Qui vive e interagisce un’umanità dolente e quanto mai variegata fatta di borderline, piccoli criminali, spacciatori, puttane, tossicomani di ogni specie, mendicanti e sfruttatori con il costante incubo di trovare come procurarsi “el dinero”. Un universo autoemarginato e tenuto lontano da tutto e da tutti dove gli unici a trovarsi davvero a proprio agio sono solo i due gemelli nani che fanno da partner comici ai veri campioni di wrestler messicano. Attorno a loro si muovono battone di mezza età sfatte e senza più clienti, ragazze adolescenti che praticano fellatio al proprio ragazzo nell’androne delle scale, vecchie catatoniche portate in giro sporche e puzzolenti (“così tutti saranno più generosi”) su un carrellino e lasciate a mendicare nei luoghi più remoti, mariti-papponi che di nascosto rubano alle mogli gli abiti da lavoro (reggiseni di strass e le minigonne lise) per sedurre tra le pareti della latrina condominiale il ragazzo vicino di casa e ingozzarsi del loro membro. Ma è il generale tocco di gentilezza a vincere su tanto degrado. Lo sguardo caritatevole e comprensivo delle riprese ne riscatta abbondantemente la miseria e la desolazione. Anche nella scena più eccessiva dallo stile ispirato al grottesco felliniano ma originale nel senso formale, quella dell’assurda orgia tra i due nani mascherati e le due puttane che intendono intontirli per derubarli ma sbagliano la dose e finiscono con l’avvelenarli. Nella sua ironica tavola satirica quotidiana Stefano Disegni ci regala un commento personale che ben sintetizza il senso del film “Nelle sale sarà meglio che distribuiscano tavor al posto del popcorn. Le tristi chiappe dei 2 nani morti e con le maschere da wresler m’hanno fatto rischiare, all’uscita, di abbracciare il tizio che ci ha aperto le porte come fosse un angelo liberatore”.
DESDE ALLA’
Regia di Lorenzo Vigas
Voto: 9/10
Tendenza: GGG
Folgorati sulla via di Caracas! Il film “Desde allà”, opera prima di Lorenzo Vigas, autore già segnalatosi per l’apprezzato corto “Los elefantes nunca olvidan“, nonché primo titolo venezuelano a partecipare in concorso alla Biennale Cinema di Venezia, ci ha letteralmente conquistati. Sapevamo che in fase di selezione aveva entusiasmato anche il direttore Alberto Barbera, ma ora che l’abbiamo potuto vedere di persona ne capiamo appieno le ragioni! Melò teso come un noir e al contempo straordinaria metafora dell’America Latina contemporanea si serve del tema omosessuale per narrare ben più di quanto non mostri. Al centro della vicenda troviamo Armando, tecnico odontoiatrico oltre i 50 che lavora in un appartato laboratorio della megalopoli, oasi di tranquillità nell’infernale caos della periferia cittadina. E’ single, di carattere solitario e chiuso, ha una sorella con cui è in disaccordo perché lei vuole adottare un figlio, si divide tra il lavoro e la casa, e si concede frequenti svaghi sessuali adescando a suon di bigliettoni ben esibiti i ragazzotti che bazzicano la stazione degli autobus. Li porta nel suo salotto, li mette al centro della stanza di schiena in modo che non possano vederlo, e mentre lui si posiziona sul divano li fa spogliare e si masturba ammirandone le nudità posteriori. Sempre a distanza (come suona il titolo del film) e assolutamente senza mai un contatto fisico. Talora va pedinando nei quartieri alti un ricco e anziano borghese che vediamo accompagnato ogni volta da un qualche bambino di età prescolare e al quale si intuisce è legato da un mistero del passato. Il fato lo mette in contatto con Elder, adolescente alfa dominante nel gruppo dei ragazzi del barrio, sfrontato e violento (l’attore 19enne Louis Silva che ha vissuto in prima persona la violenza della vita di strada), occasionale garzone d’autofficina, impegnato a sopravvivere con le sue sole forze, giorno dopo giorno, nella giungla della vita urbana. Dopo il primo drammatico incontro in cui il giovane deruba e massacra il volto dell’adulto, si instaura tra i due un rapporto travagliato e complesso che li porta passo passo ad aprirsi e confidarsi reciprocamente. Elder si dimostra un ragazzo in cerca di una figura adulta di riferimento, Armando di contro rivela che vorrebbe vedere morto il proprio anziano padre che ancora vive (è l’elegante borghese pedinato di nascosto). Fino a quando per dimostrargli il suo affetto e la sua gratitudine per avergli salvato la vita ed essersi sentito trattato per la prima volta da essere umano, il giovane si fa carico in segreto dell’omicidio del vecchio. Il dramma non può che essere dietro l’angolo e dopo il primo totale rapporto sessuale tra i due piomba un epilogo amarissimo che non è bene qui svelare, avendo già detto fin troppo della trama. L’aspetto gay si sviluppa in particolare nel percorso di avvicinamento reciproco tra l’adulto e il ragazzo, nella frantumazione del reciproco isolamento emotivo, ma non si pone come la forza trainante del film. Il tema fondante è il rapporto maschile tra generazioni, il rapporto padre-figlio. Armando vuole cancellare la figura paterna; il segreto della sua vita lasciato nell’ombra dal regista è un probabile abuso sessuale subìto nell’infanzia da parte del genitore. Da lì deriva il suo odio, da lì il desiderio di corpi maschili, da lì il timore consapevole di replicarne le azioni e le conseguenze su altri giovani. Elder viceversa va cercando la presenza di un padre adulto, che gli sia di guida e di sostegno; dunque la tragedia esplode proprio dallo scontro di tali opposte tensioni affettive. Il tutto calato in una Caracas mirabilmente filmata in ogni suo differente quartiere, i popolari, le faveals, i blindati residence per vip, e che si rivela vera protagonista della storia, ben più di un’ambientazione scenografica. Tra le sue strade e i suoi palazzi l’attuale generazione degli adulti vive una vita castrata avendo subito la totale violenza civile, economica e politica da parte della precedente generazione ed è consapevole di avere, come lascito per i propri figli, solo una totale miseria morale e materiale. E Caracas si fa l’intero Venezuela e il Venezuela si fa l’intero Latino-America.
HELMUT BERGER, ACTOR
Regia di Andreas Horvath
Voto: 8/10
Tendenza: GGG
L’ultimo Dorian Gray del ‘900 incontra il suo ritratto e si fonde con esso, ma senza l’epica fine dell’originale letterario. Helmut Berger si mette a nudo (e non solo in senso metaforico) per come è oggi e per come è vissuto nel passato. Nella sezione Classici di Venezia 72 c’era molta attesa per verificare la reazione degli spettatori al documentario del pluripremiato cineasta austriaco Andreas Horvath dedicato all’attore oggi 70enne che fu feticcio d’arte e di letto di Luchino Visconti. Il pubblico veneziano ne è uscito totalmente impietrito. Perché ciò che emerge da quelle immagini non è certo una figura nobile o mitica, ma il suo esatto contrario. E non per il fatto che fin dalle prime inquadrature vediamo uno dei corpi più ammirati e desiderati dell’ultimo secolo malandato, abbruttito, imbolsito, lardoso e piagato da mille malattie, ma perché assistiamo in diretta alla autodistruzione psichica e interiore di una figura che grazie a film come “Ludwig” e “La caduta degli dei” ha segnato la storia del cinema e si è fissata nell’immaginario collettivo del pubblico non solo gay. Il documentario ha un inizio shock col primo piano delle sue natiche nude, flaccide e cadenti come l’interezza delle sue membra sfatte e subito tra l’attore che è a letto e il regista che lo riprende incomincia un gioco tra il burlesco e il professionale in cui Helmut si masturba a favore della macchina da presa senza arrivare a un’eiaculazione neppure simulata. A poco a poco si delinea la struttura del rapporto tra i due. Andreas Horvat è riuscito a convincere l’attore a descrivere come è diventato “un essere insopportabile per aver conosciuto solo persone insopportabili”, e a raccontargli la sua vita turbinosa e maledetta in una lunga serie di interviste realizzate nell’arco di vari anni, di certo dietro ricompensa economica, probabilmente facendo leva sulle comuni origini salisburghesi.
Per creare una cornice oggettiva il cineasta ambienta tutta la prima parte del filmato nell’appartamento in cui Berger vive attualmente, alla periferia di Salisburgo, un modesto bilocale più servizi. Più un magazzino in cui si abita che non una casa: nessun armadio, un caos indescrivibile, cimeli preziosi accatastati accanto a vecchi oggetti di pessimo gusto, l’arazzo indiano di una tigre e antiche icone bizantine alla parete, grappoli di peperoncini e altre erbe secche che pendono dal soffitto, ovunque foto del passato familiare e professionale (una con dedica è quella di Visconti). Non c’è più neppure la cucina portata via anni addietro e mai più sostituita per mancanza di denaro; ora c’è solo un fornello elettrico. A tentare di tenere un minimo d’ordine in tutta quella accozzaglia ci prova una sorta di governante che sistema quello che può e solo quando può, perché l’attore non la vuole tra i piedi quando lui è in casa e in casa ci sta quasi sempre. Soffre di depressione e di insonnia, passa le ore inebetito davanti allo schermo TV e non esce mai neanche a passeggiare perché odia i vicini e l’intero quartiere. E’ proprio questa governante a raccontare i piccoli fatti quotidiani dell’attore, il difficile rapporto con la madre che abitava nell’appartamento accanto (venduto da tempo per potersi sostentare), l’infanzia in un collegio religioso dove i sacerdoti l’hanno probabilmente avviato agli amori omosessuali. Da lei apprendiamo che ha perduto tutte le proprietà ereditate da Visconti, che non cucina mai piatti freschi e si limita a riscaldare cibi già pronti, che ogni tanto va a Praga non si sa per quali misteriosi motivi, mentre più volte dopo orge notturne con amici e compagni occasionali lei e il marito hanno dovuto pulire le tracce di sperma e altri meno nobili liquidi organici sparsi in tutta la casa, soffitti compresi. Berger non sa tenere nessun tipo di contabilità e di frequente ha avuto problemi di rifornimento di acqua, luce e gas per bollette non pagate per dimenticanza o per mancanza di liquidità. Anche con la bolletta del telefono, uno dei pochi mezzi di contatto col mondo esterno. Ben pochi amici lo chiamano, pochissimi gli squilli per impegni lavorativi. E soprattutto “è contornato solo da persone morte”, le foto intorno a lui parlano tutte solo del tempo andato e di persone oramai tutte defunte.
Che sentimenti può suscitare un tal individuo? Compassione, commiserazione, pietà? O rabbia, indignazione e rammarico? E’ la parte centrale del documentario a tentare una risposta. In gran parte girata a Saint Tropez nei giorni di festa di fine 2013. Qui Andreas Horvat e Helmut Berger erano andati con l’intenzione di realizzare buona parte delle interviste, e durante questo soggiorno emergono i tratti principali delle attuali caratteristiche caratteriali dell’attore. Esibizionista oltre ogni limite, “sono una star e lo sarò per sempre“, spavaldo “mi sono concesso a tutte le droghe senza rimanerne schiavo“, vanesio “fino a poco tempo fa non ne facevo meno di quattro al giorno, per lo più in gruppo“. Ma soprattutto emerge la sua totale solitudine umana, l’assoluto isolamento che lo spinge addirittura a dichiarare il proprio innamoramento (fatto di disperazione ed emarginazione) verso il regista (“Devo dirti una cosa importante: ti amo” “Lo vuoi un pompino? Se vuoi te lo faccio un pompino!“); per poi subito dopo respingerlo con rabbia e accusarlo di voler filmare la sua storia solo per vincere premi ai massimi festival cinematografici nel mondo. Reazioni bipolari, dall’esaltazione per il progetto assurdo di aprire in comune un ristorantino italiano in una località turistica austriaca al disprezzo per la mediocrità del lavoro svolto insieme (“Sei l’errore più grande della mia vita!“, “Come ho fatto io che ho lavorato coi registi e gli attori più importanti del mondo a mettermi con uno come te?“)… e intanto tra bizze istrioniche e narcisismi compiaciuti cade in totali apatie e assonnati torpori. Dall’altro lato intanto corrispondono pazienza, tolleranza, incitamenti e sfiancanti frustrazioni. Come in una storia d’amore, e come una storia d’amore consumato anche sessualmente il documentario trova via via uno sviluppo a due voci tra chi è davanti e chi dietro la macchina da presa. Così tra una recriminazione, un’accusa e una preghiera noi spettatori apprendiamo dalla voce di Berger anche inediti gossip a luci rosse dal cinema degli anni ’70 e ’80, come le pretese di Clare Peploe (“la moglie lesbica di Bertolucci“) durante le riprese di “Ultimo Tango” di portarsi a letto la 18enne Maria Schneider di cui si era follemente invaghita; oppure quando Berger parla della forma e delle dimensioni del pene di Burt Lancaster siamo autorizzati a dedurre rapporti intimi tra i due fuori dal set di “Gruppo di famiglia in un interno“. Le scene conclusive del documentario riportano a Salisburgo nella casa di Helmut, dove la governante può solo impegnarsi a frenare e ad assistere (impotente) al prolungarsi di un’autodistruzione perpetrata per volontà o per caso. E come chiusura ciclica Berger “il bel mostro” compie l’unico suo atto di generosità in tutto il filmato e regala al regista e agli spettatori l’atto completo (in primo piano) di una masturbazione portata fino all’eiaculazione con tanto di leccamento delle dita coperte di sperma.
THE 1000 EYES OF DR.MADDIN
Regia di Yves Monmayeur
Voto: 7/10
Tendenza: QQQ
Tra i tanti documentari proiettati a Venezia 72 molti sono quelli dedicati a registi più o meno fondamentali nella storia del cinema di ieri e di oggi. Di certo il ritratto che in “The 1000 Eyes of Dr. Maddin” Yves Monmayeur realizza di Guy Maddison risulta tra i più anomali e di certo tra i più divertenti. Costruito con vecchie interviste d’archivio e con altre recentissime appositamente realizzate solo pochi mesi fa sul set dell’ultimo film “The Forbidden Room” (vi compaiono Udo Kier, Maria de Medeiros e Geraldine Chaplin impegnati in una assurda seduta spiritica che dovrebbe riportare in vita i film mai realizzati dai più grandi registi), alterna le parole di Maddison a sequenze tratte dai suoi film e dai film di cui parla. Ne esce un ritratto decisamente camp di un regista che ha saputo affascinare e legare a sé star del calibro di Isabella Rossellini, di un autore poco noto in Italia ma venerato come un maestro dai nostri cugini francesi. Nato in Canada, autodidatta, adoratore del cinema delle origini, ha iniziato a fare cinema dopo i 30 anni, fuggendo dalla banca in cui lavorava. I suoi idoli e suoi punti di riferimento, come specifica dettagliatamente anche in questo filmato sono figure come il Georges Méliès degli effetti speciali artigianali, come gli alternativi Kenneth Anger o John Waters con Divine (“la più grande attrice di tutti i tempi!”), come il vero genio dell’underground Jack Smith. Alcuni di loro li si vede in reperti filmati raccontare in prima persona la propria poetica e le proprie esperienze (Kenneth Anger e John Waters), altri li ritroviamo citati attraverso frammenti dei loro film. Divertentissimo l’aneddoto in cui Maddison racconta di un omaggio che voleva fare a Jack Smith citando una sua orgia di travestiti; sfortunatamente aveva a disposizione solo due amici trans. Come risolse il problema? Riprendendo la propria mano che palpeggiava spudoratamente le natiche di uno dei due per poi sovrapporre più volte quell’immagine fino ad ottenere iperbolicamente l’effetto voluto. E racconta anche come nei suoi eccessi di citazioni pansessuali si sia divertito un sacco a girare in primissimo piano la scena (che poi viene mostrata) di una serie di pompini praticati da maschi vogliosi a fantasmi arrapati. Spirito libero divertito e divertente, amante del bizzarro e dell’umorismo a cui ricorre come soluzione nelle situazioni espressive più difficili, si riconferma anche in questo documentario un regista aperto e totalmente gay friendly. Quando sarà che un festival italiano gli dedicherà una meritata personale?
P.S.Il documentario è stato segnalato dai responsabili della Biennale come titolo da mettere in concorso per il Queer Lion)
BEAST OF NO NATION
Regia di Cary Joji Fukunaga
Voto: 7/10
Tendenza: G
Piccola nota a margine di “Beast of No Nation”, il terribile film sulle vicende dei bambini guerrieri dell’Africa nera, passato sugli schermi del Lido nei giorni scorsi e che dal 16 ottobre 2015 verrà distribuito sul servizio di video on demand Netflix. Al momento attuale nella pagella di valutazione che raccoglie i voti dei critici delle principali testate inviati alla Mostra del Cinema si attesta al 6° posto tra i titoli de concorso già presentati fino al 7 settembre con una media del 2,4 (il primo in testa è “Francofonia” con una media di 4). Pochi dei critici hanno fatto cenno al fatto che tra i tanti soprusi subiti dal giovanissimo protagonista c’era anche il dovere di soddisfare talora anche gli sfoghi sessuali dell’autoritario e carismatico Capitano. Particolare davvero trascurabile anche se non fondamentale nel complesso della storia?
LAMA AZAVTANI/Why Hast Thou Forsaken Me
Regia di Hadar Morsag
Voto: 7/10
Tendenza: GGG
E’ arrivato. Finalmente è arrivato il film al 100% a tema gay. E perfino (!) correttamente anticipato come tale anche dai responsabili della Biennale Cinema. E’ la matura e convincente opera d’esordio della regista israeliana Hadar Morsag (classe 1983) e concorre nella sezione Orizzonti con un doppio titolo ebarico/inglese “Lama Azavtani/Why Hast Thou Forsaken Me?” tratto dalla celebre citazione evangelica della passione di Cristo che in italiano suona come “Perché mi hai abbandonato?”. Non è la complessità o il senso metaforico dell’assunto il suo merito più apprezzabile, quanto l’atmosfera claustrofobica anche quando l’azione si svolge in luoghi aperti, una chiusura dei sentimenti dei protagonisti che pone lo spettatore in un labirinto di sensazioni compresse senza uscita di espansione. Grazie a una sceneggiatura che prevede non più di una sessantina di battute pronunciate sullo schermo in un’ora e mezza di durata della pellicola. Assistiamo alla parabola esistenziale di Muhammad, ragazzino palestinese intorno ai 16, che si muove bordereline ai margini di una società a lui fondamentalmente estranea e soprattutto ostile. La città ebraica vive nella propria lingua e nel proprio degrado mentre i bulli di periferia lo tartassano a ogni occasione. Su di lui pesa anche il mantenimento di mammà e sorellina, il padre è in carcere, ma deve dividersi tra mille lavoretti in aggiunta a quello poco gratificante e poco remunerativo di garzone di un forno. Vive la durissima situazione di adolescente non ancora uomo su cui pesa il fardello del capofamiglia, a metà tra il ruolo sentito e quello recitato. Non meraviglia dunque se scopriamo che durante le consegne accetta anche le avances di qualche anziano cliente. Senza problemi, come se la cosa non lo riguardasse affatto. La vita gli cambia quando incontra un sessantenne arrotino dal giubbotto di pelle che gira per le polverose strade dell’inferno urbano su uno scassato scooter ad affilare coltelli e mannaie in una malabolgia di ristoranti più diversi. I due si studiano, si adocchiano a distanza, si cercano l’un l’altro, con una tensione erotica che si placa solo quando finalmente le loro mani si toccano a ridosso della mola quando l’adulto insegna al ragazzo come si fa ad affilare i coltelli (e tutti ben sappiamo quale sia il significato simbolico del coltello anche senza ricorrere alle interpretazioni di papà Freud). Ovviamente si va ben oltre il tocco delle mani, ma tutte le numerose scene di sesso (la fellatio come la penetrazione) sono risolte con grande eleganza di ellissi visive con inquadrature che mostrano tutto senza nulla far vedere. La relazione tra i due si sviluppa da subito come un rapporto amoroso di potere fassbinderiano in cui chi più ama meno diritti ha sull’altro, tant’è che nel momento in cui l’arrotino si permette di sedurre un altro ragazzino Muhammad anche se tenta una vendetta si ritrova ancora una volta solo e senza uno zenit nel mondo degli adulti. Nel descrivere il rapporto affettivo tra i due in tal sorta di chiave sadomasochistica la regista mostra di voler seguire l’intuizione della filosofa Simone Weill precisandolo esplicitamente con didascalia sullo schermo: “L’esperienza dell’atto violento e della malvagità consuma e distrugge vittima e aggressore”. La vicenda di Muhammad diviene così una ricerca della propria identità e al tempo stesso una parabola cristologica contemporanea di espiazione. Fino all’iperbole chiara e terificante della scena finale, una sequenza shock difficilmente dimenticabile: l’esplicita autocastrazione (questa sì mostrata in primo piano) eseguita con un coltello appositamente affilato sulla mola dell’amato; amato che arriva a sostenere il giovane in un abbraccio di plastica fattezza michelangiolesca, forse invano o forse redento. Film di rara potenza espressiva in cui i prolungati silenzi sono più loquaci di milioni di parole e in cui agiscono due protagonisti di assoluto valore espressivo, il giovane Muhammad Daas al suo primo film e il calibratissimo Yuval Gurevich.
Link alla conferenza stampa del film Why Hast Thou Forsaken Me
NON ESSERE CATTIVO
Regia di Claudio Caligari
Voto: 9/10
Tendenza: G
Siamo alla giornata dei risarcimenti postumi. Sugli schermi del Lido è passato poco fa “Non essere cattivo“, opera di Claudio Caligari scomparso a fine maggio scorso dopo aver appena terminato di montare il film. Personaggio scomodo il regista di “L’odore della notte” girato ben 15 anni dopo il cult “Amore tossico“, forse perché come soleva dire “Quando sai comunicare sei un pericolo“. Emarginato dalla nostra produzione nazionale e dal sistema cinematografico nel suo complesso, era tornato all’onor delle cronache lo scorso anno quando Valerio Mastandrea (oggi produttore di questo film, che grazie a lui è stato completato) aveva fatto un appello in suo favore indirizzato idealmente a Scorsese. Caligari ha fatto giusto in tempo a terminare una pellicola che ora va a chiudere il suo coerente discorso iniziato e sviluppato con lucida fedeltà a sé stesso e che diventa il suo testamento spirituale e artistico. Un testamento che dice di tolleranza, di giusta integrazione, di riscatto e di dignità umana. Lo scenario è quello di Ostia nel 1995, l’ambiente quello sottoproletario della periferia urbana fatta di degrado e di illegalità, più per una mancanza di alternative che non per desiderio o volontà di delinquere. Protagonisti sono due amici d’infanzia, ormai quasi trentenni, cresciuti come fratelli e con azioni e comportamenti che rimandano da subito al film “Ostia” girato da Citti su sceneggiatura di Pasolini. Spacciano piccole partite di droga sul lungomare a personaggi ancora più disperati di loro, si impelagano in piccole truffe di poco profitto economico, passano il giorno a non far nulla perché a quelle latitudini urbane nulla c’è da fare. Vengono da famiglie distrutte dalla dimenticanza e dall’abbandono sociale prima che dalla droga e dall’Aids. Possono solo guardare il vuoto nel futuro davanti a loro o autodistruggersi come già in tanti prima di loro. Si accompagnano a ragazze altrettanto sbandate a ricche d’affetto inespresso (la più determinata è una ragazza-madre con figlio già adolescente) e in modo elementare ma molto forte sentono e vivono gli affetti e i vincoli familiari. A dar vita e gesti alle loro azioni sono gli strepitosi Luca Marinelli e Alessandro Borghi perfettamente aderenti alla pelle dei loro personaggi, l’uno più aggressivo, l’altro di carattere più introverso, inseriti in un cast davvero affiatato (altrettanto brave e intense Roberta Mattei e Silvia D’Amico) in cui tutti gli interpreti sanno far emergere l’aspetto dell’umanità dei personaggi sulla negatività dei loro comportamenti. Figure che tutte, nessuna esclusa, non sapranno forse recitare il monologo di Shylock ma che quelle stesse parole di riscatto e di affermazione d’uguaglianza le portano impresse sulla propria pelle. Che siano criminali, palazzinari di terz’ordine o travestiti. Tutti con una profonda e plausibile bontà di fondo. Anche il travestito tossico che abita in una delle baracche sulla spiaggia, in un panorama simile a quello che vide l’uccisione di Pasolini. E’ un travestito dall’animo onesto a con una propria etica anche nella sua vita di emarginazione e solitudine; prende in prestito una partita da spacciare e potrebbe tenere per sé tutta la droga o non restituire il guadagno ottenutone, ma invece riporta quel malloppo anche se nelle mani della fidanzata di uno dei due. Si esce bene da un film come questo, più fiduciosi che l’umanità sappia trovar in sé stessa gli anticorpi per rigenerarsi dalle meschinità dell’oggi, tanto più che Caligari sa azzerare il trascorrere del tempo e quando narra del 1995 in realtà sta narrando al presente. Ci si può credere? Anche in questo caso ci troviamo davanti a un film non indicato per il Queer Lion dai responsabili della Biennale Cinema.
Link per la conferenza stampa del film “Non essere cattivo”
L’ATTESA
Regia di Pietro Messina
Voto: 6/10
Tendenza: G
Si era detto dei titoli a tema lgbt non inseriti per tempo nel concorso del Queer Lion in quanto non segnalati dai responsabili della Biennale. Ebbene eccoci qui a rendere conto dei primi scoperti empiricamente in sala durante la proiezione. Cominciamo dall’esordio nel lungometraggio di Pietro Messina posto nella competizione principale col suo “L’attesa”. Partendo dall’idea già sviluppata da Pirandello nel dramma “La vita che ti diedi“, narra le vicende di una giovane ragazza francese, Jeanne, che arriva in Sicilia alla vigilia di Pasqua per raggiungere il fidanzato, senza sapere che lui è appena morto. La madre del ragazzo, sconvolta dall’ improvvisa perdita del figlio farà di tutto per tenere la ragazza all’oscuro dell’accaduto. Opera dai ritmi lenti e meditativi, il film è stato accolto male dal pubblico e da buona parte della critica, soprattutto da quella più giovane che si esprime on-line, anche se possiede un buon impianto di struttura e uno stile in cui si riconoscono i tratti dei maestri con cui Messina ha lavorato (Sorrentino in primis). In particolare risulta interessante il tema dell’elaborazione del lutto portata avanti attraverso la rimozione della realtà. Ma è il procedere per possibili opposizioni di coppie che ci ha particolarmente convinti. La madre in relazione alla ragazza (entrambe francesi – Juliette Binoche e Lou de Laâge – in una terra a loro straniera), la madre in relazione al maggiordomo che chiude la casa con i rituali e le leggi del lutto (è il contrasto tra il femminile e il maschile), la coppia mancata di Jeanne e del fidanzato deceduto in contrasto con la felicità di una coppia di ragazzi gay incontrati durante un bagno al lago. Non che la presenza di costoro sia fondamentale nello svolgimento della vicenda, ma è comunque un momento di grande poesia e profonda dissonanza. E al di là di ciò basterebbe la presenza di un’intensissima e dolente Binoche per compensare la spesa del biglietto d’ingresso.
MARGUERITE
Regia di Xavier Giannoli
Voto: 8/10
Tendenza: QQ
Il più grave degli omissis dell’elenco ufficiale fornito dai responsabili della Biennale resta però il lieve e sognante “Marguerite” di Xavier Giannoli, in concorso nella sezione principale. Si ispira alla figura storica di Florence Foster Jenkins (1868-1944), una miliardaria americana totalmente stonata ma con la sfrenata passione/malattia per il bel canto che nella prima metà del ‘900 sperperò una vera fortuna tra maestri di lirica e affitto di teatri (arrivò anche alla Carnegie Hall) e che divenne l’icona della follia e del cattivo gusto di un’epoca (Meryl Streep ha appena finito di girarne il biopic al fianco di Hugh Grant). Giannoli ne trasporta le vicende nella provincia francese degli anni ’20 fuori Parigi e ne fa un’eroina inconsapevole della potenza del sogno e della ricerca del sé. Non sapremo mai se la soprano incapace di cantare sia o meno consapevole della sua mancanza di talento, se davanti all’ascolto della sua voce incisa su disco impazzisca davvero o si rifugi come l'”Enrico IV” di Pirandello nella finzione della follia, l’importante per noi è seguire l’effetto della sua ostinazione vincente, dell’asservimento ai suoi desideri di chi le sta attorno, quello che le arriva dal suo denaro e quello che le arriva dall’impossibilità di tutti a rivelarle la sua mancanza di talento e la sua fragilità. Quando la musica vale una vita, vale più la mancanza di remore o l’assenza del senso del ridicolo? Tutti l’applaudono per interesse, il tenore gay ormai sfiatato che le dà lezioni di canto contornandola di una corte dei miracoli fatta di cartomanti e ambigui protégé, l’artista dadaista che la usa come scandalo per abbattere il sistema, il giornalista che ne narra epicamente le imprese canore. Nessuno di loro ha un tornaconto a dirle la verità, tutti la ingannano a cominciare dal maggiordomo nero che la protegge replicando gli atteggiamenti e gli aspetti del Max/Stroheim del “Viale del tramonto”, fino al marito che in cambio del silenzio può godere dei favori di generose grazie femminili. Ma alla fine è il sogno, è la determinazione di Marguerite-la-stonata a vincere su tutto e su tutti e a donare felicità a coloro che l’hanno derisa, sfruttata, amata anche se per vincere deve pagare con la morte. Su un palcoscenico, tra le braccia del marito riconquistato, proprio come una delle eroine tragiche di cui ha sempre sognato di cantare i drammi. Senza pietismi, enfasi o malinconie Marguerite diventa il catalizzatore del mutamento, la determinata che grazie all’arte intende liberarsi dal vuoto abissale di una codificata vita borghese dove per la donna è previsto uno scambio alla pari tra agi e crescita intellettuale e umana. Stonatura libera contro il bon ton di regole e obblighi. Un film vivifico, catartico, interpretato da una strepitosa Catherine Frot, che pone già un’ipoteca sulla coppa Volpi quale miglior attrice di Venezia 72. E se “la perfezione non è fare qualcosa di grande e bello… è fare qualcosa con grande bellezza“, come dice il maggiordomo, Marguerite ci riesce benissimo, tanto è vero che forse ad assistere al suo canto (stonato) del cigno c’è perfino un incantato Charlot a rendere omaggio alla statura assoluta di un sogno, di una persona forse assurda ma di proporzioni non inferiori al sogno di Chisciotte.
Regia di Amy B. Berg
Voto: 7/10
Tendenza: L
Questa volta la segnalazione era ufficiale dagli uffici della Biennale Cinema, per cui ci si aspettava che dal documentario a cui la regista Amy B. Berg ha dedicato anni di ricerche e di impegno arrivassero anche rivelazioni nuove e importanti sulla poliedrica e movimentata vita sessuale di Janis Joplin, ma su questo fronte si esce dalla sala delusi. “Jenis” che arriva sugli schermi italiani l’8 ottobre, è un ottimo prodotto celebrativo americano con un imponente apparato di immagini, filmati, lettere autografe e quant’altro, ma sulla bisessualità della grande icona del rock rapita dall’eroina e dalle alte doghe all’età di 27 anni aggiunge ben poco a quanto già noto. Solo l’intervista originale a una delle amanti della prima fuga a San Francisco quando la futura rock star passava con disinvoltura dai letti maschili a quelli femminili e le immagini di una ripresa televisiva della seconda metà degli anni ’60 in cui la Joplin rispondeva alle polemiche mosse nei suoi confronti dalle femministe che l’accusavano di non dire a sufficienza di sé nelle sue canzoni. Un totale di non più di un paio di minuti sui 104 di durata complessiva. In compenso tanta bella musica, ancora viva fresca e trascinante.
Regia di Carlo Lavagna
Voto: 8/10
Tendenza: QQQ
Non c’è solo il cinema delle multinazionali a interessarsi oggi ai temi del transgender. Alla Mostra del Cinema veneziana, alla megaproduzione di “The Danish Girl”, la nostra cinematografia nazionale risponde con una piccola ma assai riuscita opera prima: “Arianna” di Carlo Lavagna, annunciata nelle sale già tra pochi giorni, subito dopo la metà di settembre.
La voce fuori campo recita sulle prime immagini di un volto femminile fluttuante nell’acqua: “Sono nata tre volte. La prima come bambino, poi a tre anni come bambina e la terza volta oggi” … e il film narra la cronaca proprio di questa terza nascita, percorso intimo e particolareggiato di una ragazza diciannovenne ancora in attesa della prima mestruazione. Arianna torna nella casa natale sul lago di Bolsena da dove manca dall’età di tre anni, quando la lasciò per Roma coi genitori buoni borghesi (il padre medico, la madre più che benestante). Ad accoglierla ci sono anche la cugina di poco più giovane di lei ma fisicamente più sviluppata e il simpatico zio balbuziente. Ricordi rimossi le riaffiorano lentamente alla mente, legati a un coetaneo con cui si ritrovava a giocare o a luoghi arcani e misteriosi. E’ il fisico a darle dei problemi, specialmente quando si confronta con la cugina che già fa all’amore con un ragazzo locale, e quando il corpo risponde in modo inadeguato agli stimoli ormonali dei farmaci che assume. L’isolamento e il tempo sospeso delle vacanze le permettono di indagare più profondamente sul proprio malessere. Sente che c’è qualcosa che non quadra nella sua esistenza e che forse la mancanza di mestruazioni è legata in qualche modo proprio a ciò che le è accaduto in quel luogo in tempi ormai lontani. Inconsciamente sente che è tutto interconnesso, la richiesta al padre di cambiar ginecologo, come la difficoltà di relazione coi genitori con cui è comunque in sintonia, o lo studio della propria intimità sessuale. Si sviluppa così una vera indagine tutta in prima persona sul proprio misterioso passato che diventa al contempo un percorso di formazione. Da un lato è costretta e dall’altro impara a confrontarsi con i modelli sociali di comportamento, con l’interscambio affettivo e sessuale tra le persone, con le identità di genere fatte di eguaglianze, affinità e differenze.
Alla fine, dalle cartelle cliniche recuperate nel principale ospedale della zona, Arianna scoprirà che la piccola cicatrice sul suo ventre non era dovuta a un’operazione di ernia, ma alla castrazione della parte maschile del suo apparato genitale che presentava le caratteristiche morfologiche di entrambi i sessi. I genitori avevano optato per questo intervento pensando di fare il suo bene, per preservarla dalla derisione e dall’emarginazione sociale e pubblica, per salvaguardare il futuro di quel bimbo ermafrodito, nato come rarissimo caso che capita ogni svariati milioni di neonati. Tranne il fatto che ora, divenuta adolescente di 19 anni si ritrova a essere una creatura che non potrà mai provare un autentico piacere sessuale e non potrà mai procreare né come uomo, né come donna. Destino tragico e terribile, che viene però narrato con grande pudicizia anche là dove si mostrano esplicitamente corpi nudi e genitali sanguinanti (tremenda la doppia scena dello sventramento di un cinghiale seguita dal sogno dell’agognato mestruo che appare simile a uno squartamento integrale… si cita esplicitamente la scena del macello nel fassbinderiano “In un anno con 13 lune”, archetipo delle pellicole sulla transessualità). Si deve qui parlare di pudore dei sentimenti, di profonda conoscenza e documentazione degli eventi narrati, di coscienza civile e politica del fare cinema.
Carlo Lavagna si dimostra regista, oltre che sensibilissimo, anche molto attento e inventivo nella costruzione dell’immagine che concepisce già al momento della ripresa in funzione del montaggio e della situazione della narrazione. Ne è un esempio la sequenza in cui filma in primissimo piano l’iride della ragazza in cui si riflette sfocata l’immagine di uno schermo su cui scorrono immagini di un accoppiamento pornografico (è il momento in cui Arianna da sola in casa sta cercando di capire cosa possa essere il piacere dovuto al sesso); come del resto si dimostra inventivo nell’uso dell’acqua come principale filo conduttore narrativo (il lago, il bagno nel fiume, la pioggia, la piscina, le terme…). Ma se l’opera è così ben riuscita lo si deve almeno al 50% anche all’attrice protagonista, l’esordiente Ondina Quadri, figlia d’arte del montatore cinematografico Jacopo Quadri e nipote del critico Franco Quadri; è impressionante nel rendere l’innocenza, il dramma trattenuto e la tenacia del suo personaggio. E ancora di due eventi siamo facili profeti: l’autentico talento rivelato da questo esordio ci porterà molti altri ottimi film (ci si augura capolavori) e che “Arianna” entrerà da subito nell’empireo dei film transgender.
Sandro Avanzo
Regia di Tom Hooper
Voto: 6/10
(per il valore storico del soggetto)
Tendenza: QQ
E’ capitato anche quest’anno. I titoli segnalati dagli uffici della Biennale Cinema agli organizzatori del Queer Lion si stanno moltiplicando via via che le proiezioni procedono qui al Lido. Non più solo i 7 titoli presenti sul sito del Premio (www.facebook.com/QueerLion) ma almeno altri 7 o anche più, verificati da una nostra visione diretta in sala o arrivati attraverso informazioni di altri attenti e sensibili spettatori. Anche con situazioni e sequenze a tematica lgbt che non sempre risultano fondamentali per lo svolgersi della trame o con metafore che solo un occhio queer è in grado di cogliere al volo, ma anche con sviste quasi imperdonabili ai segnalatori della Biennale. Per cui, cari lettori, preparatevi ad avere la lista completa di tutto ciò che di carattere lesbo-gayo-trans-bi-wired-camp sarà stato proiettato sugli schermi veneziani solo a fine Festival. Piano piano garantiamo che vi daremo conto di tutto.
E cominciamo proprio dal film gay più atteso alla Mostra, quel “Danish Girl”che arriva già carico di polemiche da parte del mondo transgender per il mancato coinvolgimento nel progetto di veri interpreti transessuali. Vi si narrano infatti le vicende riportate dal libro “La Danese” (in italiano per i tipi di Guanda) in cui lo scrittore David Ebershoff ha ricostruito la vicenda autentica del pittore Einar Wegener che nel 1930 sperimentò, tra i primissimi, la chirurgia plastica per mutare la propria identità fisica maschile diventando Lili Elbe. Accanto a lui in tutto il percorso di ricerca, di accettazione e di mutazione la moglie Gerda, anch’essa pittrice conosciuta nelle aule dell’Accademia di Belle Arti. Il regista Tom Hooper si dimostra più interessato al complesso rapporto affettivo tra i coniugi segnato dalla situazione di Einar, che non alla complessità di una simile situazione in una società impreparata e in anni in cui si cominciava a mala pena ad usare il vocabolo “omosessualità”. Il percorso inizia quasi come un gioco tra i due, con la moglie che spinge e coinvolge il pittore in giochi (anche erotici) di travestimenti e trucchi al femminile. Prima tra le pareti domestiche, poi in feste danzanti in pubblico. A monte preesisteva già da parte di Einar un’attrazione verso gli abiti, la biancheria e gli accessori femminili, tanto che il modo in cui il film procede all’inizio sembra portare più verso un racconto di feticismo che non di transessualità. E’ solo dal momento in cui Einar si sente spinto a palesarsi nei panni di Lili, che finalmente si sviluppa il tema vero della differenza tra il modo di venir riconosciuti e di porsi in pubblico in base al genere sessuale e quello di essere sé stessi nell’intimo, e solo nell’ultima parte della vicenda la pellicola affronta di petto la situazione dell’identità di un genere intrappolato in un corpo non proprio e delle modalità con cui porvi rimedio. Per gran parte della storia, che si svolga tra Copenaghen, Parigi e la Germania di Weimar, la dinamica ripetuta è quella di una maligna Signora Hyde che ogni tanto, sempre più spesso, emerge a dominare un gentile Dottor Jeckyll fino a che non è più possibile tenerla sotto controllo e finisce per essere la vincitrice. Con una moglie devota che assiste e si mette costantemente a disposizione, con rare proteste e tanta generosità, in cambio di ispirazione dai travestimenti come soggetto per i propri quadri. Commuovono alle lacrime la complicità, l’amorevolezza reciproca, l’assistenza e i buoni sentimenti accompagnati da disinteresse e comprensione vicendevolmente differenti ma complementari; però i reali traumi e le difficoltà relazionali parte di lui (tema per davvero il più interessante da attingere dai diari autentici) restano tutti nel non detto. Fondamentalmente al regista premeva portare la tormentata storia di una coppia, più che l’aspetto melò o la descrizione di una disperazione individuale. Una love story quasi accettabile anche da Giovanardi che vi potrebbe riscontrare un meritato castigo divino per chi pur nell’amore romantico infrange le “regole della natura”. In un quadro del genere gli interpreti sono eccellenti e molto generosi, sia Eddie Redmayne (fresco di Oscar per “La teoria del tutto”), perplesso, curioso, tenero, sognante, fragile, rassegnato… capace in svariati momenti di suggerire in anticipo la malinconica fine del suo personaggio; ma ancor più è ammirevole la prova di Alicia Wikander che porta sulle spalle un ruolo ben più difficile del suo partner e si candida già al premio come miglior attrice al festival veneziano. Il resto sono immagini di abiti assolutamente glamour, trucco e parrucco da rivista d’epoca, ottima ricostruzione storica degli ambienti, una fotografia patinata a dovere. Affidiamo la veridicità di quanto mostrato dal film all’uscita nelle sale italiane il prossimo 4 febbraio. Il mondo trans sarà conquistato dall’aspetto romantico o peserà di più la sofferenza della ricerca della propria identità di genere?
Sandro Avanzo