"E LA CHIAMANO ESTATE" di Paolo Franchi

Cinema d’autore, contestato da una critica superficiale, che invece ha il suo fascino e la sua ambiguità (forse troppa)

Paolo Franchi è un regista che vuol fare cinema d’autore, ma in un Paese dove questo è una merce sempre più rara (tolti alcuni semprevivi mostri del passato come Bertolucci o Bellocchio) succede che quando un’opera manifesti troppo chiaramente questo proposito o questa ambizione, essa venga brutalmente e ingenerosamente derisa, come successo al Festival di Roma. Il film di Franchi, “E la chiamavano estate”, non sarà sicuramente un capolavoro, difetti se possono trovare, come un andamento frammentario e ripetitivo (che sono comunque una precisa e motivata scelta registica) e una ricercatezza visiva (quei bianchi sfolgoranti) e sonora che rasentano il manierismo e non danno il rilievo necessario, secondo noi, ad una vicenda altamente drammatica, eppure il film nel suo complesso si mantiene su un livello qualitativo degno di rispetto e considerazione.
La sceneggiatura del film (scritta da quattro firme, tra le quali anche il sceneggaitore di “Riparo”) ci dice molto poco del passato dei protagonisti, soprattutto di Dino che è il vero protagonista del film (ma la prova dell’attore, il francese Jean-Marc Barr, ci ha lasciati un po’ perplessi). Sappiamo solo che ha avuto un fratello suicida che lui amava moltissimo e che è stato presto abbandonato dalla madre. Di Anna (una premiata Isabella Ferrari) sappiamo che in passato ha collezionato solo delusioni amorose. Il loro incontro ha cambiato la vita di entrambi. Nel senso che finalmente entrambi s’illudono di aver trovato l’amore, quello con la A maiuscola. Entrambi se lo ripetono in continuazione, ma purtroppo è un amore che non riesce ad andare oltre la sua enunciazione, oltre un sentimento platonico, almeno da parte di Dino, che non è in grado di consumare. Anna riesce ad accettare questa cosa perchè per la prima volta ha trovato un uomo che dice di amarla senza aver bisogno di ‘usarla’, per lei questo potrebbe essere la dimostrazione di un vero grande amore. E riesce a sublimare il suo desiderio, a rinunciare alla sessualità, a sentirsi ugualmente appagata solo dalla sua vicinanza, la vicinanza di una persona che dice di amarti follemente.
Anna però non sa che Dino, di professione anestesista, passa gran parte del suo tempo ‘libero’, sfogandosi sessualmente in orge, in incontri sessuali con coppie o prostitute, dove il suo organo sessuale funziona perfettamente e sembra quasi insaziabile. A questo punto sorge spontaneo il riferimento al film “Shame” di Steve McQueen (con un altrimenti espressivo Michael Fassbender), dove il protagonista era anch’esso affetto da una sessualità compulsiva che lo stava distruggendo.
Il tema sembra lo stesso: cosa può succedere quando sesso e amore sono incompatibili. Ma mentre in “Shame” tutto è comprensibile, nel senso che sono molti gli uomini che vivono questa divaricazione tra sesso e amore, dove il sesso diventa un ‘vizio’ e l’amore qualcosa di sconosciuto, nel film di Franchi si fatica a comprendere l’impotenza monodirezionale del protagonista.
In verità una spiegazione facile facile ci sarebbe, ma gli autori la lasciano troppo nel vago e contradditoria, preferendo rimanere nel misterioso, nell’ambito di una (troppo) particolare patologia, che nemmeno il protagonista (anche con l’aiuto dello psicanalista) riesce a spiegarsi. Questa scelta anzichè dare forza e fascino alla vicenda, rischia di renderla poco credibile quando non ridicola.

Al contrario sono diversi i casi reali della vita, in cui ad una persona omosessuale, magari con un passato di sesso sfrenato (soprattutto in epoche quando ai gay era permessa solo la consolazione del sesso clandestino), capita d’incontrare una donna che s’innamora follemente di lui, che gli fa sentire la grande forza di un sentimento totale e sincero, e che fa nascere in lui il forte desiderio di ricambiarla, arrivando ad innamorarsi anch’esso, platonicamente, di quella donna, e desiderando solo di farla felice. Pur consapevoli che il desiderio dell’uno non corrisponde a quello dell’altra, e che quindi non potranno godere di una sessualità intensa e completa, alcuni arrivano perfino a sposarsi, sicuri dell’amore che li lega e che li lascerà liberi di sfogare altrimenti i differenti istinti sessuali, o addirittura di sublimarli. In ogni caso sono storie non facili, a volte drammatiche e che spesso non reggono la prova del tempo.

Nel film di cui stiamo parlando, il protagonista potrebbe benissimo essere un omosessuale (l’amore esagerato per il fratello, una crescita senza la madre). Nelle prime scene in cui lo vediamo frequentare un locale hard, l’intesa non è con una donna ma con un uomo, Mauro (il bravissimo Filippo Nigro), si guardano, si fissano e s’invitano. Mauro è accompagnato dalla moglie ma il suo ruolo è esplicitamente quello di un gay represso sposato, che cerca il maschio con l’alibi dei locali per scambisti, infatti lo vediamo che gode (e lo racconterà lui stesso) solo quando vendo il membro di Dino in azione.
Anche quando Dino s’impegna nella ricerca degli ex amanti di Anna per convincerli ad avere ancora rapporti sessuali con lei, possiamo intendere che la cosa, oltre a soddisfare il desiderio sessuale di Anna, potrebbe soddisfare anche il suo voyeurismo.
Un’altra forte ambiguità sull’orientamento sessuale di Dino sta nelle parole della sua lettera (che sentiamo ripetere diverse volte durante il film, in un bel gioco di rimandi) quando ammette che la colpa è tutta sua, per quello che egli è (‘per quello che sono’), difficile da intendere solo come ‘impotente’. Difficile credere che il forte dramma interiore del protagonista, che lui stesso giudica irrisolvibile, abbia solo cause patogene (che sarebbero quindi curabili).

La figura di Dino regge un po’ meno come omosessuale quando lo vediamo sfogarsi, fuori dalle orge, con prostitute, anche se queste non sono mai bellissime, ma vecchie o sfigurate, e magari lesbiche (una delle scene migliori del film).

E’ chiaro che gli autori non hanno voluto che gli spettatori identificassero come gay il protagonista, che voleva dire affibiare l’etichetta gay al film. Alla sua compagna Anna non sorge mai nemmeno il dubbio (anche questo è poco credibile) che Dino potesse essere gay. Eppure, quando Anna scoprirà la vita orgiastica di Dino, la sua reazione potrebbe essere stata la stessa di scoprirlo gay. Ma sarebbe stato un’altro film. Accontentiamoci di come il regista ci presenta la storia di questa coppia, che lascia ampio spazio alla nostra fantasia, dicendo: “E’ una coppia profondamente romantica quella di Anna e Dino. Romantica fino allo struggimento. Qualcuno definirebbe quest’uomo un borderline, un nevrotico con un grande senso di colpa che non gli permette nemmeno di sfiorare la felicità, la completezza, l’appagamento. Le sue notti trasgressive non fanno che inaridirlo, trascinarlo sempre più giù, nel fondo di un abisso.

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