Esce venerdì nelle nostre sale (per ora sono solo 7) il film vincitore dell’ultimo Torino Film Festival, “La bocca del lupo”, del regista Pietro Marcello. Si tratta di un’opera alquanto anomala nel panorama del cinema italiano. Il film è un documentario, coi protagonisti nel ruolo di se stessi, ma è anche una composizione poetica, un canto d’amore alla Genova degli emarginati, alla Genova vista dai genovesi in un lungo trascorrere del tempo quasi senza limiti di continuità. Non è un film facile, anche se la storia che racconta si può dire in poche parole. Il coinvolgimento che procura il film è tutto merito delle immagini, di un accurato e minuzioso collage tra filmini amatoriali d’epoca e quanto viene registrato oggi da una cinepresa che dipinge lo schermo con le stesse tonalità, rendendo difficile distinguere il nuovo dal vecchio. Anche questo è uno dei messaggi che l’autore vuole mandarci: non ha importanza quanto corre il tempo, oggi come ieri sono le anime delle persone a fare la storia, sono le pietre, le grotte, le mura, le strade che queste persone hanno calpestato e abitato, lasciandovi segni indelebili.
Un altro importante messaggio del film è contenuto nella incredibile storia d’amore che racconta, una storia d’amore che ha vinto sulle diversità (un uomo rude e una delicata transessuale), sulle discriminazioni e la violenza carceraria (il prezzo pagato è stato un isolamento quasi completo), sulla miseria e l’emarginazione (rimangono sempre i sogni), sulla lontananza e sul tempo (è su questo che si misura il vero amore). I due protagonisti del film sono indimenticabili, seppure lontanissimi dagli abituali canovacci del genere sentimentale: sono avanti con gli anni ma posseggono lo spirito e la tenacia degli adolescenti, sono dolorosamente provati dalla vita ma capaci di baciare con dolcezza il muso di un animale o di accendere una candela in chiesa. Sono persone che devono ogni giorno riconquistarsi il rispetto della gente, ma che con la loro semplicità e il loro amore sono ancora capaci di sognare.
Il film, se lo guardiamo con le aspettative abituali di quando entriamo in una sala cinematografica, sembra non decollare mai, sembra una lunga e interminabile premessa a quello che in una decina di minuti racconteranno i due protagonisti davanti alla cinepresa, poco prima della fine del film. Eppure il film non è un’opera sperimentale, non è stravagante, non è enigmatico, non è astratto. Occorre solamente che abbandoniamo i nostri abituali canoni di visione, che ci liberiamo dalla solita agitata fretta di tanto cinema americano. Solitamente definiamo un film come un’opera d’autore proprio quando è lui stesso, film, a dirci come dobbiamo guardarlo, sorprendendoci e ricostruendoci, regalandoci nuove sensazioni, nuovi mondi e nuovi modi di guardarci intorno. “La bocca del lupo” riesce perfettamente in questo, ma deve esserci anche la nostra collaborazione, la nostra disponibilità, la nostra apertura intellettuale.
Il regista Pietro Marcello ci presenta il film con queste parole: Il film nasce da un’idea della Fondazione San Marcellino, gesuiti di Genova, che da anni assiste in diversi modi la comunità di senza tetto, emarginati, raminghi e indigenti della città. L’intento era di raccontare non tanto l’attività della Fondazione quanto il mondo a cui questa si rivolge, le persone e la città.
Prima del film non conoscevo bene Genova, gli unici ricordi o memoria erano i racconti di mio padre che come marittimo meridionale da lì si imbarcava, e per tutta la sua giovinezza Genova ha rappresentato la sua città ideale. Mi raccontava sempre di quanto era bella, delle tripperie – oggi scomparse – e del suo cielo, una città del nord che guarda a sud.
Io ho conosciuto un’altra Genova, ho vissuto in una zona, l’area dell’angiporto, dove – come nella maggioranza delle città del nord – sempre di più si estingue il tessuto sociale, dove la memoria è impressa nelle pietre di Sottoripa.
Ho provato a raccontare il presente attorno a me, quei residuali che vengono da un mondo passato, mentre la nostalgia del Novecento è rappresentata attraverso i repertori, filmini amatoriali e non, realizzati da genovesi di lunga generazione.
Il mio sguardo sul presente è quello di un forestiero che racconta ciò che vede dalla finestra, lo sguardo sul passato e sulla Grande Storia è rappresentato dai genovesi che silenziosamente sono riusciti a raccontarla attraverso l’oculare di una cinepresa.
La sinossi del film:
Un uomo torna a casa, dopo una lunga assenza. Scende al volo da un treno in una livida città portuale. L’attraversa cercando i luoghi di un tempo, ormai in dismissione, che affiorano alla memoria nel loro antico splendore. Nella piccola dimora nel ghetto della città vecchia, l’aspetta da anni una cena fredda e la compagna di una vita. Mary ed Enzo si sono aspettati e voluti sin dal tempo del loro incontro dietro le sbarre, quando ancora si mandavano messaggi muti, registrati su cassette nascoste.
Una casetta in campagna sopra la città e il suo mare, questo è il loro sogno, lontano dal tempo presente, sospeso in un altro tempo di semplice felicità. Ora e ancora, condividono il loro destino furtivo con i compagni degli abissi nel dedalo di Croce Bianca, via Pré, Sottoripa… nomi antichi di un posto non ancora moderno dove il Novecento s’è incagliato come una nave senza ancora.