Chiude con un bilancio positivo la ventisettesima edizione del Torino Film Festival, la prima sotto la direzione di Gianni Amelio. Un Festival che conferma la volontà di mischiare generi e linguaggi, che anche quest’anno ha racchiuso in nove giorni di proiezioni fitte, spesso sold out, le diverse anime dei curatori delle sue varie sezioni (oltre al concorso, Rapporto Confidenziale, Cinema e Cinemi, Figli e amanti e Festa Mobile curate dalla direzione, è da apprezzare il lavoro di Davide Oberto per I documentary e I cortometraggi (a lui va il merito di avere portato al festival i nuovi lavori di Sebastiano D’Ayala Valva e Beate Kunath, autore il primo di Anche i travestiti piangono e di numerosi corti lesbici la seconda), e quelli di Massimo Causo per Onde e Stefano Francia Di Celle per la bellissima retrospettiva su Nagisa Oshima, nell’unico fine di tracciare, se è ancora possibile le nuove strade del cinema o le strade del cinema nuovo.
In Onde ha trovato spazio un omaggio a Ken Jacobs, figura mitica nella storia del cinema sperimentale americano (con Jonas Mekas), vitalissimo settanteseienne, che ha fatto del montaggio visivo il leitmotif di tutte le sue incursioni nella profondità dell’immagine, alla ricerca della sua vera essenza, fino alla terza dimensione (ne è una prova evidente Analgyph Tom, 2008, studio di un cinema che partendo dall’utilizzo del 3D negli anni sessanta, si fa operazione di recupero e rielaborazione), e fino all’analisi entomologica e geometrica di ogni fotogramma, come se l’immagine non appartenesse più a nessun discorso ma solo alla sua sostanza. In Onde ha trovato spazio anche un omaggio ad uno dei filmmaker e artisti visivi più interessanti del panorama contemporaneo: il belga Nicolas Provost, nessun lungometraggio ancora all’attivo, ma talmente bravo da meritarsi passaggi ai principali festival internazionali e, ora, anche al centro di personali.
Accomunabile a Jacobs per certi versi, in una linea trasversale, fuori tempo e spazio, Provost lavora sulla ricerca del fenomeno, riflette sulla grammatica del cinema e sulla relazione tra arte visiva ed esperienza cinematica, relazione che puntualmente trasforma in poesia. Tra i suoi titoli da non perdere il corto queer Induction, del 2006.
Un omaggio alle ga-nime giapponesi, nuovo trend dell’animazione giapponese, film più corti delle anime, illustrazione e voce fuori campo, dieci lungometraggi e una buona selezione di corti tra cui segnalo Contre-Jour, 2008, di Christophe Grandet e Matthias Muller, nominato al Teddy 2009 e Notturno (2009) di Mario Santini, chiudono una sezione che ha offerto la visione di uno dei film più interessanti del Festival: Saturn Returns dell’israeliano Lionel Shamriz (2009).
Regista di Japan Japan, storia gay presentata a Locarno ma dalla circuitazione trasversale, in grado si sorprendere per le sue soluzioni visive anche un pubblico di abituali fruitori di cinema, Shamriz si cinemta stavolta con una storia lesbica girata a Berlino.
L’americana Lucy vive a Berlino con il suo migliore amico, Derek. La città fa da sfondo ad una vita notturna fatta di feste, musica e ogni genere di estremismo, in un tributo al punk underground; finché arriva Giulia, giovane israeliana, che si unisce a loro. Il film è un’indagine tra i rapporti multiculturali in una metropoli, Berlino, dalla storia travagliata e scissa, che ha dovuto reinventarsi negli anni, proprio come viene richiesto alle storie che accadono ai nostri protagonisti, costretti alla maturità in un processo di simbiosi con l’ambiente in cui vivono.
In un Festival che ha visto vincere per la prima volta un film italiano (vittoria anche del premio FIPRESCI), La bocca del lupo di Pietro Marcello (preso da Bim per la distribuzione), amore carcerario tra Enzo e la trans Mary, film di genere fuori genere e fuori formato prodotto da Dario Zonta per Indigo, dal comune di Genova e dalla Mediateca Regionale, e in cui la poesia della storia di questo amore si interseca con la storia di un’altra città (Genova, tra passato e presente, con immagini tratte da archivi e contemporanee), momenti importanti sono stati senza dubbio tutte le proiezioni della retrospettiva dedicata a Nagisa Oshima (che ha portato a Torino Charlotte Rampling) la consegna dei premi a Emir Kusturica e alla Zoetrope di Coppola, di cui si è potuto vedere il bellissimo Tetro (Ritratti di famiglia), forse uno dei film migliori di questa stagione, l’attesa proiezione degli ultimi film di autori di talento come François Ozon (irrisolto) e di Christophe Honoré (un po’ manierista, ma bello), nonché un piccolo omaggio al regista di un altro film carcerario, Bronson: il danese Nicolas Winding Refn.
Nella nutrita schiera di film a tematica lgbt, Le Roi de l’évasion di Alain Guiraudie spicca per intelligenza, ironia e un originale sguardo sul cinema e nel cinema che non ha troppi punti di rifermimento. Opera terza (se si escludono i mediometraggi) sulla strada del western-gaucho con sesso a gogo senza tabù e mai volgare, Guiraudie è un autore scoperto in Italia, proprio a Torino, grazie a Roberto Turigliatto e Davide Oberto. Le Roi de l’évasion è un film grottesco, una quasi improponibile storia in cui Armand, gay obeso e annoiato, diviene oggetto delle attenzioni della sedicenne Curty, dopo averla salvata da un’aggressione. Tra vari avvicendamenti e personaggi che sono veri e propri caratteri della Commedia dell’Arte, Arman decide di fuggire e portarla via con sé in un film dalla rigorosa e programmatica prolissità, utopico, burlesco e forse senza morale che conferma il modo di fare cinema di un vero e proprio talento.
Cosimo Santoro