All’età di 89 anni è morto il regista svedese Ingmar Bergman, ne ha dato l’annuncio la figlia Eva. Da diversi anni, dopo la morte della moglie Ingrid, il regista passava gran tempo dell’anno nella sua casa sull’isola di Faaro, nel mar Baltico, dove ha ambientato anche gran parte dei suoi film e dove, secondo le parole della figlia, ha serenamente terminato i suoi giorni. Bergman è senz’altro uno dei più grandi registi di tutti i tempi, un appassionato esploratore delle profondità dell’animo umano, interessato a portare alla luce anche i più sotterranei e ambigui movimenti dello spirito e del sentimento dei suoi personaggi.
Nato a Uppsala, a nord di Stoccolma, il 14 luglio 1918, figlio di un pastore luterano della corte reale svedese, fu segnato da una severa educazione religiosa. Studiò all’università a Stoccolma e si avvicinò alla regia dal teatro facendosi le ossa su Shakespeare e Strindberg.
Ha realizzato più di 40 film, ottenendo i più ambiti riconoscimenti, tra i quali ben tre Oscar.
Tra i suoi capolavori sono due i titoli che hanno espliciti riferimenti all’omosessualità: “Il Silenzio” del 1963 e “Persona” del 1966, anni in cui era difficile trovare questi temi in altri film. In entrambi i film abbiamo complicati personaggi femminili che si confrontano con sentimenti lesbici.
Ne “Il silenzio”, Ester (Ingrid Thulin) è la sorella lesbica repressa di Anna (Gunnel Lindblom) che, mentre si trovano in viaggio in una città dell’Europa orientale, inaspettatamente si ammala e devono fermarsi in un lussuoso hotel. Qui tutte le loro segrete tensioni vengono in superfice ma il personaggio di Ester acquista sempre più caratteri negativi che per contrasto valorizzano la positività della sorella eterosessuale.
In “Persona” abbiamo una intricata storia tra Elisabeth (Liv Ullmann), un’attrice famosa che improvvisamente decide di non parlare più, e Alma, l’infermiera che l’accompagna nella convalescenza su un’isola. Alma conduce una vita apparentemente convenzionale mentre Elisabeth sta sfuggendo dal marito e dal figlio con la scusa di una crisi tra il suo ruolo di madre e quello di artista. Elisabeth, anche senza pronunciare parole, riesce a creare un’atmosfera serena tra lei e e Alma, favorendo un’amicizia sempre più profonda. In questa intimità Alma arriva a confidare il suo segreto a Elisabeth, rivelandosene profondamente innamorata. Dopo che Alma legge una lettera di Elisabeth al suo dottore in cui parla del suo segreto, smette completamente di parlare. Il rapporto tra le due donne diventa sempre più difficile fino alla scena in cui Elisabeth graffia il braccio di Alma succhiandone poi il sangue. Il film è un’intensa e sensuale esplorazione della relazione tra due donne.
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All’età di 79 anni è morto ieri nella sua casa di Honfleur, in Normandia, l’attore Michel Serrault (foto sopra), diventato famoso in tutto il mondo per il suo ruolo come Albin Mougeotte, compagno di Ugo Tognazzi, nella serie de “Il Vizietto”, derivato da una commedia che aveva già recitato in teatro più di 1500 volte. Nel film il suo ruolo, da perfetto casalingo a diva drag del night del marito, è assai più marcato e incisivo, dal punto di vista gay, di quello del timoroso marito ed è anche quello che maggiormente catturava il divertimento del pubblico. Nato a Brunoy da una modesta famiglia cattolica entra sedicenne in seminario. La sua passione per le donne non gli permetterà di prendere i voti, pur restando sempre un fervente cattolico. La sua carriera inizia esibendosi nei cabaret parigini del dopoguerra che lo portano poi al cinema nel 1954 dove si trova al fianco di Louis de Funes ne “Ah! les belles bacchantes!” di Jean Loubignac. Complessivamente girerà 135 film riuscendo a passare dai ruoli comici dei primi ai ruoli più drammatici e impegnativi degli ultimi, vincendo ben tre premi César (gli Oscar francesi) e un David italiano proprio per “Il vizietto”.
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La morte di Michelangelo Antonioni (94 anni), avvenuta lunedì sera 30 agosto nella sua casa di Roma accanto alla moglie Enrica, ci ha colpito profondamente. Nei suoi film non ha mai affrontato tematiche gay (se si esclude il capitolo italiano del film a episodi “I vinti”, massacrato dalla censura, dove i protagonisti potrebbero essere omosessuali), pensiamo anzi che Antonioni sia uno dei più grandi cantori dell’eterosessualità contemporanea (e del mondo femminile in particolare), ma la potenza figurativa dei suoi film, espressa con un innovativo culto delle immagini, dai paesaggi che diventano simboli di stati d’animo, ai visi e ai corpi ostentati in insistenti primi piani che non hanno bisogno di parole (indimenticabile Nicholson in Professione: reporter) non potevano colpire profondamente anche l’immaginario degli spettatori gay. Un’intera generazione di cinefili è stata educata dal cinema di Antonioni a guardare il mondo diversamente, a leggerne lo spirito attraverso i simboli, i silenzi, gli sguardi, le pause. Con Antonioni abbiamo capito che la fretta e il dinamismo di tanto cinema servivano solo a narcotizzare le coscienze, a nascondere la realtà, a privarci di qualsiasi spirito critico. A escluderci dai veri movimenti che ci possono interessare, quelli dell’animo umano, dei suoi desideri e delle sue vere aspettative, della sua perenne lotta contro l’incomunicabilità e l’alienazione.
Qui sotto una immagine del film “Persona” di Bergman