Varie
Ghosts from the past and the present inhabit the old neighborhood of San Berillo, in Catania. It is 1958: while brothels are being shut down all over Italy, San Berillo is razed to the ground and its inhabitants are deported to the suburbs. A piece of the neighborhood, however, remains intact and thousands of prostitutes from all over Italy find shelter there, creating one of the biggest red light districts in the Mediterranean. Until 2000, when a police raid forces the neighborhood’s inhabitants to abandon their homes once again. “I went to San Berillo to follow the ‘underground stories’ of those characters with whom you fall in love for their beauty and relentless attachment to life. For their surprising aptitude in reading human beings while also being easily fooled by the most unbelievable promises. For their ability to still have hope, despite everything. For their skill in opening your heart like a child’s and then being cruel like only those who have seen the abyss can be. And … (IMDB)
Fantasmi di ieri e di oggi popolano il vecchio quartiere di San Berillo.
1958: è l’anno della legge Merlin con cui in Italia si chiudono i bordelli, e anche l’anno in cui San Berillo viene raso al suolo e i suoi 30.000 abitanti deportati nel quartiere periferico. Di San Berillo ne rimane un pezzetto: un buco nero al centro della città, crocevia delle storie che l’hanno attraversato tra mito, cultura popolare e case chiuse; e dove dal ’58 si riversano migliaia di prostitute da tutta Italia, dando vita a uno dei quartieri a luci rosse più importanti del mediterraneo. Anno 2000: un blitz delle forze armate mette fine al quartiere proibito. Ancora una volta gli abitanti di San Berillo sono costretti ad abbandonare le loro case.
Holly e le altre prostitute rimaste vivono sospese in un paradosso temporale e urbanistico. Affacciate dalle porte finestre sulle vie desolate e deserte, attendono quei pochi, affezionati clienti che ancora le vanno a trovare. Tutte vogliono andarsene, ma nessuna di loro sembra riuscirci. Il fantasma di Goliarda Sapienza ritorna tra i vicoli in cui è cresciuta per ritrovare “l’architetto di lava” e quegli esseri mezzo donna e mezzo uomo che vi abitavano. Franco, un ottantenne, vive nella sua casa fatta di macerie e sogna della sua giovinezza, quando lavorava nei bordelli dove puliva i letti delle prostitute. Orazio, un deportato che si aggira per il quartiere con la sua insanabile nostalgia per il mondo perduto, tenta di portarsi a casa le pietre e i resti del quartiere distrutto. Vincenzo, un’altro deportato, vive da solo, abbandonato da moglie e figli, nel quartiere impersonale costruito appositamente per i vecchi abitanti del centro storico.
San Berillo, con i suoi fantasmi che si aggirano per le stradette, e che se solo ti fermi ad ascoltare prendono vita come voci avide di spazi e tempi per esplodere in un canto doloroso e ironico, è lo scenario dismesso dell’eterna migrazione degli ultimi, dei miserabili.
San Berillo è un luogo della fantasia; un non luogo nella realtà irrappresentabile; un cimitero di storia e cultura e il ventre da cui è generato il segno smarrito del mondo antico che risuona, tra il rombo di un motorino e l’altro, attraverso i secoli. E i suoi fantasmi ci sognano, a noi che siamo gli spettatori-attori ad occhi chiusi di un dramma in atto unico: il vuoto, l’oblio, l’incessante ripetersi del tutto che non ha mai una forma definitiva, ma vive in queste storie che tracciano, dolorose e ironiche, una continuità tra un passato idealizzato e un presente da ristrutturare. (Produzione)
NOTE DI REGIA:
Sono entrato a San Berillo per seguire le “storie del sottosuolo” di quei personaggi di cui facilmente ci si innamora senza nemmeno bisogno di mitizzarli. Li ami per la loro bellezza dietro quelle maschere di dolore e il loro continuo innamoramento verso la vita; per la loro sorprendente capacità di leggere l’umano e nello stesso tempo la facilità con cui vengono tratti in inganno con le più irreali promesse; per il loro sperare nonostante tutto; per la loro capacità di aprirti il cuore come dei bambini e poi di essere crudeli come soltanto chi ha visitato l’abisso è in grado di essere, e per la facilità con cui alla fine riescono a ridere di tutto, della miseria ladra e di se stessi.
Poi ho trovato un’altra storia, che scorreva sotto traccia, una storia che mi apparteneva più di quanto non mi appartenesse la prostituzione e i cui segni emergevano caoticamente, la storia di una città sventrata dal di dentro e che gli abitanti avevano rimosso: l’asportazione del cuore artigiano e popolare che ha alienato architettonicamente la città e il senso di realtà di chi ci vive. Di questa storia quei personaggi sono parte integrante nonostante la ignorino del tutto, testimoni indiretti che attraverso la loro “questione privata” ci proiettano nei paesaggi ipotetici di una città che “ripete i segni affinchè qualcosa arrivi a fissarsi nella memoria”.
Non ho cercato di raccontare la storia di un quartiere, che è san Berillo ma potrebbe essere uno dei tanti quartieri popolari della vecchia europa, con la linearità di una narrazione logica (perché ogni nostalgia è patetica e ogni presa di posizione un torto alla veridicità degli eventi), ma ho tentato di ascoltare le pietre, le insegne residue delle vecchie attività dismesse da decenni e ancora aggrappate ai cornicioni delle porte spesso murate; ho cercato le storie nei numeri civici senza alcuna corrispondenza, aggrappati a pareti restate in piedi solo per metà, seguendo i segni residui della vecchia città e lasciando che si intrecciassero tra loro, come fossero delle eco disperse tra i vicoli che ho provato a registrare, senza porre alcuna questione che non fosse linguistica.
Allo stesso modo, non ho mai pensato di realizzare questo film secondo le regole linguistiche del documentario d’osservazione, più o meno nobilitato dalle intenzioni d’autore e dal suo rapporto con i personaggi. Non soltanto per il già visto o perché sarebbe stata la strada più facile da seguire, o perché, data la natura della loro particolarità, quei personaggi sarebbero finiti inevitabilmente per apparire come le scimmiette dietro alle gabbie di uno zoo dove ci rechiamo per il nostro diletto, ma perché la scommessa era quella di realizzare una struttura drammaturgica inusuale in cui il soggetto non è un personaggio e le sue vicende, ma il quartiere. In questa ricerca è stato fondamentale la guida de “Le Città Invisibili” di Italo Calvino, maestro nel dare vita a soggetti inanimati, e l’incontro con un’altro fantasma del quartiere: la scrittrice Goliarda Sapienza.
In questo modo i personaggi di questo film sono diventati per me i narratori indiretti di un mondo che non potrebbero raccontare a parole e che non conoscono, così come San Berillo è l’immagine riflessa delle loro intimità, di una verità solcata nei loro visi come nelle pareti scrostate del quartiere.
Edoardo Morabito
CRITICA
Viaggio dentro un quartiere storico (e degradato) della città nel bel documentario di Morabito presentato a Torino: I fantasmi di San Berillo
La Sicilia e il cinema posseggono (da sempre?) un tratto in comune che suggella una liaison dangereuse ma allo stesso tempo fonte di inesauribile energia creativa. È risaputo che gli artisti siciliani sono ossessionati, a volte in maniera perturbante, da una necessità apparentemente ineludibile: il recupero archeologico della memoria storica di un luogo, con i suoi miti, i fantasmi, i paesaggi resi allucinati dal tempo trascorso, quasi che un simile recupero fosse l’unico modo per attuare la redenzione di un male atavico e non meglio identificato che incancrenisce la Sicilia dai tempi vaghi e oscuri del Mito. D’altro canto, il cinema come baluardo della memoria è un tema vecchio forse quasi quanto le origini stesse della settima arte. Il bel film di Edoardo Morabito – I fantasmi di San Berillo, presentato nella sezione dedicata ai doc italiani a Torino – a questo proposito, riesce a evitare le secche putrescenti di una certa attitudine isolana alla polverosa rievocazione del passato, proprio perché tenta la paradossale descrizione di un non-luogo, aprendosi quasi a un orizzonte metafisico.
La voce calda e suadente di Donatella Finocchiaro legge testi liberamente tratti da Goliarda Sapienza e Italo Calvino e ci accompagna, così, in un viaggio al termine della notte per i vicoli marciti dello storico quartiere San Berillo a Catania, cuore povero del capoluogo etneo e aggregatore di postriboli d’ogni sorta. La visuale offertaci dal film copre un arco di tempo che va dal 1958 (anno della legge Merlin sulla chiusura delle case di tolleranza) sino ai primi del 2000 e che ha visto in atto il più imponente sventramento urbanistico nell’Italia del dopoguerra, con masse di cittadini letteralmente deportati verso un Nuovo San Berillo dai contorni tanto fulgidi quanto ingannatori.
Una fotografia dai colori vividi, con la luce del sole siciliano che si insinua vorace per le stradine dai muri cadenti, oltre cumuli di immondizia e di macerie, coglie prostitute e trans in deshabillé, la pelle lattea e gonfia di cosce e seni vecchi al pari del quartiere entro cui si cela un’umanità marginale: un microcosmo “altro” e intangibile eppure, ecco il paradosso, a due passi dalla modernità. Morabito insiste sui volti rugosi, incisi dei suoi narratori-testimoni: la decrepita prostituta Holly con la sua disillusa rievocazione dei fasti erotici di un tempo, l’ottantenne Franco ex-pulitore di bordelli, e poi ancora Orazio e Vincenzo, due anziani “deportati”, il primo aggrappato a una buffonesca nostalgia per l’antica topografia di San Berillo, il secondo alle prese con una irrimediabile solitudine e i ricordi trasmessi dalla sua vecchia fisarmonica. È uno sguardo, quello di Morabito, per buona sorte avaro di moralismo e di nostalgia, ma inevitabilmente impregnato di dolore. Il disincanto è la reale chiave stilistica di un’opera che lascia trapelare la sottile indignazione di chi non riesce a rassegnarsi alle ferite inferte a una terra dove la bellezza sembra essere inestricabilmente connessa alla sofferenza. La Sicilia è anche questo: prendere o lasciare. (Gianfrancesco Iacono, Cinematografo.it)
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Nell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia è stato presentato, in concorso Ana Arabia, l’ultimo film di Amos Gitai. La macchina da presa del regista israeliano entrando in questo microcosmo che sopravvive dentro la città di Jaffa e nel quale convivono culture differenti, ci ha raccontato le storie dei suoi abitanti e quella speciale convivenza che azzera ogni conflitto.
I fantasmi di San Berillo, del catanese Edoardo Morabito, pur con forme e costruzioni del tutto differenti, compie un’operazione assai simile, anche, in qualche misura per gli intenti che coltiva. San Berillo è un vecchio quartiere di Catania oggi ridotto ad una estensione minima rispetto al passato a causa di un progressivo smantellamento delle abitazioni in favore dell’edilizia residenziale e popolare. Documenti degli anni ’50 accompagnati daIla solita voce stentorea e declamante, enfatizzano lo sventramento di San Berillo in favore di un procurato benessere ai propri abitanti. Oggi il quartiere sembra incastrato dentro un assedio di cemento e sopravvive a se stesso misurandosi, tra l’altro, con la vita difficile dei propri abitanti. San Berillo, o quello che ne resta, assolve il proprio compito continuando a rappresentare rifugio preferito, quasi zona franca, in cui hanno trovato alloggio prostitute e travestiti che convivono, seppure con sempre maggiori difficoltà, animando il quartiere e conservandone il mito.
Proprio su questo passato mitizzato gioca il film di Edoardo Morabito. Quelle storie e il ricordo degli abitanti del quartiere, sono ripercorse da un narratore che assume le vesti e le funzioni di un moderno Virgilio che guida l’occhio della macchina da presa trasformando in leggenda anche la banalità del quotidiano. Le vecchie case, i ruderi, gli anfratti abbandonati, le strade nei percorsi della memoria fanno da scenario, oggi come ieri, alle vite avventurose degli abitanti del quartiere, figure sopravvissute al disastro, persone ingannate dai fatti della vita, esistenze complesse, invisibili al mondo, non a caso anch’essi ricompresi nel titolo del film. San Berillo è il loro, il loro porto sicuro e sembra che non possa esserci altro posto per quelle persone se non un luogo leggendario come quello. Sono le parole di Italo Calvino e Goliarda Sapienza, lette dalla catanese Donatella Finocchiaro, a raccontare l’anima della città come luogo di convivenza tra desideri e sogni a definire le speranze che si coltivano e i sogni di ciascuno che sembrano sfumare, consumandosi in una quotidiana e persistente loro erosione.
I fantasmi di San Berillo è anche un film sulla memoria e sul presente di una città e sulla sua faccia nascosta, aprendo a quella condivisa invisibilità che è il frutto di un patto tacito e non scritto che lega le sopravivenze dei protagonisti a quella dell’intera comunità.
La vita del quartiere si fonda e si alimenta dell’ipocrisia del quotidiano, basta sentire una delle donne sui vizi segreti deiI fantasmi di San Berillo clienti,per comprendere quale distanza ci sia tra ciò che appare e ciò che è in realtà. Il film si avvale e si arricchisce anche dei reperti visivi di archivio. Brevi filmini pornografici d’epoca confluiscono, quasi naturalmente, nella narrazione per restituire l’immaginario del passato confermando un’impressione che ci accompagna durante tutta la visione del film. San Berillo rappresenta la destabilizzazione, la ribellione al perbenismo costituito e i suoi abitanti, forse involontariamente, vestono i panni dei sovversivi rispetto alla dominante e serpeggiante ipocrisia e che queste siano le intenzioni o comunque lo siano state inconsapevolmente ce lo conferma la canzone su cui scorrono i titoli di coda Città vecchia di (sentieriselvaggi.it)
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Come fosse un non luogo, uno spazio a cui hanno tentato di cancellare il passato e di nascondere il futuro. Questo è San Berillo, quartiere catanese distrutto negli anni cinquanta, i cui abitanti, ultimi come solo chi occupa le periferie può essere, a seguito delle legge Merlin del 1958, subirono una vera e propria deportazione sotto il proclama – come di consuetudine non evaso – di una nuova riqualificazione.
Pochi sapevano e sanno ancora che in quei vicoli si estendeva uno dei più grandi quartieri a luci rosse d’Europa. Vicoli bui, contorti e poco illuminati, metafora urbana della moltitudine di solitudini e vite disattese che di quelle anguste realtà erano i veri protagonisti. E allora a parlare sono tanto le immagini, tra repertorio e girato, quanto i personaggi che offrono i loro ricordi alla macchina di Morabito e, come una cornice cui spetta il difficile compito della sintesi, le parole di Goliarda Sapienza, che quelle zone le ha abitate, di Italo Calvino, di Vitaliano Brancati. Parole che passano dalla voce partecipata, incline alla narrazione, di Donatella Finocchiaro.
Restano i fantasmi a San Berillo, ombre di cui però non aver timore ma, al contrario, proprio come fa Morabito, da invitare al racconto. Così i volti che offrono testimonianza non si negano alla curiosità di chi osserva, assecondandola senza il timore di apparire stonati, anacronistici, incomprensibili. E poco importa allora se l’odore di “piscio” diviene quasi una traccia da seguire per riportare al presente suggestioni e pensieri che, con il favore degli anni, sembrano forse più dolci e meno duri di quello che furono in realtà. Non c’è scandalo – non può esserci se non nella puritana e bigotta ottica contemporanea – nella rievocazione di un eros per alcuni deviato ma in fondo disperatamente vitale.
Ogni ruga, ogni crepa, nell’uomo come tra le pietre che compongono le scalcinate strade, ospita fantasmi e Morabito riesce a scovare i nascondigli se non dei più interessanti, di quelli che meglio riescono a comporre il disegno che ha in mente. La regia osserva ma non si astrae ed è la scelta più giusta perché non potrebbe esistere un racconto del genere senza partecipazione. La mente corre a quel piccolo gioiello che è stato La bocca del Lupo di Pietro Marcello (vincitore del TFF 2009), ma solo per un attimo. In quel caso c’era una storia d’amore a sostenere e accompagnare la splendida ballata, mentre ne I Fantasmi di San Berillo l’amore pare essere più un timore che un’opportunità. E la voce di Fabrizio de Andrè con La Città Vecchia, che conclude il bel film di Morabito, sta a ricordare forse che per questi vicoli bui e nascosti, al contempo segreti e sfrontati, non esiste nord o sud, Genova o Catania, ma un unico luogo chiamato “altrove”. (Salvatore Salviano Miceli, Close-up.it)
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