Peter Cameron è l’autore del libro omonimo da cui è tratto il film di Roberto Faenza “Un giorno questo dolore ti sarà utile”. Il libro ha venduto più in Italia (oltre 100.000 copie) che negli USA, patria dello scrittore, e per questo l’autore si è detto felice che il film sia diretto da un italiano. Nelle varie interviste che Cameron ha rilasciato ha dichiarato di essere contento della trasposizione cinematografica, che rispetta molto sia lo spirito che il contenuto del libro (con qualche aggiunta e poche sottrazioni). Cameron è uno scrittore gay (ma guai a dirglielo, lui dice di essere gay e di essere uno scrittore, due cose ben distinte) che nel libro racconta molto della sua vita da adolescente.
Nel film si parla di gay solo una volta, quando il padre chiede al figlio se sia gay (nel libro anche la madre, in un altro momento, gli fa la stessa domanda) ma raramente abbiamo visto un film tanto gay come questo. Il protagonista, l’efebico James, ottimamente e sottilmente interpretato da Toby Regbo (che il New York Times inserisce nelle dieci migliori promesse dell’ultimo cinema) ci presenta quasi tutte le problematiche che un adolescente gay, sveglio quanto basta, deve affrontare per trovare il suo posto nel mondo. Naturalmente si sente diverso da tutti, coetanei compresi. Prova una naturale allergia per l’altro sesso, soprattutto quando gli viene chiesto quello che non può dare (la scena del ballo è esilarante). Si sente sempre osservato e giudicato da tutti, in primis dai genitori, che vorrebbero aiutarlo, ma come spesso accade predicano bene ma razzolano male e sono troppo presi da loro stessi, incapaci di ascoltare altro da sè (la madre è al terzo matrimonio che si conclude dopo due giorni, il padre è un mandrillo che si sta rifacendo la faccia). Altrettanto fa la sorella Gillian (una eccezionale Deborah Ann Wool, la giovane e affascinante vampira di True Blood) innamorata di un anziano professore sposato. James capisce bene che se lui è diverso gli altri sono ancora più diversi e strambi e allucinati di lui. Una soluzione potrebbe essere quella di rinunciare al mondo, visto com’è fatto. Fortunatamente questo proposito viene allontanato, grazie anche all’aiuto di due persone capaci di ascoltarlo: la nonna (Ellen Burstyn) e la psicologa (Lucy Liu) da cui viene mandato. La nonna che lo ama veramente e la psicologa che lo sa ascoltare. Entrambe capiscono quanto il giovane sia intelligente, sensibile e pieno di energia che aspetta solo di essere di essere indirizzata e coltivata. Ma sarà la sua prima esperienza sentimentale, l’attrazione che prova per il bel nero gay che lavora nella galleria d’arte della madre, a fargli capire qualcosa di più sulla vita e su se stesso. Dell serie che sbagliando s’impara.
Il film è forse ancora più amabile e coinvolgente del libro. Anzitutto perchè è facile, si segue con interesse crescente, non ha tempi morti e riesce a farci divertire e riflettere nello stesso tempo. I personaggi, che potrebbero facilmente risultare degli stereotipi, (il gay intelligente e sensibile, quello macho e cacciatore, la nonna comprensiva, la mamma disillusa, il padre mandrillo, la sorella allucinata, ecc.) riescono a stare sopra le righe grazie ad ottime interpretazioni e ad una divertita e sottile ironia autocommiserante che non risparmia nessuno.
Purtroppo gran parte della critica, soprattutto di destra, ha cercato di distruggere il film, spesso in modo scorretto, come quando Maurizio Acerbi de Il giornale dice che il film è insopportabile perchè “Per uno che professa che a lui «piace parlare poco» non sta zitto un istante; conversa, per novanta lentissimi minuti, con l’universo mondo, cane compreso“, confondendo la parola con il pensiero: parlare poco, come fa il nostro protagonista spesso solo con se stesso, non significa che non si possa pensare e riflettere, cosa che probabilmente è poco consona al suddetto critico, ma che è invece la struttura e l’anima stesso del film (e del libro).
Altri critici, come Emiliano Dal Toso di La Voce, hanno scritto che “Il protagonista Tony Regbo è da prendere a ceffoni dopo la prima scena” o, ancora il critico del Il Giornale, “Fossimo i genitori di questo «Giovane Holden dei poveri» lo avremmo già impacchettato e spedito lontano migliaia di chilometri; altro che Telefono Azzurro“, dimostrando così di essere perfettamente adatti per un ruolo da ‘adulti‘ in questo stesso film, che a quanto pare è riuscito non poco a coinvolgerli. Cosa volete di più da un film?