Tratto da una commedia teatrale di successo dello stesso Gallienne, un turbinoso one-man-show che incornicia il film e in cui lui stesso interpretava tutti i personaggi, altro non è che la sua autobiografia vagamente romanzata: Guillaume nacque nel 1972 in una famiglia parigina altoborghese (“fortunata, barocca, originale, cosmopolita e codificata, al di sopra di ogni cosa, anche dalla grossolanità – racconta l’autore -. Un ambiente dove, anche di fronte a sentimenti molto intensi, l’importante è non lamentarsi mai”). Cresciuto nell’elegante 16esimo arrondissement, Guillaume ha un’adorazione reverenziale per l’ingombrante mamma di origini aristocratiche russo-georgiane, grande fumatrice, dal carattere ispido e inacidito, e pessimi rapporti coi tre fratelli, aitanti e sportivi mentre lui si considera goffo e grassoccio. Fin da piccolo adora travestirsi di nascosto come i suoi due grandi idoli, l’Archiduchessa Sofia di Baviera – che guardacaso aveva un rapporto simbiotico con l’adorato figlio Francesco Giuseppe – e la sua celebre nuora, la principessa Sissi. Ma la mamma di Guillaume in realtà lo discrimina in quanto avrebbe fortemente desiderato una femmina (Les garçons et Guillaume, à table! Ossia “I ragazzi e Guillaume, a tavola!” è il titolo originale del film e la frase-mantra della madre che aveva relegato il figlio “diverso” in una stanza da solo). Così Guillaume cresce pieno di ansie e insicurezze, in un lungo percorso di definizione di sé e accettazione della propria omosessualità, fra medici e psicologi, quando s’innamora nel college inglese, in puro stile James Ivory, del belloccio Jeremy, desolatamente etero. Qual è il segreto del successo di questa bella commedia popolare ma mai volgare, svelta e ritmata (85 minuti secchi senza sfrangiamenti), molto sorvegliata e pronta a rimettersi subito in riga quando sfiora la farsa triviale? È il fatto che non si ride “di” un omosessuale, ma si ride “con” Guillaume e se ne condividono le esperienze tragicomiche – fa sbellicare la scena in cui viene accusato di razzismo perché non vuole partecipare a un’orgetta gay con ragazzi meticci – ed è geniale l’idea che l’ottimo attore della Comédie Française interpreti sia se stesso che sua madre in maniera così credibile che lo spettatore a volte dimentica che lei altri non è che Guillaume en travesti. E per trasformarsi in mammà ci volevano ben quattro ore di trucco quotidiano. Tanto più che lo spettatore italiano non può non pensare a una sorta di irresistibile Fantozzi in chiave queer soprattutto quando il protagonista si ritrova nella clinica in cui l’infermiera interpretata da Diane Kruger lo costringe a un imbarazzante lavaggio del colon. Ma non solo. Tutto sua madre è una caleidoscopica girandola dall’umorismo pungente che ruota intorno al concetto di identità, e non potrebbe essere più gender: Guillaume è uomo ma anche donna, femminile più che effemminato, gay ma anche etero (“sei così gay che sei diventato lesbica?”) in una continua ridefinizione di se stesso che va intelligentemente contro ogni etichettatura benpensante: “Il film, è chiaro, non parla di una verità in assoluto, ma certamente della mia verità – spiega Gallienne -. È la mia storia. La storia soggettiva di un attore. Alla ricerca delle emozioni che l’hanno splasmato”. Colpisce nel segno anche l’eclettica colonna sonora, dalla sfolgorante Don’t Leave Me Now dei Supertramp a una vorticosa Sevillana come nell’Almodóvar più passionale.
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