Ma quanto è bello questo vincitore del Leone d’Oro 2015, sorprendente opera prima di Lorenzo Vigas, un film che a Venezia aveva diviso la critica, secondo noi tra chi era in grado di capirlo e chi no, ma che a sorpresa aveva vinto il massimo premio. Ma anche quanto è triste e sconfortante nel ritrarrre con poche parole ed immagini essenziali, una società, quella di Caracas, simile a molte altre realtà caratterizzate da una profonda divisione in classi, tra poveri e ricchi, uniti forse solamente da una profonda e ancestrale omofobia.
Il regista Lorenzo Vigas ha detto di aver avuto ben presenti le tematiche pasoliniane, soprattutto quelle che indagano il sottoproletariato, anche se il suo stile, afferma, ha come riferimento quello più intimista e penetrante di Robert Bresson. Lo testimonia anche l’uso delle sfocature, spesso accentuate, soprattutto quando seguiamo il protagonista, Armando, che vogliono dimostrarci la lontanza, se non l’estraneità, di quest’uomo verso il mondo che lo circonda. Come esemplifica bene anche il titolo originale del film, “Da lontano”, più che la traduzione italiana “Ti guardo”, traduzione che potrebbe indurre alla tematica del “guardonismo”, assai fuorviante o perlomeno limitante. Il regista ha poi detto che il suo è più un film sulla solitudine e sulla mancanza della figura paterna, che sull’omosessualità. Ma queste chiavi di lettura, seppure di qualche pertinenza, non sono assolutamente sufficienti a spiegare le dinamiche del film (e soprattutto il terribile finale). Il film è infatti la storia di due figure prigioniere dell’omofobia dominante, cioè due omosessuali velati, anche a se stessi, che devono confrontarsi con una folgorante ed inattesa passione amorosa. La risposta che daranno non sarà però uguale per entrambi.
Armando, interpretato da un bravissimo, come sempre, Alfredo Castro, è un odontoiatra, proprietario di un laboratorio che produce dentiere, quindi una figura economicamente agiata, ormai vicino ai cinquanta, ma ancora completamente solo, senza famiglia e senza amici, che sporadicamente visita la sorella sposata e in attesa di adozione. Capiamo subito che hanno avuto un’infanzia difficile, con un padre che li tormentava senza dargli affetto. Significativo il fatto che la sorella abbia o voglia dimenticare quel passato, mentre il nostro Armando sembra ritenere quel passato, e quindi il padre, la causa di tutti i suoi mali (ad un certo punto dirà che gli piacerebbe vedere suo padre morto).
Dalla prima scena del film capiamo che Armando è omosessuale, in quanto lo vediamo pagare un ragazzo per eccitarsi nel vederlo nudo. Capiamo anche che è un omosessuale represso, cioè incapace di amare o anche soltanto di avere un contatto fisico con l’oggetto dei suoi desideri. E’ ancora prigioniero di un’omofobia interiorizzata, che lo costringe a non ‘sporcarsi’ e a reprimere sul nascere qualsiasi affettività. Riesce solamente ad affacciarsi, senza entrare, nel mondo dei suoi desideri. La paura, di se stesso, degli altri, del mondo, lo bloccano sul primo gradino, quello più facile, guardare ma non toccare. Probabilmente persino guardare un video porno per lui sarebbe troppo compromettente, dovrebbe infatti vedere amplessi e penetrazioni, cose che lo spaventano. Può solo accettare di vedere da lontano il corpo posteriore di un uomo, una immagine pulita, efebica. Quanto basta per eccitarlo e scaricarsi. Chissà cosa intendeva dire il regista quando ha dichiarato che “C’è molto di Armando in me, ma non so dire cosa”. Probabilmente voleva ricordarci che situazioni come quella di Armando sono molto più comuni di quanto pensiamo. Succede però che Armando incontra un ragazzo, Elder, (l’attore rivelazione Luis Silva, strepitoso nel trasmetterci le sue sensazioni), che lo affascina, probabilmente anche perchè lo insulta come frocio, lo pesta e lo deruba. Armando può quindi stare tranquillo, Elder è omofobo, quindi non è gay, ed è più macho e duro di quanto sembri all’apparenza. Un ragazzo così è l’ideale, è appagante senza essere compromettente. Quando Elder si troverà in difficoltà, Armando lo aiuterà come un padre. Vorremmo dire come un vero amante, ma Armando si spaventerebbe.
Tutta un’altra storia quella di Elder, sicuramente molto più vicina a noi e ai nostri tempi. Elder ha un lavoro come meccanico occasionale, ha una fidanzata, una madre ancora giovane e sveglia. Il padre non c’è, è in prigione per aver ucciso un suo amico. La nostagia per un padre affettuoso è forse il suo punto più debole, e probabilmente la cosa che più lo avvicinerà ad Armando. Passa le giornate coi suoi amici, ladruncoli per necessità, vicini al sottobosco delinquenziale della Caracas più degradata. Quando si scoprirà innamorato di Armando, il suo mondo verrà sconvolto. La madre lo caccia di casa e gli amici lo evitano. Ma Elder è forte, sicuro di sè, deciso ad andare fino in fondo, senza paura, armato del coraggio che solo un grande amore, una grande passione, può darti. Non possiamo dirvi chi sarà il vincitore, se la paura o la passione, se il passato o il futuro, se l’impetuoso Elder o l’impenetrabile Armando (purtroppo non entrambi, come il buon senso vorrebbe). In ogni caso ci troviamo davanti ad una grande lezione di cinema, cinema che è vita vera, sofferenze vere, capace di farci sentire le speranze e le disillusioni di un mondo in piena trasformazione, dove il vecchio e il nuovo faticano ad incontrarsi.
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autore: R. Schinardi (Gay.it) voto:
I padri ci osservano. Da qui e da lassù. Scabro, essenziale, profondamente fassbinderiano, Ti guardo (Desde alla’) di Lorenzo Vigas è un film bellissimo. È un raggio di luce tetra che unisce, per sempre, Armando, un uomo mesto, grigio, devitalizzato come i denti che ricrea in vetroceramica o simili nel suo laboratorio di odontotecnico, ed Elder, un ragazzo selvaggio, meccanico e ladruncolo, compulsivamente privo di controllo, persino nel mangiare e nel bere, ma vivo, fortissimamente vivo. E senza un padre. O meglio ce l’ha, forse, nel peggior carcere di Caracas. Ti guardo è una storia d’amore bellissima, che non ha bisogno di molte parole, di ‘spiegare’, di sorprendere lo spettatore con le svolte thriller, di conquistare con la malìa della sorpresa ad effetto. Anzi, provoca: diciamolo, è una storia incestuosa – osiamo, come osa il film! – tra un figlio che non ha mai perdonato suo padre e un figlio putativo che ha bisogno di un padre come di qualcuno da amare, sì, pure fisicamente (la scena d’amore tra le lenzuola è una delle più potenti e radicali viste ultimamente al cinema). Ricordiamo che nel cinema queer i rapporti padre-figlio raccontati con tale intensità sono rarissimi – persino un maestro come Sokurov si infuriò quando alcuni giornalisti osarono ravvisare spettri omosessuali nella relazione incestuosa nel sublime Padre e figlio (per il resto il ‘padre assente’ è più di uno stereotipo queer: ci vengono in mente solo papà gay – Beginners – o macchiette grottesche – il padre disperato con due figli gay nell’ozpetekiano Mine Vaganti).
Sì, perché Alfredo Castro, cileno, alter ego feticcio del Maestro Pablo Larrain, non solo è uno dei più grandi attori viventi, ma suona armonie celestiali in perfetto vibrato con Luis Silva, puro istinto e qualcosa di Brando da giovane, bocca semiaperta come Adèle Exarchopoulos di La vie d’Adèle ma più animale selvatico, il cui corpo non appartiene né mai apparterrà ad Armando che paga solo per guardare, e masturbarsi in silenzio, ‘da lontano’, come recita il titolo originale. Ma quel padre vivente, che Armando non vorrebbe fosse tale, c’è, col suo passato, col suo segreto, con quel carico di colpe che ‘hellingerianamente’ Elder rischia di caricarsi addosso, anche perché ‘essere frocio’ in Venezuela è uno stigma che ti esclude in automatico dal gruppo di amici, dalla famiglia, dall’intera società.
C’è qualcosa di profondamente morale che rende Ti guardo un superlativo Leone d’Oro a dieci anni esatti dallo stesso premio andato al cultissimo Brokeback Mountain, e chissà che non conquisti anch’esso un suo pubblico affezionato, e non solo una stretta cerchia di cinefili osservanti. E di fassbinderiano c’è quella svolta sadomasochistica analizzata persino ‘chirurgicamente’, quel senso dell’amore come forma di potere e dominazione, quello scambio materiale (ah, la macchina come simbolo ‘borghese’ del passaggio di consegne generazionali da padre a figlio!).
Ti guardo è l’esordio folgorante di un neo-regista, Lorenzo Vigas, diventato papà proprio a ridosso del premio veneziano, con un’idea fortissima di ‘senso della visione’: esclude con il flou ciò che deve rimanere fuori campo; pedina i personaggi con discrezione, alla giusta distanza, come facevano Zavattini e, oggi, i fratelli Dardenne; non concede nulla al piacere onanistico della visione inutile, ritualistica, a suo modo ‘masturbatoria’; evita orpelli inutili e riesce persino nel guizzo melò – forse sì, l’unico orpello, eppur necessario, per capire il rapporto tra Elder e la madre – nella scena della festa con quel bacio clandestino, così importante, così significativo. E così il finale spiazzante, vera mannaia visiva, che ha causato lacrime e commenti accesi: non può lasciare indifferente nemmeno il più cinico degli spettatori.
E ancora una volta il cinema queer sudamericano si dimostra la fucina più stimolante e intelligente a livello mondiale, capace di sorprendere e non ripetersi – da Pablo Trapero allo stesso Larrain, da Lucia Puenzo a Santiago Otheguy, è ormai una scuola di massima autorevolezza, in grado di descrivere con lucido e consapevole rigore una società inquieta, ancora una volta ‘senza padri’ e senza punti di riferimento, divisa tra mercificazione totalizzante (anche in Ti guardo ogni rapporto è regolato da scambi di denaro sonante) e povertà etica, in cui l’effetto forbice – ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri – è ormai sotto gli occhi dell’intero continente, anzi, di tutti e cinque.
“In Venezuela uscirà in Aprile, probabilmente non senza polemiche – spiega Lorenzo Vigas – vista la forte omofobia del mio Paese. Il film è tutto basato sulla figura di Armando e sulla sua incapacità di avere empatia con gli altri, ma racconta anche di una società in cui le madri dei ragazzi li preferiscono assassini piuttosto che gay”.
Non c’è nemmeno bisogno di musica extradiegetica per sottolinearne la forza emotiva, basta uno sguardo. E dopo un film così senti solo un desiderio, che suona come un’implorazione, un bisogno impellente: Ti Riguardo. Con riguardo. Prima possibile.