• G. Mangiarotti

The Danish Girl

Assimilata e digerita (ma non ovunque, vedi le ultime vicende politiche del nostro paese) la questione omosessuale, si è passati negli ultimi mesi ad affrontare la problematica trans. Serie tv come la splendida “Transparent” e personaggi come Laverne Cox, Caitlyn Jenner o la nostra Vittoria Schisano hanno riempito le pagine dei media, sebbene già dieci anni fa, un film come “Transamerica” avesse portato alla ribalta una tematica difficile da accettare e spesso confinata nei recinti della prostituzione e del degrado sia fisico che spirituale. Ben vengano quindi film come questo “The Danish Girl”, tratto dall’omonimo romanzo di David Ebershoff che si basava sui diari di Lili Elbe, che come dice la didascalia finale del film, sono stati uno dei principali riferimenti della comunità transgender. Il film ci racconta la vera storia del pittore danese Einar Wegener, sposato e apparentemente innamorato della moglie, che scopre pian piano di essere una donna nel corpo di un uomo. Galeotto fu un cambio d’abiti richiestogli dalla moglie, pittrice anche lei, per poter terminare un quadro in assenza della modella. In seguito, onestamente, Einar ammetterà di aver sempre percepito questa abissale differenza fra il suo corpo maschile e il suo cervello femminile. Quello che solitamente spinge una persona trans ad uscire allo scoperto è però anche l’attrazione per persone dello stesso sesso, cosa che spesso crea confusione tra l’essere omosessuale e l’essere transessuale. Il problema per la maggioranza dei trans è quindi doppio, orientamento e genere sessuale. Einar vuole uscire dall’ambiguità, vuole essere una donna, trovare un marito ed avere dei figli. Una sfida immane ancora oggi, figuriamoci cosa voleva dire nei primi decenni del novecento. La sua vita deve essere stata un inferno, tra esami medici inadeguati, cure violente ed assurde, minacce di venire ricoverato come pazzo, pestaggi ed insulti, e la sua decisione di rischiare tutto, anche la vita, pur di arrivare ad una agognata liberazione. Il film però, pur facendoci intuire tutto questo, sceglie di rimanere quasi sempre su toni delicati, sfumati, focalizzato sull’anelito femminile del protagonista, con ripetuti primi piani sulle sue languide pose, sulle mani che gli incorniciano il viso, con l’unica trsgressione di una scena che ce lo mostra nudo davanti allo specchio mentre cerca di nascondere il pene (sicuramente quello di una controfigura particolarmente dotata) tra le cosce. Comprendiamo che l’intento del regista sia stato quello di far comprendere una tematica difficile e forte ad una platea la più vasta possibile (per intenderci quella attenta agli Oscar), ma il risultato è quello di un’opera un po’ troppo affettata, timorosa di andare contro il buon gusto, e alla fine più astratta che reale, come il paesaggio di un bel quadro che non ritroviamo mai nella realtà. E’ solo attraverso il personaggio di Gerda (interpretata da Alicia Wikander, chissà perchè considerata attrice non protagonista nei vari premi ai quali è stata meritatamente candidata), la coraggiosa e devota moglie, che ci arrivano i segnali di un terribile dramma esistenziale. La forza del suo amore, la paura di perderlo, l’angoscia per quanto sta accadendo, traspaiono in ogni suo sguardo od espressione e sono i momenti che più coinvolgono lo spettatore.
Bisogna comunque dire che la tematica della transessualità è affrontata con correttezza e cognizione di causa. Molto esplicativa la scena del primo bacio omosessuale di Einar, accolto con passione fino a quando l’amico (un omosessuale) non pronuncia inavvertitamente il suo nome maschile al posto del femminile Lily. La persona transessuale non può riconoscersi in un rapporto omosessuale, sarebbe come continuare a negare se stessa. Molto meglio per Einar andare a vedere l’esibizione di una donna che si spoglia e con la quale riesce ad identificarsi, come in uno specchio.

—————-

autore: R. Schinardi (Gay.it) voto:

“Credo che il matrimonio sia la sola cosa a cui ambire nella vita […] Dà origine a un’altra vita, qualcosa di più di entrambi”. Lo dice a metà film un lodevole Eddie Redmayne alias Lili Elbe (a sua volta alias Einar Wegener) nel sofisticato ma un po’ ampolloso The Danish Girl di Tom Hooper, raffinato ritratto-biopic ad alta sontuosità estetizzante tratto dall’omonimo romanzo di David Ebershoff sulla prima trans operata della Storia: pittore piuttosto stimato di Copenaghen, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento ma, soprattutto, a cavallo fra l’identità di un rispettabile marito borghese e l’identità femminile di fascinosa donna seducente che prevarrà, fatale.
In piena riabilitazione mediatica – soprattutto televisiva, in realtà – dell’universo transessuale, finalmente non più relegato a morbosità e/o prostituzione, lo sfarzoso The Danish Girl rappresenta soprattutto la (ri)scoperta della pioniera assoluta del cambiamento di sesso, questo pittore diafano, esile, timido, tale Einar Wegener, nato nel 1882 e sposatosi a 22 anni con la graziosa collega Gerda Gottlieb (lui paesaggista riconosciuto, lei più ‘commerciale’ e dedita a riviste di moda, un po’ frustrata perché non ‘sfonda’ nel mondo artistico come il marito).
Il bisogno di sostituire una modella in tutù che doveva posare davanti alla moglie diventa per Einar, travestito da donna, prima un gioco puerile poi la scoperta di un profondo bisogno identitario tenuto nascosto per imposizione sociale. Egli ebbe già rapporti in gioventù con un bellone virile, assai ben interpretato da Matthias Schoenaerts, al punto che Lili Elbe non si rivela solo un fugace sogno di essere ‘diversi’ per una sera ma diventa la sua anima profonda, a cui si deve adattare con lenta e problematica accettazione, anche l’innamorata Gerda, in forte turbamento quando comprende che il ‘gioco’ è andato troppo in là per non essere preso sul serio.
Il travaglio identitario è vissuto, quindi, non solo da Einar ma anche dalla moglie stessa (Alicia Wikander, palpitante e cocciutamente risoluta, assai brava), al punto che la vicenda ha in sé alcuni interessanti germogli gender: sembra quasi la storia di una coppia lesbica, poiché Gerda pare accettare che il marito viva la sua parte femminile vestendosi da donna in casa (e quando lei teme il tradimento di lui col delicato Henrik – l’attore gay Ben Whishaw – lui la rassicura che non può esserci nulla poiché Henrik è omosessuale!). Eddie Redmayne riesce a incarnare con convinzione il ‘doppio’ ruolo di Einar/Lili, alternando prima fluidamente la compresenza delle due personalità – un dottore vuole persino rinchiuderlo diagnosticandogli la schizofrenia – e poi una lenta predominanza della ‘rinata’ Lili Elbe.
La seconda parte, quella parigina e poi tedesca (a Dresda viene effettuata l’avanguardistica operazione di cambio di sesso seguita da una seconda in cui si tenta la ricostruzione dell’utero: in realtà Einar subì cinque interventi) è un po’ semplificata e viene tranciato l’impatto mediatico dell’epoca che portò il re danese Cristiano X a invalidare nel 1930 il matrimonio di Einar e Gerda.
The Danish Girl colpisce soprattutto a livello formale per la fattura estetica: ecco quindi tutto un fiorire di satin ricamati, pizzi, lazzi svolazzanti e preziose fougères. Gli ammiratori del genere bei guardaroba ed accessori apprezzeranno la stupenda confezione che comprende anche le musiche avvolgenti firmate dal sempre elegante Alexandre Desplat.
Quattro nominations agli Oscar – oltre agli impeccabili attori protagonisti, i mirabili costumi di Paco Delgado e le magniloquenti scenografie di Eve Stewart e Michael Standish – nonché un generoso Queer Lion al Festival di Venezia: il potente dramma venezuelano Ti Guardo di Lorenzo Vigas, già Leone d’Oro, è oggettivamente più bello, ma il premio LGBT va probabilmente inteso sia per la qualità tecnica complessiva che per il significato ‘politico’ protrans. Un cut definitivo sarebbe servito, oltre che a Einar, anche al film stesso che uscirà in Italia dopodomani: una scorciatina di un quarto d’ora (il film dura due ore, eccessive) avrebbe giovato.

Effettua il login o registrati

Per poter completare l'azione devi essere un utente registrato.