E’ forse la presenza testimoniale di Ninetto Davoli la chiave di accesso al “PASOLINI” di Ferrara. Nella transizione dal Ninetto in quell’Eduardo De Filippo che non fu mai realizzato nel progetto incompiuto “PORNO-TEO-KOLOSSAL” e a cui ora il regista italo-americano suggerisce una possibile forma mettendolo al fianco di Riccardo Scamarcio, diventato il Ninetto di oggi; la nuova coppia Epifanio-Nunzio, il vecchio mago alla ricerca del nuovo Messia e il suo giovane assistente, sul ricalco della storica coppia Totò-Ninetto.
La partecipazione di Davoli non come semplice tributo al regista scomparso, ma come corpo che continua a vivere a quasi mezzo secolo dal delitto di Ostia, un corpo che può ancora agire, esprimersi, palpitare quanto meno nella forma del cinema. Ne è la riprova il modo in cui è girata l’infernale sequenza della città di Sodoma, con gli accoppiamenti carnali tra gay e lesbiche, accoppiamenti destinati a perpetuare la riproduzione della razza umana, tra due schiere di confratelli e consorelle che si insultano con le peggio espressioni di odio omofobico. Filmandola in una Roma esibita nella sua assoluta contemporaneità con tanto di Piramide Cestia ingabbiata nei lavori di restauro, Ferrara non va in cerca di mascheramenti e illusioni, ma riporta tutto esplicitamente ai tempi di oggi, le considerazioni come le location.
Negli attuali tratti somatici di Davoli, non più garzoncello scherzoso ma uomo quasi prossimo alla terza età, in questo serissimo gioco di transizioni non solo metaforiche, va a collocarsi un percorso nella psiche e nelle idee dell’intellettuale-poeta-regista sorpreso e raccontato nell’ultimo giorno di vita. Ferrara non intende tanto regalare a Pasolini le fattezze di un pur mimetico Willem Dafoe, ma collocarlo all’interno di una tragedia che si fa grande del proprio minimalismo. Le sembianze gli sono negate dall’ombra che lo avvolge già nella scena dell’inizio; collocato nel buio della notte romana o nella sala di montaggio, è già dentro l’ombra della morte che lo attende. L’oscurità lo richiama di continuo, sia nella realtà sia nelle immaginazioni, e quando PPP non scompare nel buio si annulla nelle sue parole, nei suoi sogni, nelle lacrime della famiglia che lo piange nel drammatico finale. E’ come se Ferrara gli negasse l’autenticità di un corpo anche quando lo porta in scena.
Per cercare complicità intellettuale con lui, per dare una forma idonea alle idee, alla complessità delle posizioni, usando frammenti da romanzi ed editoriali, interviste e lettere, pagine di “PETROLIO” e sequenze di “SALO’”, lacerti rubati a tutti i generi espressivi affrontati da Pasolini. A ciascun frammento è affidato il compito di restituire solo una tessera dell’articolata e contradittoria figura che furono l’uomo e l’intellettuale in una drammaturgia di matrice brechtiana che chiama in causa l’intervento in primis dello spettatore a ricostruire l’interezza della figura. Le notizie di nera sul Corriere, i consigli alla cugina di trascrivere le telefonate notturne di Penna, i differenti corpi violati dei giovani di Salò, l’incidente dell’aereo in “PETROLIO”, la distruzione dell’utopia in “PORNO-TEO-KOLOSSAL” compongono tutti la partitura della fine e insieme dicono in modo preciso delle abitudini personali di Pasolini senza attribuirgliele direttamente, come nella mirabile sequenza del Pratone del Casilino in cui vediamo l’alter-ego letterario del poeta impegnato in una serie di fellatio quasi da cinema hard (qualcuno se ne stupisce ancora in questa Venezia 71?). Però senza commozione, senza disperazione, senza un autentico sanguinare.
Questo Pasolini è una creatura impalpabile, che fisicamente non si muove quasi mai, fatta della sostanza dei sogni, partorita dalla notte, che usa parole tratte solo dai testi originali. E’ una creatura quasi spettrale che gira in casa come nelle strade di Roma col passo impalpabile di un ectoplasma. Con rassegnazione attende, con rassegnazione si muove, con rassegnazione si esprime. Aspetta che una delle sue sbandierate discese all’inferno sia quella del non ritorno. E se per lui la speranza è morta, svanita al pari del sottoproletariato e con il livellamento sempre più imperante della società dei consumi, pur ugualmente continua ad amare la vita con una disperata vitalità. Non può astenersi dall’ammirare il figlioletto di Ninetto, la voracità di Pelosi-La Rana che divora gli spaghetti, l’energia contagiosa del ballo di Laura Betti.
Le riprese della sua morte riguardano forse più la famiglia che non il presunto complotto dei servizi segreti deviati. Ha più rilievo il pianto di Adriana Asti che rimanda a quello della Madonna nel “VANGELO SECONDO MATTEO” che non le reazioni pubbliche di intellettuali e masse popolari. Queste restano nello sfondo indistinto, quasi fuori schermo, nella lettura di Ferrara. Non è questo tipo di plausibilità ad interessarlo. Non la verosimiglianza linguistica che tanto ha scandalizzato qui al Lido, con Pasolini-Willem Dafoe, che parla in inglese quando esprime opinioni e pensieri e che si esprime in italiano quando si rapporta con Pelosi (quando mai avrebbe capito una lingua così ricca e colta?). Tale divergenza andrà purtroppo perduta nel doppiaggio previsto per le sale italiane. Sono particolari come questo che indicano le tracce da seguire nell’opera di Ferrara. Alla ricerca non del tributo, non del maestro, ma della nuova contraddizione, del nuovo scandalo. Perché prima di Pasolini c’era stato anche “qualcun altro” sceso sulla terra 2000 anni fa con l’intento di portare guerra e scandalo, di dividere i figli dai padri e i fratelli dai fratelli e alle parole di quel “quacun altro” il regista si è sempre dimostrato interessato.