C’è una scena bellissima, nell’emozionante e triste Moonlight di Barry Jenkins che abbiamo visto in Francia (uscirà nelle sale italiane il 16 febbraio per Lucky Red). Il piccolo Chiron, bullizzato dai coetanei e quasi adottato da una coppia di colore perché la mamma è ormai dipendente dal crack, chiede al neo-papà Juan: “Che cos’è un frocio?”.
Lui, imbarazzato, spiega che si tratta un termine dispregiativo per omosessuale. “E io sono un frocio?” affonda Chiron. Osservando la sua donna, Juan gli chiarisce che al limite sarà gay, non frocio, ma lo saprà a tempo debito, ora è troppo presto. C’è un’intensità, un pudore, una tenerezza genitoriale che da soli varrebbero il film.
È profondo e commovente, questo sensibile trittico di formazione sulla ricerca d’identità, tre significativi episodi nella vita di un afroamericano gay a Miami, interpretati da tre attori differenti (Alex R. Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes) e intitolati con i nomi/soprannomi del protagonista (Little, Chiron e Black).
Ma è anche un dramma crudo, senza sconti, sulla difficoltà di emancipazione sociale di chi è immerso fin da piccolo negli slums della droga e dello spaccio, e il cui unico riscatto è aver successo proprio in quell’ambiente – Chiron diventa un dealer come Juan e i fornitori di mamma Paula – e sfoggiare denti dorati o collanone iperkitsch. Ma per un gay nero è sinonimo di condanna esistenziale: il regista rende benissimo sullo schermo gli abissi del bullismo omofobico, il clima di ossessiva caccia all’omosessuale in cui è costretto a vivere Chiron, terrorizzato da chi l’aspetta fuori da scuola pronto a trasformarlo in una maschera di sangue.
Il capitolo più riuscito è l’ultimo, quello dei bilanci e dei rimpianti, quando Chiron si è costruito un corpo-corazza di muscoli protettivi e lucidi ma il suo cuore è rimasto ancorato al ricordo del suo unico amore di gioventù, Kevin, il quale ha in serbo una sorpresa dopo dieci anni di assenza.
La forza di Moonlight sta anche nel saper gestire con abilità il côté sentimentale che non sfocia mai nel melodrammatico: una mano immersa nella sabbia risulta così più espressiva di un nudo in primo piano o una scena di sesso esplicito. E la scena finale è probabilmente la più bella chiusa queer degli ultimi anni, paragonabile a quella analoga del capolavoro di Kechiche, l’immenso La vita di Adele.
Magnifica la colonna sonora ipnotica firmata Nicholas Britell, in grado di spaziare con agilità dal Laudate Dominum di Mozart, nella scena della partita con la palla di carta, all’immortale Cucurrucucu Paloma di Caetano Veloso.
Tratto dall’opera teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue (Al chiaro di luna i ragazzi neri sembrano blu) di Tarell Alvin McCraney, ha conquistato il Golden Globe come miglior film drammatico e può vantare ben otto nominations agli Oscar: ma battere il favorito La La Land – forse il miglior musical dai tempi di Dancer In The Dark ma comunque non un capolavoro – sarà molto difficile anche perché Moonlight è un piccolo film indipendente senza vistose ‘sponsorizzazioni’ hollywoodiane. Potrebbero aspirare alla statuetta gli attori non protagonisti Mahershala Ali che incarna con acume lo spacciatore paterno Juan e la londinese Naomie Harris, ovvero l’intensa mamma tossicodipendente Paula. Anche la sceneggiatura non originale, essenziale e precisa, scritta dal regista insieme all’autore teatrale Tarell Alvin McCraney, ha buone possibilità di vittoria.
Da vedere assolutamente.