• R. Schinardi (Gay.it)

Melancholia

Inizia dalla fine il nuovo, disturbante, stranissimo lavoro del grande Lars Von Trier, Melancholia. E non una fine qualsiasi, ma quella totale, assoluta, nientemeno che della Terra, e quindi di ogni forma di vita conosciuta, per la collisione col pianeta che dà il titolo al film. Un prologo virtuosistico alla Antichrist di quasi otto minuti con immagini al ralenti visionarie, bellissime, tra realtà e sogno, accompagnate dalle note altisonanti del Tristano e Isotta di Wagner (anche criptiche: nella quinta inquadratura, la diciannovesima buca nel campo da golf con diciotto holes potrebbe riferirsi alla voce gergale che significa ‘seppellire chi ostruisce il gioco’).
Ma qui non siamo in Armageddon o 2012, e l’Apocalisse cosmica è la metafora naturalistica del tema affrontato nel film, la depressione (senza essere affatto deprimente, e non è facile). Bipolare, verrebbe da pensare, visto che è diviso in due capitoli molto diversi tra loro ma in un certo senso speculari, ambientati entrambi nella splendida tenuta di un castello svedese: il primo è dedicato alla bionda pubblicitaria Justine nel giorno del suo matrimonio, mandato a rotoli per colpa del suo “male oscuro” incapace di eclissarsi persino nel giorno che dovrebbe essere tra i più belli della sua vita; il secondo alla sorella razionale e apparentemente equilibrata, la bruna Claire, con marito scienziato e figlioletto, incapace di accettare l’ineluttabilità a cui reagisce con crisi d’ansia e pianto.
La prima parte ha i toni della commedia in stile dogmatico, verrebbe da dire “catastrofica”, e ricorda un po’ Festen: irrisione dell’alta borghesia e delle frustrazioni che cova a causa di tormentati rapporti famigliari, l’insensatezza dei suoi riti sociali, l’incapacità di godere del benessere acquisito; la seconda è un soffocato dramma inerziale in cui si innesta la parabola apocalittica – in Von Trier è sempre estremamente interessante la sperimentazione sulla commistione dei generi – e si ribalta la sottomissione esistenziale di Justine: sarà lei, grazie a un volo di fantasia, ad accettare più che rassegnarsi alla fine e preservare la speranza nello sguardo del bambino. Come direbbe Peter Cameron, “un giorno questo dolore ti sarà utile”: quasi a sostenere la tesi che, nel lungo periodo, l’approccio pessimista del depresso è vincente nell’affrontare i rovesci della vita (il pianeta Melancholia è azzurro esattamente come la Terra e molto simile ad esso anche se dieci volte più grande, come se simboleggiasse intrinsecamente le sciagure mai realmente “esterne” al mondo in cui si vive).
Kirsten Dunst dà vita a una performance di ordine superiore, ed è davvero ineccepibile nel dare corpo ai chiaroscuri dell’animo torturato di Justine – premio d’interpretazione a Cannes e già in predicato per l’Oscar (lei stessa, come il regista, ha vissuto in prima persona una sindrome depressiva) – controbilanciata da una implosa Charlotte Gainsbourg sensibile come le corde di un violino.
Chapeau a due strepitosi personaggi secondari: Udo Kier è l’organizzatore gay perfettino ma irascibile del matrimonio di Justine e come la venerabile Raffa coinvolge gli ospiti in un gioco demenziale in cui bisogna indovinare il numero di fagioli in un contenitore, inviperendosi quando Justine gli rovina “il suo matrimonio” (è l’unico personaggio realmente comico del film); una memorabile Charlotte Rampling è l’indomabile e caparbia madre di Justine, Gaby, senza peli sulla lingua e insofferente alle false apparenze dei famigliari compiacenti.
Ricco di citazioni pittoriche e soprattutto cinematografiche (Bergman, Tarkovskij, Bartas) che manderanno in solluchero i cinefili, è una specie di antitesi cinico-nichilista del malickiano The Tree of Life, intrisa di romanticismo tedesco e splendide inquadrature che “fermentano” nella mente dello spettatore per molto tempo. Lars è come sempre un anticipatore di tendenze: su temi simili usciranno a breve l’americano Another Earth e il nuovo Abel Ferrara 4:44 – Last Day on Earth.
Sfido chiunque a uscire dal cinema con l’indifferenza stampata sul volto: come sempre Von Trier divide aspramente e mentre la critica francese l’ha adorato – ben 17 riviste gli danno cinque stellette su cinque, tra cui i Cahiers du Cinéma e Le Monde – quella italiana l’ha stroncato, tranne poche eccezioni (La Stampa e CIAK). Secondo noi, pur essendo indubbiamente una fascinosa opera cinematografica da dibattito meritevole di essere vista, non è tra i suoi migliori e sembra anche soffrire della consapevolezza di una certa impasse creativa, ammessa dallo stesso regista, soprattutto nel capitolo dedicato a Claire.

Dopo il guazzabuglio della conferenza stampa di Cannes, Von Trier è stato indagato dalla polizia di Grasse addirittura per apologia di nazismo e ha dichiarato di non voler più rilasciare dichiarazioni pubbliche né interviste. Nel frattempo sta scrivendo il suo prossimo delirio artistico, Nymphomaniac, sulla vita di una sessuomane “da zero a cinquant’anni” in cui avrà un ruolo di rilievo il fedele Stellan Skarsgård che qui recita con l’avvenente figlio Alexander (il vampiro Eric Northam di True Blood), mansueto sposo di Justine.
E speriamo che il fattaccio della Croisette, definito da Lelouch “un autentico suicidio cinematografico”, non faccia ripiombare Lars in depressione.

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