Quella parlata romana da buona borghesia, il riccioletto ribelle nei limiti, la bella casetta, l’esame in giacchetta… Muccino ha una storia personale che dista dalla mia quanto Parioli dista da Torpignattara. I romani sanno cosa voglio dire, i non romani immaginino l’eterno conflitto nord-sud, ricco-povero, fighetto-proletario. Questo per dire che ho tutti i motivi per detestare Gabriele Muccino. Eppure sono sempre qui, tra i pochi romani disposti a difenderlo. A volte a suon di pugni, come nel lontano caso de “La ricerca della felicità”, primo suo esperimento spinto di estetica italo-americana, fino all’ultimo da me amatissimo “Padri e figlie” (a Mungiu gli mangia in testa). Con questa “Estate addosso” farò più fatica, mi dovrò arrampicare sugli specchi insaponati. Eppure, qualche parola buona la posso dire. Perché nonostante i trailer fotografino più o meno i personaggi così come li ritroviamo in proiezione, Muccino riesce ancora una volta a spremere il succo giusto dalla pellicola. Nonostante i tanti pruriti che personaggi, ambientazioni, musiche (Jovanotti 100%) mi provocano – lei la secchiona con occhiali ma in realtà bellissima, i due gay trendy a san Francisco e lui con le crisi esistenziali (“cosa c’è dopo la morte?”) – alla fine sento l’odore dei miei 18 anni, della vita ancora da venire, dell’ignoranza del dolore, della fresca gioia di esistere. Sì, lo sento e ne sono felice. E alla fine mi ritrovo a ridacchiare sotto le coperte insieme a un gruppo di ragazzini di 13 anni che siedono in sala accanto a me. Gli anziani escono soddisfatti (“Carucci tutti e quattro ‘sti regazzi, no?”), i pupi hanno passato un bel pomeriggio e anch’io non mi lamento. Lasciamo stare i difetti etico-estetici. L’”Estate addosso” è un film sottile, piccolo, banale. E’ giusto un profumo, un gusto, una leggera malinconia. Se lo vedrete così, c’è rischio che un po’ piacerà anche a voi.
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