Bambini che hanno subìto violenza, che ne hanno procurata, bambini violati, picchiati, rifiutati, dimenticati. Al cinema, grazie a film come “La mia vita da zucchina” anche l’inenarrabile può diventare storia, condivisione, lacrime e sorrisi. Al cinema la vita nascosta nell’ombra può venire alla luce e riscaldarsi al fuoco della condivisione.
Icar, chiamato da sempre Zucchina dalla sua mamma, è diventato orfano e le autorità locali lo affidano ad una casa famiglia. Un luogo dove Zucchina incontrerà altri bambini come lui, imparerà di nuovo a giocare, sorridere e ad essere amato.
Il mondo nel film di Claude Barras – primo lungo per lo svizzero-francese, sceneggiato dalla grande Cèline Sciamma (regista del bellissimo “Tomboy”, una che ne sa di più piccoli) e tratto dal libro di Gille Paris “Autobiografia di una zucchina” – ci appare rovesciato: dentro la casa famiglia i bimbi sono al sicuro, fuori c’è un mondo di adulti che possono essere anche pericolosi e tutt’altro che amorevoli.
Un inno alla solidarietà, all’empatia, alla condivisione, attraverso cui crescere, trasformando il dolore in esperienza collettiva e dunque esprimibile. Per rendere visivamente tanta delicatezza, gli autori scelgono giustamente l’animazione a passo uno (stop-motion) dove ogni movimento è rappresentato da una fotografia, ogni espressione è studiata al millimetro. Niente campi e contro-campi, ma ambienti grandi, spaziosi, aerei e lunghi piani sequenza per Barras, a sottolineare sempre il contesto e la grandezza del mondo che ci circonda. La chiusa con la struggente versione di “Le vent nous porterà” di Sophie Hunger ci strappa di dosso le ultime difese.
Dopo il successo allo scorso festival di Cannes, “La mia vita da zucchina” è in corsa per gli Oscar (animazione).
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