Julieta

Una storia come tante, una storia di donne con un evento tragico a segnarle. Non è la vicenda in sé, ovviamente, il cuore di “Julieta” di Pedro Almodovar, quanto il tentativo di farne una tragedia assoluta, contemporanea, in grado di raccogliere in una manciata di visioni l’essenza dell’arte e della vita. Almodovar “sente” le donne e quindi è normale che siano loro le protagoniste, il canale privilegiato che questo artista sceglie per esplorare il destino umano. Partendo da tre racconti della Nobel Alice Munro, la regina della quotidianità che si fa assoluto, “Julieta” è il riassunto di un’esistenza. Gioia, giovinezza, felicità, speranze e poi tradimento, morte, separazione, odio. Tutto in una piccola, fragile, breve esperienza su questa terra. Curioso che, in conferenza stampa a Cannes (dove il film è stato presentato in Concorso) Almodovar citi Woody Allen… Perché è proprio al regista americano che mi viene da pensare guardando a questi piccoli esseri umani che si dibattono per la sopravvivenza. E’ come se i due autori cinematografici scegliessero lo stesso punto di osservazione sul mondo: uno scranno alto, ma dove è seduto un artista che con questi piccoli umani ha un’empatia totale, innamorata, compassionevole. Colori saturi ed ellissi temporali, intensità di immagine e utilizzo dell’intera inquadratura (piena sempre di simboli, pitture, mele), Almodovar ci colpisce nel profondo, tocca il nucleo della nostra esistenza, ci trasforma da spettatori in “coro” palpitante della messinscena. “Julieta” è una grande esperienza cinematografica e umana. Forse un po’ autoreferenziale, a tratti presuntuosa, ma probabilmente è sempre così quando dall’altra parte dello schermo c’è un grande autore.

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