Scialbo e non appassionante il film di Joshua Michael Stern sul rivoluzionario fondatore della Apple. L’ex marito di Demi Moore non interpreta ma imita Steve Jobs. Dal 3 ottobre in Italia.
Già sembrava nato sotto una cattiva stella, l’atteso biopic “JOBS” del pressoché sconosciuto Joshua Michael Stern dedicato a Steve Jobs, rivoluzionario fondatore della Apple, geniale comunicatore, abilissimo imprenditore informatico. Subito si erano infuriati i fan del vero Jobs che non avevano affatto apprezzato la scelta dell’avvenente Ashton Kutcher, ex modello attore di commediole dimenticabili, noto soprattutto come ex marito di Demi Moore, per incarnare il loro tecno-mito.
Poi, pochi giorni prima dell’inizio delle riprese, il protagonista Ashton Kutcher era finito in ospedale col pancreas malandato a causa della dieta fruttariana che aveva seguito per identificarsi il più possibile col protagonista. Ultimamente Kutcher è stato anche malvisto dalla comunità lgbt per aver definito Robert Pattinson con un certo disappunto ‘un vampiro gay’. E dire che anni fa era stata apprezzata dalle associazioni queer la sua posizione contro la Proposition 8 e quindi pro matrimoni omosessuali nonché un celebre bacio con Sean William Scott nel nerdissimo “Fatti, strafatti e strafighe” del 2000.
Al botteghino americano, dove è uscito il 16 agosto, “JOBS” è stato un flop: ha incassato nei primi giorni di programmazione solo 6,7 milioni di dollari a fronte di un costo pari a quasi il doppio. Lo scorso mercoledì è uscito in Francia, dove l’abbiamo visto in versione originale con sottotitoli (sala mezza vuota di sabato sera).
Accademico, scialbo, piuttosto monotono – tutta la seconda parte è una sequenza di riunioni aziendali molto dialogate – ha un errore di fondo che ne snatura l’intento: la scelta di un poco carismatico Ashton Kutcher, il quale sembra impegnato soprattutto a imitare l’andamento dinoccolato e la gestualità insistita di Steve Jobs piuttosto che trovare una chiave interpretativa adeguata. E per rendere la grandiosità creativa e la comunicativa adrenalinica di Jobs ci voleva anche una regia meno scolastica e più nelle corde di quel ‘Siate affamati, siate folli’ che è diventato il mantra-copyright in grado di infondere energia e ottimismo a un’intera generazione digitale.
Il film inizia con l’accalorata presentazione nel 2001 dell’iPod per poi ricostruire in un lungo flashback gli inizi hippy di Steve Jobs nel garage dei genitori (le riprese sono state effettuate nella vera casa d’infanzia). Si approfondisce soprattutto il rapporto con l’amico-collega ingegnere Steve Wozniak (Josh Gad) a cui si devono le principali intuizioni che portarono al primo computer Apple. Il vero Wozniak ha inoltre espresso giudizi non lusinghieri sul film, affermando di “aver assistito a un buon intrattenimento ma non sufficiente per consigliarlo ad altri”. Viene poi seguita pedissequamente l’ascesa di Apple fino a diventare un vero e proprio colosso dell’informatica in costante competizione con Microsoft di Bill Gates, destinatario di furiose telefonate in cui viene accusato di plagio, fino alla scelta di Jobs di fare entrare nella sua scuderia l’esperto marketing della Pepsi John Sculley, interpretato da un senile Matthew Modine. Proprio lui si rivelerà però il suo peggior nemico al punto da farlo estromettere dalla sua stessa creatura rivolgendogli contro l’intero consiglio di amministrazione.
Della vita privata di Jobs scopriamo ben poco: i genitori adottivi sono apparizioni silenti e fantasmatiche; la questione della figlia Lisa (nome dato anche a un progetto rivoluzionario poi soppiantato dal Macintosh), avuta dalla pittrice Chris Ann Brennan e riconosciuta solo quando la bimba aveva otto anni, è risolta frettolosamente; la moglie Laurene Powell che gli darà tre figli appare di sfuggita verso la fine. Si glissa completamente sulla malattia, una lunga lotta contro un tumore al pancreas, che lo porterà alla morte nel 2011. Se l’hardware del film, ossia la sua confezione, è comunque professionale rispetto agli standard hollywoodiani, il grosso problema resta il software, cioè la sceneggiatura, e l’affidarla all’esordiente Matt Whiteley si è rivelato un grave errore di programmazione. Come ha scritto in maniera ficcante la grande Manohla Dargis del New York Times: “Steve Jobs sarebbe andato su tutte le furie se avesse visto che il film sulla sua vita ha lo stesso sex appeal di una presentazione in Power Point”. Uscirà in Italia il 3 ottobre distribuito dalla Filmauro.