Cominciamo con il dire che ridare a tutti noi la possibilità di (ri)scoprire Giambattista Basile (il più grande favolista di tutti i tempi, secondo Croce) è già un enorme pre-merito di “Tale of Tales” di Matteo Garrone. Proseguiamo dicendo che quest’uomo giovane e dal fascino introvertito, lo sguardo bruciante sulla realtà, io lo amo da sempre in modo speciale. Sarà per la contiguità di decine di amicizie o per quel suo sguardo tipico da scanzonato capitolino, sarà perché mi fulminò di inquietudini con “L’imbalsamatore” – e lo amavo già da “Terre di mezzo” e “Ospiti” – sarà che l’ho riconosciuto subito come un autore capace di darmi molto senza farmelo pesare. Un generoso dell’arte, uno che si espone tanto nella creazione e lo fa senza spocchia.
“Il racconto dei racconti” è un esempio alto di tutto questo. Dopo il melanconico iperrealismo di“Reality” (e dove andare, dopo tanta straziante consapevolezza?), Garrone sceglie la sontuosità, la sospensione, la metafora tipica del racconto – ma anche della scena – orale per lasciarci confrontare con i nostri fantasmi, così moderni, così reali.
Garrone va oltre il cinema, tra gli autori italiani è l’unico – a nostro parere – capace di trascendere lo schermo per approdare nel luminoso universo dell’Arte tout-court.
Anche se un po’ lungo, in senso cinematografico stretto, “Il racconto dei racconti”, detto in modo brutale, prende una pista al rimuginamento tendenzialmente stitico di Moretti. Con Sorrentino facciamo i conti mercoledì.