Poteva essere il film più queer della stagione se il regista non avesse deciso di ‘raffreddare’ al massimo il sottotesto gay della vicenda per rispetto delle persone ancora in vita di una tragica vicenda che sconvolse l’America nel 1996. Il miliardario americano John Eleuthère du Pont (1938 – 2010) era l’erede di una delle più ricche dinastie statunitensi, arricchitasi già nell’800 grazie alla produzione di polvere da sparo e sviluppatasi nel secolo successivo con l’invenzione di materiali distribuiti universalmente come nylon e lycra. Appassionato di lotta libera, John fondò nella sua sterminata tenuta in Pennsylvania il ‘Foxcatcher Team’ dove invitò a colpi d’ingaggi stratosferici prima il campione Mark Shultz (un taurino Channing Tatum) e poi il suo simbiotico fratello Dave (Mark Ruffalo, candidato all’Oscar, intensamente calato nella parte) con tanto di famiglia al seguito, entrambi medaglia d’oro alle Olimpiadi dell’84, per prepararli in vista di quelle dell’88 a Seul. Ma il rapporto inizialmente idilliaco con entrambi subisce una degenerazione dalle conseguenze tragiche quando Mark, iniziato tra l’altro alla cocaina dallo stesso du Pont, rende sempre meno in gara e si distanzia progressivamente da colui che considera un mentore paterno e dall’adorato fratello con cui aveva un legame strettissimo (Ruffalo ha definito la tenera lotta ‘danzata’ fra loro come “il massimo livello di intimità che due uomini possono raggiungere senza essere amanti”).
Interpretato con una straordinaria capacità mimetica da un imploso Steve Carell dal naso aquilino, quasi irriconoscibile, candidato anch’egli all’Oscar (ignorato dall’Academy nonostante le sue cinque nominations, “Foxcatcher” aveva vinto a Cannes il premio per la miglior regia, classica e calibratissima), John du Pont viene descritto come un uomo solitario e meditabondo, un filantropo appassionato di ornitologia disprezzato dalla matriarca Jean (una magnifica Vanessa Redgrave) che considera la lotta “uno sport minore che sminuisce”. L’attrazione sotterranea tra John e Mark non è mai resa esplicita anche se viene lanciato qualche segnale quando John fa incursioni notturne nello chalet dove viene ospitato Mark e in un’altra scena lo ringrazia con sguardo adorante – “sei un buon amico, Mark!” – rivelandogli di aver avuto “crescendo, un solo, vero amico”, tale Hugh Cherry detto Hubby, figlio dell’autista della madre che lo aveva pagato affinché frequentasse John. E lei stessa, ormai immobilizzata su una sedia a rotelle, si allontana disgustata dopo aver osservato il figlio praticamente attorcigliato su un atleta per spiegargli una mossa di lotta. Nonostante questi labili cenni queer, il vero Mark Schultz si è infuriato al punto di scrivere in un post su Facebook che “lasciare il pubblico con la sensazione che comunque ci sia stata una relazione sessuale tra me e du Pont è una menzogna ripugnante e ingiuriosa”. Eppure la tesi di una presunta omosessualità del miliardario è sostenuta da un coach della Villanova University in Pennsylvania che sarebbe stato licenziato per aver rifiutato alcune avances di John du Pont. Lo stesso Schultz nel memoir “Foxcatcher” scritto nel 1987 insieme a David Thomas e pubblicato l’anno scorso in Italia da Sperling&Kupfer col sottotitolo “Una storia vera di sport, sangue e follia”, da cui è tratto il film, racconta di un rapporto molto stretto tra i due e che il magnate inventò una quantomeno bizzarra mossa di wrestling detta “Foxcatcher Five” in cui si stringerebbero i testicoli dell’avversario con tutte le dita di una mano.
“Non penso che siano rappresentate pulsioni gay – ha ribattuto il regista sul Financial Times -. Ma parte della storia riguarda la repressione e negazione da parte dei personaggi di chi fossero e che cosa stessero facendo in quel momento. È forte l’argomento del ‘padre assente’. Tutti e tre persero il padre all’età di due anni”. Nel film non si fa alcun accenno a presunte compagne nella vita di DuPont ma nel 1983 consumò un matrimonio lampo con la terapista occupazionale Gale Wenk, annullato dopo soli novanta giorni perché lui cercò di ucciderla puntandole un fucile contro e gettandola in un camino acceso.
Il rigoroso dramma di Miller non ha nulla dell’epica fanfarona di certi film americani sportivi ma, anzi, destruttura il concetto stesso di sogno americano concentrandosi, attraverso l’estetica algida e decolorata della funzionale fotografia di Greig Fraser e uno stile trattenuto a volte persino troppo indugiante, sulle fatiche degli atleti, la solitudine isolazionista imposta dalla disciplina, il senso di alienazione indotto dal rinchiudersi nella prigione dorata della proprietà dei du Pont. La bravura di Carell sta in una esemplare performance millimetrica giocata su minime variazioni espressive (non sembra nemmeno trapelare la schizofrenia paranoide diagnosticata al vero John dopo la tragedia), nello sperdimento dello sguardo rassegnato, nella postura incassata vagamente animalesca. La vita come lotta (libera?), la lotta come vita nella metafora interscambiabile del torbido disagio di un miliardario che acquistava carrarmati come giocattolini ma nonostante tutto il suo denaro non riuscì a vincere l’incontro fatale, quello con gli spettri abissali della propria solitudine.