Difficile dare torto alle major americane che si sono rifiutate di produrre e distribuire “Dietro i candelabri” con la motivazione che sarebbe un film “troppo gay”; altro fatto è giustificare, cosa che non hanno voluto fare, perchè un film “troppo gay” non potrebbe essere gradito al pubblico in generale. Fortunatamente il successo di pubblico e critica che il film sta ottenendo ovunque (il festival di Cannes l’ha selezionato per il concorso pur essendo un film tv e ai premi Emmy ha vinto quasi tutto) sembra dare torto alle previsioni delle suddette major, che probabilmente ora si stanno ricredendo, lo prova il gran numero di film a tematica gay attualmente in cantiere (“Mr. & Mrs. Smith” di Lee Daniels; “Monty Clift” sulla vita di Montgomery Clift; il film di Abel Ferrara su Pasolini, ecc.)
“Dietro i candelabri” non è un film sulla vita di Liberace, personaggio poco conosciuto da noi ma negli USA è stato uno degli showman più cercato e pagato negli anni ’50-’70, ma è soprattutto la storia, prima felice poi tormentata, di un grande amore gay durato complessivamente cinque anni. Forse pochi ma tanti se pensiamo che si tratta di un amore nato e cresciuto in un regime di forzata clandestinità. Soderberg ci racconta con minuzia di particolari (notate come la macchina da presa evidenzi le parti basse dei protagonisti) lo stile di vita gay di quegli anni: locali gay, incontri occasionali facili, sesso a volontà, ma tutto sapientemente velato agli occhi del mondo etero, soprattutto se ci troviamo, come nel film, dietro le quinte del mondo dello spettacolo e del suo business. Significativa la scena all’inizio del film con Scott (Matt Demon) e il suo nuovo compagno che assistono ad uno spettacolo di Liberace (Michael Douglas) in perfetto stile drag-queen in un teatro gremito di pubblico etero e Scott dice “Pensavo che la maggior parte del pubblico fosse gay” e l’amico gli risponde che “nessuno pensa che Liberace possa essere gay“. Non si trattava di avere le fette di salame sugli occhi ma di un mondo gay ancora sconosciuto ai più.
Piu avanti nel film scopriamo il punto debole di Scott che quando Lee (nomignolo con cui si faceva chiamare Liberace) gli dice che sono diventati come la versione omosessuale di Lucy e Ricky, due personaggi di una sitcom, Scott ribatte “se è così, perché Lucy devo essere io?” Scott non vuole sentirsi definire gay ma bisessuale e soprattutto non vuole avere un ruolo bottom nella relazione sessuale, cosa che Lee non riesce a comprendere. Falso problema, frutto dei condizionamenti sociali e purtroppo ancora presente oggi in alcuni soggetti deboli. Nel rapporto tra Scott e Lee assume anche il significato di una lotta di potere tra i due personaggi, all’origine così diversi, con Lee che usa le armi della ricchezza e del successo e Scott quelle della giovinezza e prestanza fisica.
Incredibile che un film così dentro alle problematiche gay sia stato fatto da autori ed attori etero. Sicuramente conta l’origine del soggetto, basato sulla storia raccontata in prima persona da Scott Thorson, il vero amante di Liberace, tuttora vivente. Ma Soderberg dimostra di aver compreso perfettamente i veri problemi che stanno dietro questa vicenda e soprattutto ha il merito di averli collegati alla contemporaneità. La ricerca dell’amore totale come bisogno insopprimibile dell’uomo, in questo caso sia della star Liberace, ormai sessantenne e stanco delle solite e brevi avventure sessuali, sia del giovanissimo Scott, fuggito da una famiglia adottiva che l’amava per cercare la sua realizzazione come gay. Una ricerca d’amore che Soderberg fa coincidere con il modernissimo bisogno di crearsi una famiglia, dei legami di parentela veri, senza limiti di tempo o casta. Il nucleo centrale di tutto il film è sicuramente questo. Liberace che vuole avere di più da Scott, una simbiosi totale, che a quei tempi poteva nascondersi solo con l’adozione. E Scott che sacrifica tutta la sua persona, anche il suo aspetto fisico, per dire sì all’amante marito e padre. Ma come spesso accade l’amore per l’altro può arrivare a confondersi con l’amore per se stessi, diventando più egoistico che altruistico, più attento ai propri desideri che a quelli dell’altro, facendo riemergere più le differenze che le assonanze…
Soderberg costruisce con sapiente leggerezza, tra scenografie sfarzose, abiti scintillanti e gioielli (alcuni veramente usati da Liberace), un dramma intimo e profondo, capace di arrivare al cuor di ogni spettatore. Debole solo in un finale troppo edulcorato, sicuramente richiesto dalla produzione tv. Impossibile non elogiare i due protagonisti, indimenticabili e insuperabili nei rispettivi ruoli, assolutamente credibili e coinvolgenti. Piccole stonature in qualche personaggio secondario, come il chirurgo plastico interpretato da Rob Lowe, troppo macchiettistico, mentre godibilissimo e perfetto il ruolo della madre di Liberace, una bravissima Debbie Reynolds.
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autore: R. Schinardi (Gay.it) voto:
Non è un biopic tradizionale, l’appassionante Dietro i candelabri, poiché si concentra sull’ultimo periodo della vita dello stravagante e campissimo pianista-entertainer di origini italo polacche Wladziu Valentino Liberace (1919-1987) quando, al massimo della fama – il suo “Liberace Show” televisivo raggiunse i 35 milioni di spettatori e quasi sempre il “tutto esaurito” coronava i suoi concerti a Las Vegas -conosce l’ex assistente veterinario sedicenne Scott Thorson e se ne innamora. Una grande, travolgente passione che si tramuterà in matura convivenza nelle stupefacenti ville extradeluxe di gusto “kitch imperiale” ma anche una collaborazione lavorativa – Scott è l’autista che accompagna Liberace sul palco con una Rolls-Royce Landau – destinata a durare cinque anni con strascico in tribunale a causa di vari tradimenti e dell’acuirsi di una grave tossicodipendenza di Thorson. Il progetto sulla carta si presentava rischioso, poiché un personaggio eccentrico come Liberace si prestava a mossette e ridicolizzazioni puerili nello stile de Il Vizietto. Ma il valente sceneggiatore Richard Lagravenese, adattando un libro di memorie dello stesso Thorson e cofirmato da Alex Thorleifson, pubblicato in Italia per Newton Compton Editore col titolo ‘Dietro i candelabri.
La scandalosa vita di Valentino Liberace, “il più grande showman di tutti i tempi”, non insiste sull’aspetto più divertente e scintillante, ossia quello superficialmente camp tutto paillettes e visoni ma descrive con accorata partecipazione l’intimità amorosa della coppia che acquista una sua umanissima credibilità. Merito della riuscita è anche l’eccezionale interpretazione dei protagonisti: Michael Douglas non imita Liberace ma si incarna letteralmente in lui (abbiamo qualche dubbio sul doppiaggio italiano un po’ lezioso di Francesco Vairano) ed è evidente l’alchimia recitativa con un calibrato Matt Damon che non teme abbronzature integrali col segno del tanga ma evita facili “femminilizzazioni” sul filo dell’isteria. Ed è esemplare la descrizione della dicotomia tra pubblico e privato dello show business americano, a causa della quale Liberace celava la propria omosessualità pur evidente costringendo Thorson a una vita da recluso di lusso nelle sue tenute top e temeva, scopertosi sieropositivo, di essere ricordato “in quanto gay e malato di Aids”. Particolare attenzione è stata data anche ai bei ruoli secondari, da una indimenticabile Debbie Reynolds, nella vita reale grande amica di ‘Libe’, nei panni di mamma Frances, al grande Dan Aykroyd in quelli dell’oculato manager Seymour Heller e a un buffissimo Rob Lowe chirurgo estetico ultrarifatto.
Straordinario il lavoro del reparto costumi affidato a Ellen Mirojnick: Douglas e Damon hanno più di sessanta cambi d’abito e ciascuno di esso è fatto su misura grazie alla collaborazione del celebre camiciaio Anto di Beverly Hills, del maestro sarto Dennis Kim e di Mary Ellen Fields di Hargate Costumes. Molte pellicce originali di Liberace erano troppo pesanti, per cui è stato necessario ideare tessuti più leggeri che sul set garantissero non solo portabilità ma anche un effetto di massima somiglianza con gli originali: pensate che quella di volpe bianca vergine da 300.000 dollari era ricoperta di paillettes e cristalli austriaci per un valore di ulteriori 100.000 e aveva uno strascico di sedici metri. Per portarla sul palco era necessaria una Mini Rolls Royce poiché pesava cento libbre. È stata persino utilizzata una squadra di esperti orafi per replicare gli sgargianti anelli e gioielli di Liberace.
Anche per quanto riguarda le scenografie curate da Howard Cummings che in sole settimane ha dato vita a trenta set differenti, il criterio è stata la massima verosimiglianza ma per quanto riguarda alcuni cimeli come automobili e pianoforti sono stati utilizzati oggetti appartenuti al pianista grazie a una collaborazione col Museo Liberace di Las Vegas ora chiuso. La produzione ha inoltre girato nello showroom dell’Hilton dove Liberace ha tenuto molti dei suoi concerti più famosi, nel vero attico di sua proprietà a Los Angeles, nel Centro di smistamento postale a West Hollywood dove Scott Thorson ha realmente lavorato dopo la rottura con lui e nella Chiesa cattolica di Nostra Signora della Solitudine a Palm Springs dove si è tenuto il funerale dell’artista. Per il numero ‘Dueling Pianos’ sono stati riuniti per la prima volta dopo trent’anni i due pianoforti identici di Liberace, uno dei quali è stato scovato nello showroom di Baldwin Piano mentre l’altro era esposto al Museo Liberace.