Arrival

Se uscite dalla sala avendo dei dubbi, beh, prendetevi del tempo e fateveli passare. E ricordatevi che il canadese Denis Villeneuve è il regista di “Incendie, la donna che canta” il film più totale e struggente del 2010 e oltre.
“Arrival” è da poco nelle nostre sale, ma è già carico del bagaglio internazionale, ricco di lodi e soprattutto di sbigliettamenti. E’ un successo planetario pur non essendo un film facile, anzi.
E’ un sci-fi complesso, lento, intimo, molto più Kubrick che Spielberg. E’ un gioco sull’idea di tempo (strano, il Tempo va forte ultimamente come concetto teorico da ripensare: vedi anche quell’aborto di “Collateral beauty”) e sul senso dell’esistenza, ovviamente. Ma anche un bellissimo affresco sulla comunicazione, sul linguaggio, sul come creare vicinanza con l’altro.
Sulla Terra improvvisamente appaiono 12 enormi cilindroni. Stanno lì, sospesi sul nostro suolo, non sembrano fare nulla, aspettano. Aspettano che qualcuno chieda loro perché sono venuti. E loro a tempo debito daranno una risposta precisa.
Nel ruolo della “comunicatrice” una Amy Adams questa volta da Oscar sicuro (credo che il film abbia 6 o 7 candidature, tra cui anche quella a Villeneuve), una donna capace di entrare in empatia con i giganteschi eptapodi, ma soprattutto con sé stessa e con quella che sarà la sua storia.
Basato sul racconto fanta-intimistico del giovane Ted Chiang “Storia della tua vita”, il film gode della magnifica sceneggiatura di Eric Heisserer che ha saputo rendere plausibile e intenso –quasi – ogni istante di un film complessissimo, della fotografia magica di Bradford Young (c’è almeno una scena che resterà nella mia personale storia del cinema: la protagonista a contatto spazio-temporale sospeso con “gli altri”), delle musiche anche questa da statuetta di Jòhann Jòhannsson.
“Arrival” ovviamente gli Studios non lo hanno voluto, troppo rischioso. I soldi ce li ha messi una piccola produzione (la 21 Laps) e meglio per loro perché si rifaranno dell’investimento in modo esponenziale.
Si esce dalla sala spaesati, ma anche immersi nella gelatina di quei 116 minuti vissuti intensamente. La gente si chiede in preda ad ansia di comprensione cosa sia successo prima, dopo, durante….
Un consiglio: lasciate stare, non cercate per forza una sequenza degli eventi che risponda alla nostra logica. Aspettate, prendetevi del tempo, state un attimo zitti. “Arrival” vi parlerà senza che voi domandiate, tutto tornerà se vi permettete di attendere prima di giungere a conclusioni. Siamo ossessionati dall’idea di “significato”, di “sequenza di eventi giusta”, anche nel cinema. Dobbiamo dimostrare a noi stessi che non siamo stupidi, che abbiamo capito tutto, che nulla ci sfugge.
E invece…lasciamo che ci sfugga e godiamoci questo spettacolo di tecnica e musica e intimità. Poi, tutto tornerà. E, grazie a Denis Villneuve, avremo fatto un piccolo passo in avanti verso un cinema fatto di una nuova qualità, di una pasta più densa del solito. Un cinema capace di creare contatti tra dentro e fuori, tra presente e futuro, tra noi e il fuori di noi.
Più passa il tempo, più lo amo.
Ps: Unico appunto (spoiler): il generale cinese, una macchiettaccia dall’inizio alla fine.

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