Non c’è solo il cinema delle multinazionali a interessarsi oggi ai temi del transgender. Alla Mostra del Cinema veneziana, alla megaproduzione di “The Danish Girl”, la nostra cinematografia nazionale risponde con una piccola ma assai riuscita opera prima: “Arianna” di Carlo Lavagna, annunciata nelle sale già tra pochi giorni, subito dopo la metà di settembre. La voce fuori campo recita sulle prime immagini di un volto femminile fluttuante nell’acqua: “Sono nata tre volte. La prima come bambino, poi a tre anni come bambina e la terza volta oggi” … e il film narra la cronaca proprio di questa terza nascita, percorso intimo e particolareggiato di una ragazza diciannovenne ancora in attesa della prima mestruazione. Arianna torna nella casa natale sul lago di Bolsena da dove manca dall’età di tre anni, quando la lasciò per Roma coi genitori buoni borghesi (il padre medico, la madre più che benestante). Ad accoglierla ci sono anche la cugina di poco più giovane di lei ma fisicamente più sviluppata e il simpatico zio balbuziente. Ricordi rimossi le riaffiorano lentamente alla mente, legati a un coetaneo con cui si ritrovava a giocare o a luoghi arcani e misteriosi. E’ il fisico a darle dei problemi, specialmente quando si confronta con la cugina che già fa all’amore con un ragazzo locale, e quando il corpo risponde in modo inadeguato agli stimoli ormonali dei farmaci che assume. L’isolamento e il tempo sospeso delle vacanze le permettono di indagare più profondamente sul proprio malessere. Sente che c’è qualcosa che non quadra nella sua esistenza e che forse la mancanza di mestruazioni è legata in qualche modo proprio a ciò che le è accaduto in quel luogo in tempi ormai lontani. Inconsciamente sente che è tutto interconnesso, la richiesta al padre di cambiar ginecologo, come la difficoltà di relazione coi genitori con cui è comunque in sintonia, o lo studio della propria intimità sessuale. Si sviluppa così una vera indagine tutta in prima persona sul proprio misterioso passato che diventa al contempo un percorso di formazione. Da un lato è costretta e dall’altro impara a confrontarsi con i modelli sociali di comportamento, con l’interscambio affettivo e sessuale tra le persone, con le identità di genere fatte di eguaglianze, affinità e differenze. Alla fine, dalle cartelle cliniche recuperate nel principale ospedale della zona, Arianna scoprirà che la piccola cicatrice sul suo ventre non era dovuta a un’operazione di ernia, ma alla castrazione della parte maschile del suo apparato genitale che presentava le caratteristiche morfologiche di entrambi i sessi. I genitori avevano optato per questo intervento pensando di fare il suo bene, per preservarla dalla derisione e dall’emarginazione sociale e pubblica, per salvaguardare il futuro di quel bimbo ermafrodito, nato come rarissimo caso che capita ogni svariati milioni di neonati. Tranne il fatto che ora, divenuta adolescente di 19 anni si ritrova a essere una creatura che non potrà mai provare un autentico piacere sessuale e non potrà mai procreare né come uomo, né come donna. Destino tragico e terribile, che viene però narrato con grande pudicizia anche là dove si mostrano esplicitamente corpi nudi e genitali sanguinanti (tremenda la doppia scena dello sventramento di un cinghiale seguita dal sogno dell’agognato mestruo che appare simile a uno squartamento integrale… si cita esplicitamente la scena del macello nel fassbinderiano “In un anno con 13 lune”, archetipo delle pellicole sulla transessualità). Si deve qui parlare di pudore dei sentimenti, di profonda conoscenza e documentazione degli eventi narrati, di coscienza civile e politica del fare cinema.
Carlo Lavagna si dimostra regista, oltre che sensibilissimo, anche molto attento e inventivo nella costruzione dell’immagine che concepisce già al momento della ripresa in funzione del montaggio e della situazione della narrazione. Ne è un esempio la sequenza in cui filma in primissimo piano l’iride della ragazza in cui si riflette sfocata l’immagine di uno schermo su cui scorrono immagini di un accoppiamento pornografico (è il momento in cui Arianna da sola in casa sta cercando di capire cosa possa essere il piacere dovuto al sesso); come del resto si dimostra inventivo nell’uso dell’acqua come principale filo conduttore narrativo (il lago, il bagno nel fiume, la pioggia, la piscina, le terme…). Ma se l’opera è così ben riuscita lo si deve almeno al 50% anche all’attrice protagonista, l’esordiente Ondina Quadri, figlia d’arte del montatore cinematografico Jacopo Quadri e nipote del critico Franco Quadri; è impressionante nel rendere l’innocenza, il dramma trattenuto e la tenacia del suo personaggio. E ancora di due eventi siamo facili profeti: l’autentico talento rivelato da questo esordio ci porterà molti altri ottimi film (ci si augura capolavori) e che “Arianna” entrerà da subito nell’empireo dei film transgender.
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