Rudolf Brazda, ultimo sopravvissuto dei «triangoli rosa», i deportati per omosessualità.
Brazda, 93 anni, era nato in Germania da una famiglia di origine ceca. Nel 1937 fu arrestato e condannato a sei mesi di prigione per «depravazione», poi espulso verso la Cecoslovacchia. Dopo l’annessione nazista dei Sudeti, fu di nuovo condannato per la stessa pena, stavolta a 14 mesi, e poi inviato nel campo di sterminio di Buchenwald, in quanto recidivo. Qui sopravvisse per oltre 32 mesi, grazie anche all’amicizia con un kapò di simpatie comuniste. Dopo la liberazione, decise di trasferirsi in Francia, nella regione al confine con la Germania, anche se «si esprimeva male in francese, ha sempre preferito il tedesco», come ricordano i militanti dell’associazione «Oubliè-e-s» per la tutela della memoria sull’Olocausto.
Inizialmente aveva deciso di mantenere segreta la sua tragedia, ritirandosi a vita privata in una piccola cittadina.
Solo nel 2008 cambiò idea e decise di venire allo scoperto, dopo che, durante l’inaugurazione di un memoriale ai deportati omosessuali a Berlino, i promotori dell’iniziativa affermarono che purtroppo non c’era alcun superstite che potesse dare testimonianza di quella tragedia. L’anno dopo, Brazda fu invitato d’onore alla sfilata del Gay pride berlinese, durante la quale, indossando una camicia rosa, andò a deporre un fiore sul memoriale, accompagnato dal sindaco della capitale tedesca, Klaus Vowereit, anch’egli omosessuale.
Successivamente, fu invitato a numerose cerimonie commemorative e a giornate di sensibilizzazione e memoria nelle scuole, tra cui in particolare la posa di una lapide commemorativa sui «triangoli rosa» nel lager di Struthof, sui Vosgi alsaziani, dove morirono 215 gay.
Conformemente alle disposizioni contenute nel suo testamento – hanno spiegato alla stampa i suoi congiunti – il suo corpo viene cremato, e le ceneri deposte a fianco del suo compagno di vita per oltre 50 anni, Edouard Meyer, morto a Mulhouse nel 2003.
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