La storia della prima “trans” italiana. Cambiò sesso nel 1962
“Mi mandarono a Volturno di Foggia, ero meglio di Patty Pravo”
“Ero Romano, diventai Romina e l’Italia mi mandò al confino”
Oggi ha 62 anni: “Sono felice, ho fatto la scelta giusta”
di MICHELE SMARGIASSI
BOLOGNA – Quando scese dalla corriera, tra vedove in nero e polli razzolanti, il paese intero trattenne il fiato. “S’aspettavano Romano, arrivai io: Romina”. E che Romina: minigonna inguinale, stivali neri sopra il ginocchio, occhiale scuro, permanente platiné: “Ero meglio di Patty Pravo”.
Lo sbarco di Romina Cecconi a Volturino di Foggia, dove una pudibonda Repubblica Italiana l’aveva spedita al confino al pari d’un mafioso, fu più o meno come l’arrivo di Boccadirosa nel paesino della canzone di De André. Ancora di più, tre anni dopo, la partenza: “Ero diventata amica di tutti, per qualcuno anche di più…”. Questo fu il ’68 di Romina, per tutti “la Romanina”. E non fu meno rivoluzionario di quello dei cortei. Romina Cecconi non è stata solo una delle primissime transessuali italiane a chiedere al chirurgo di renderle l’identità che da sempre sentiva sua. È stata anche la prima a non vergognarsene, facendo della sua scelta una bandiera di libertà. La pagò cara: umiliazioni, violenze, processi, carcere e, appunto, il confino. Eppure oggi, con i 62 anni che molte donne sempre-state-donne le invidiano, circondata dai ninnoli e dalle specchiere dorate della sua casa bolognese, Romina è soddisfatta della sua vita: “Non rimpiango nulla di Romano: non ero io”.
Romano era nato nel momento sbagliato (1941, piena guerra), nel corpo sbagliato, e in un paesino della Garfagnana che per lui aveva tutto di sbagliato, tranne il nome: San Donnino. “E io un donnino mi sentivo, quando ancora non andavo a scuola. Non un maschio gay, proprio una donna. Gli altri bambini aspettavano il Natale, io il carnevale, quando potevo mettermi gonna e rossetto”.
Schiaffi, litigi, umiliazioni: per tutti era “la donnicciola”. La sua vita non era del tutto disperata, trovò un bel mestiere: doratore di cornici tra gli artigiani di San Frediano. Ma lo perse quasi subito. “Mi venivano a cercare i carabinieri per ammonirmi: guai se continui a uscire con la parrucca. Ma che dovevo fare? Con giacca e capelli corti sembravo solo una lesbica vestita da uomo”.
Cosa resta, per chi nasce col corpo sbagliato? “Solo due scelte: il palcoscenico o il marciapiede”. Romina provò col primo, finì sul secondo. La sua carriera in una compagnia di girovaghi fu breve: “Facevo l’imitazione di Milva, sai, Quattro vestiti…, me li toglievo uno dopo l’altro…Sulla locandina ero “L’uomo-donna, l’emulo di Coccinelle”…”. Ma arrivarono i carabinieri anche lì. “Un prete aveva gridato dall’altare: “in quel circo c’è un diavolo tentatore”. Romina, mi disse il capocomico, abbiamo esagerato, torna a casa”.
E lei ci tornò, ma mica per starci chiusa. “Uscivamo, io e la mia amica Silvia, con parrucche, tacchi, pantaloni stretti, niente di vistoso, però gli uomini ci guardavano. Qualcuno ci accompagnava a casa, poi ci allungava un bigliettone. Per la buoncostume era prostituzione. Fioccavano le multe: dieci, quindicimila, si accumulavano, e quando la somma fece più di 300 mila, allora sì, per pagarle cominciò la catena di montaggio”.
Con una mano di ormoni, il fisico di Romina era super: alta, bel seno, vitino di vespa. Sul Lungarno, Romina era “la donna pipistrello, metà topa metà uccello, e chi non capiva fatti suoi…”. Ma c’era poco da ridere: botte dalla polizia, botte dai clienti, “finché un giorno, rapinata, entrai in tribunale vittima e uscii condannata”. Da lì fu tutta discesa: fogli di via, “coprifuoco” naturalmente violato, denunce, processi, finché il cumulo delle condanne fece scattare la pena suprema: il confino come “persona socialmente pericolosa”.
A dispetto dei giudici, per Romina quello fu il giorno della liberazione, non della repressione. “Ci pensavo fin da quando avevo letto della Jorgensen. Avevo solo 11 anni, ma per me fu un mito. Allora si può fare, dicevo. E quando scattò il confino, che ormai andavo per i trenta, mi dissi: ora o mai più”. Casablanca era lontana, ma Losanna no: “Prosciugai il conto in banca e scappai”. Costava 700 mila lire togliere quel sovrappiù sotto la cintura. I soldi non bastarono. “Scrissi a mamma: dimentica tutto, aiutami.
Due giorni dopo eccola lì di persona, il mio cuor di mamma, con 500 mila lire in una busta”, si commuove ancora. Con qualcosa di meno, Romina ebbe molto di più: “La fiducia in me stessa. Ero finalmente quello che sapevo di essere. Non avevo paura di nulla”. Né del confino, né del ritorno alla solita vita: “che soddisfazione, due anni dopo, sventolare sotto il naso di un agente i documenti con scritto “sesso: effe””.
Aveva vinto, Romina la testarda. Ma aveva dovuto citare in tribunale l’anagrafe: non c’erano ancora leggi. Grazie a lei ce la fecero anche molte altre, e lei le ha aiutate organizzando scioperi e cortei, andando in televisione. Il resto, un marito, un divorzio, un fidanzato che la convinse a lasciare la strada e a comperare un’edicola a Bologna, scivolò via come una vita qualunque.
Oggi vive coi soldi messi da parte. È rimasta un mito, “la Romanina”, il telefono squilla, la invitano ai convegni, alle feste, nei salotti. Un guru della transustanziazione sessuale. Ma lei ha imparato a essere prudente nei consigli. “A tutte dico: sappiate che indietro non si torna. Quando toccò a me, non avevo scelta: c’erano solo due sessi, o di qua o di là. Oggi puoi stare in mezzo al guado ed essere felice lo stesso”.
(La repubblica, 1 dicembre 2002)
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