Nato a Kansas City il 20 febbraio del 1925, aveva frequentato un’Accademia militare nel Missouri ed era diventato pilota di B-24. Appassionato di cinema, dopo il congedo andò a Hollywood ma nessuno se lo filò: tentò di lavorare come attore, autore di canzoni e sceneggiatore, ma dovette tornarsene a Kansas City con la coda fra le gambe e proprio in quella città, periferica rispetto a Hollywood ma importante nell’economia americana, iniziò la sua carriera. Fu assunto da una società, la Calvin Co., che lavorava nel settore del documentario industriale e imparò tutto sulla tecnica cinematografica durante una lunga, oscura ed utilissima gavetta.
Nel 1956, dieci anni dopo il primo tentativo, rientrò a Hollywood dalla porta di servizio: la televisione. Diresse episodi di serie famose (soprattutto Alfred Hitchcock presents e il serial western Bonanza) e dopo il ’68 riuscì finalmente a firmare un paio di film non particolarmente fortunati, Countdown e Quel freddo giorno nel parco. Altman era ormai ben oltre i 40 e la routine televisiva stava forse cominciando a deprimerlo, ma la fortuna era dietro l’angolo: la 20th Century Fox aveva per le mani un bizzarro copione di Ring Lardner jr. che diversi registi avevano già rifiutato. Era una visione dissacrante e grottesca della guerra di Corea intitolata M.A.S.H., sigla sta per Mobile Army Surgical Hospital (ospedale mobile chirurgico militare). Altman si impossessò del copione e gli applicò uno stile, per l’epoca, rivoluzionario: mancanza di un centro narrativo, nessuna scena di battaglia, attori che improvvisavano i dialoghi e spesso «coprivano» uno le battute dell’altro, molti personaggi e nessun vero protagonista (a parte i due chirurghi figli di puttana interpretati da Elliott Gould e Donald Sutherland). Fu un successo clamoroso, con tanto di Palma d’oro a Cannes.
Era nato l’Altman-touch, il «tocco alla Altman», la coralità – il suddetto carrozzone delle meraviglie – che avrebbe improntato Nashville e successivamente Buffalo Bill e gli indiani, Un matrimonio, I protagonisti, Gosford Park e i due capolavori della maturità, America oggi e il recente Radio America. Questo è l’Altman che tutti conosciamo e amiamo, e abbiamo invece scelto di raccontarvi il percorso grazie al quale questo cineasta unico e miracoloso è diventato tale. Cantando la suddetta It Don’t Worry Me, Albuquerque diceva anche «i morti non provano dolore». Speriamo sia vero. (Alberto Crespi – L’Unità 22/11/2006)
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Robert Altman, è stato un grande regista indipendente e un grande amico dei gay. In molti suoi film troviamo personaggi omosessuali, trattati sempre con onestà e naturalezza. Amava dire «Non ci sono eroi nei miei film perché non so esattamente che cosa sia un eroe. Il protagonista? Io non ho mai conosciuto nessuno che non avesse debolezze e difetti», e ancora «In realtà sono un conservatore. Difendo la libertà di espressione, i diritti civili, e tutte quelle cose che stanno scritte in quel vecchio pezzo di carta che si chiama Costituzione”. Ancora giovane si fa persino mettere in galera rifiutando di firmare per entrare nel corpo dei riservisti. Se lo avesse fatto sarebbe stato chiamato a combattere in Corea. In merito ha detto «Ero solo un ragazzo, non avevo particolari motivazioni ideologiche. Volevo solo la mia libertà. E ho avuto il coraggio di resistere alle due più potenti istituzioni della nostra società: la chiesa e l’esercito».
E’ stato un uomo coerente, ha accettato allo stesso modo, con serenità, sia i successi che gli insuccessi, senza mai piegarsi a imposizioni esterne. L’industria hollywoodiana non l’amava, perchè non era il tipo ubbidiente a cui era abituata, ma in compenso tutti gli attori lo adoravano e spesso hanno lavorato per lui con compensi molto inferiori ai loro standard. Ricordiamo di seguito alcuni suoi film a noi particolarmente cari.
Interessante un suo documentario sulla vita di James Dean del 1957 “The James Dean Story” che raccoglie diverse interviste a parenti e amici dell’attore.
Nel 1975 dirige quello che da tutti è considerato il suo capolavoro, “Nashville”, dove fa guadagnare una nomination all’Oscar all’attrice lesbica Lily Tomlin, che dirigerà ancora nel film “America Oggi” e nell’ultimo “Home Praire Companion”.
“Un Matrimonio” del 1978 è un’altro affresco corale indirizzato contro l’istituzione matrimoniale. Tra gli invitati abbiamo il Captain Redley Roots (Craig Richard Nelson), un alto e impacciato militare che sentiamo definire gay nei pettegolezzi che si bisbigliano alcuni ospiti. Indimenticabile è la drammatica scena di quando Redley sveste lo sposo ormai ubriaco, portandolo sotto la doccia per farselo e mettendo a rischio il matrimonio per l’improvviso apparire della sposa. Un bel cameo lesbico è invece quello di Rita Billingsley (Geraldine Chaplin), organizzatrice del banchetto, che dà un appassionato bacio alla sposa giustificandolo con “Le mie spose sono le uniche figlie che ho mai avuto”.
Nel film “Una coppia perfetta” del 1979 abbiamo tra i personaggi secondari una felice coppia lesbica, Mary e Sydney -Ray, membre di un gruppo musicale, che viene presentata senza nessuna malignità o volgarità.
Nel 1982 abbiamo il delizioso “Jimmy Dean, Jimmy Dean” che vede ritrovarsi dopo 20 anni un gruppo di amiche e fans di Jimmy Dean tra le quali Karen Black che interpreta un transessuale. Le sue amiche sono chi shoccata, chi disgustata, e che ammirata dalla sua trasformazione dal gay Joe di vent’anni prima, all’attuale sinuosa Josephine, che ricorda con amarezza i maltrattamenti subiti quand’era gay.
Nel 1983 dirige uno dei suoi film più belli, secondo noi, anche se molto teatrale e claustrofobico, “Streamers”, un film contro la guerra (tema a lui molto caro) che vede riuniti in una camerata quattro giovani in attesa di essere chiamati per il Vietnam, tra i quali il gay giocatore di baseball Richie (Mitchell Lichtenstein). I quattro si combattono con le loro paure, i loro pregiudizi, l’intolleranza sessuale e razziale, imparando che sono proprio questi atteggiamenti a condurre verso la violenza e la guerra.
Nel 1987 abbiamo “Terapia di gruppo”, un film dove regna un’atmosfera “queer” dalla prima all’ultima scena. Uno dei protagonisti, Bruce, interpretato da Jeff Goldblum, è un bisessuale che convive con il gay Bob (Christopher Guest) ma che vuole sperimentare anche il suo lato etero.
“Prêt-à-Porter” del 1994 è un film corale sul mondo della moda e Altman ha dichiarato “impossibile fare un film su questo mondo senza presentare personaggi gay, sono la razza indigena del mondo della moda”. E infatti vi troviamo lo sfavillante Cort Rommey (Richard E. Grant) e lo stilista Cy Bianco (Forest Whitaker), mentre l’attore gay Rupert Everett interpreta un etero come figlio di un pezzo grosso della moda. Lily Taylor è invece la giornalista lesbica Fiona Ulrich.
Nel 2000 abbiamo la piacevole commedia “Il Dottor T e le donne” che ci fa vedere un bellissimo coming out lesbico della figlia Dee Dee (Kate Hudson) del dottor Sullivan (Richard Gere) che si scoprirà avere, all’indomani del proprio matrimonio, una relazione omosessuale con Marilyn (Liv Tyler) scelta non a caso come damigella d’onore.
“Gosford Park” del 2002, una avvincente e intricata commedia gialla sui rapporti di classe, è il film che ci ha fatto innamorare del bel Ryan Phillippe intento a soddisfare sessualmente il produttore omosessuale Morris Weissman (Bob Balaban – anche produttore vero del film).
Anche nell’ultimo acclamato “A Prairie Home Companion”, un film sulla morte come lo ha definito il regista stesso, compare una coppia di musicisti country, Dusty e Lefty (Woody Harrelson e John C. Reilly) molto in odore di omosessualità.
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