Nonostante anagraficamente appartenga alla gloriosa stagione delle “nouvelles vagues”, e nonostante abbia esordito proprio poco dopo la generazione dei Godard e dei Truffaut (nel 1961 con Les petits drames, il corso Paul Vecchiali (Ajaccio 1930) rimane legato, per lo spettatore italiano, a un momento successivo, a quel ripensamento sorto sulle rovine del 68 che coincise con la fase post-politica e “lacaniana” dei “Cahiers du cinéma” e con un’attenzione particolare ai corpi (erano anche anni d’oro del femminismo teorico, e sarebbero poi stati anni di ritorno al privato). Lo notava anche il filosofo Gilles Deleuze: dopo la nouvelle vague, tutto quanto di buono ha fatto il cinema francese, partiva dall’accento sui corpi: Garrel, Ackerman, la sublime meteora Jean Eustache di La maman et la putain. (E aggiungeva: certo, ciò ha i suoi rischi: dopo un po’ non se ne può più di corpi che camminano radente i muri e poi si rannicchiano in terra…).
Ripeto, collocare Vecchiali tra i registi degli anni 70 e 80 è effetto prima di tutto della fruizione distorta che i suoi film hanno avuto in Italia. Un destino simile forse a quello di un altro grande post-nouvelle vague, Maurice Pialat, classe 1928, ma che ha conosciuto la sua stagione d’oro negli anni 80. Ma questo effetto ottico forse coglie, del cinema di Vecchiali, una più profonda verità. Autore appunto di un cinema di corpi, ripensatore raffinato e coerente dell’estetica melodrammatica, il suo discorso era in singolare sintonia con i tempi, e il suo recupero del melodramma correva di pari passo con gli eventi storici, (il “pubblico” e la sua crisi, fino al “grande freddo” e alla scoperta dell’Aids). Come erano anche, da subito, i melodrammi di Fassbinder (e come sarebbero stati da noi, su quella lezione, quelli dimenticati ma significativi di Salvatore Piscicelli…)
Di Vecchiali sono stati distribuiti in sala, in Italia, solo tre film: Corpo a cuore (1979), Una donna per tutti ovvero Rosa la rose, file publique 1986), once more-Ancora (1988). Tre melodrammi strazianti ma anche, si disse all’epoca, intellettualistici. Con una cinefilia sottile e decantata che guardava (specie nei primi due film) a certi classici del realismo poetico degli anni del Fronte Popolare, e del dopoguerra (Ophuls, ma anche un film misconosciuto come Dedée d’Anvers di Allégret). Nel secondo film, la filiazione era proprio esibita e omaggiata: il film, una vicenda alla Bubu di Montparnasse (prostituta+innamorato+pappone), era in costume, impastato di nostalgia filologica e coltissima, sul filo della maniera, con una perfetta scelta di protagonista (Marianne Basler). Ma il film in cui il regista osava di più, il suo canto più estremo, il suo lavoro insieme più viscerale e più estetizzante, è Once more, forse il lavoro che con più efficacia ha raccontato l’amore (omosessuale, e non solo) ai tempi dell’Aids. Dieci anni, dal 1978 al 1987, nella vita di un uomo sposato che si scopre gay, abbandona la famiglia, tenta il suicidio e muore di Aids. Dieci 15 ottobre a un anno di distanza (a ripensarci, forse se ne è ricordato Amelio per Così ridevano…), dieci piani-sequenza, canzoni come commento, viatico (molte furono tagliate nell’edizione italiana). Il melodramma come scelta etica, vissuta e creduta, evitava al film di cadere nel compiacimento e nell’ambiguità, salvava e rendeva credibile un progetto difficilissimo (si pensi per contro a un film coevo, probabilmente anche sincero ma dall’esito sconcertante, come Notti selvagge di Cyril Collard).
Negli ultimi anni, il cinema di Vecchiali è inevitabilmente finito nell’angolo, senza spazio produttivo, e dopo Zone franche (1996) il regista ha firmato solo piccole cose, specie per la Tv (tra cui un altro mini-mélo di pochi minuti con due personaggi, Les larmes du Sida, titolo che solo lui poteva osare…) Il suo ultimo film, A vot’ bon coeur (2004), passato a Cannes, è un’amara messinscena della propria marginalità: dopo lo scandaloso rifiuto dello Stato francese a concedere i finanziamenti pubblici al suo film, il regista immagina di uccidere uno a uno i membri della commissione. Una estrema, vitale, sgangherata dimostrazione di bisogno di fare cinema.
[da Film Tv, n. 32, 2004]
Nel 2006 Vecchiali presenta al Festival del cinema omosessuale di Torino, due anteprime assolute, “+ si @ff” sul chatting e gli incontri nella comunità gay virtuale, e “Bareback” che parla del fenomeno sempre più diffuso in alcune comunità gay negli Usa di sfidare l’aids facendo sesso senza alcuna protezione per “regalare” il virus al partner, mentre nei paesi europei spesso si fa uso di questo termine semplicemente per dire che si fa sesso non protetto. Durante il Festival torinese il direttore Giovanni Minerba ha consegnato una targa d’onore al grande regista francese, dietro la cinepresa dal 1961 per parlare dei temi sociali a lui da sempre cari, tra cui ricordiamo Encore/Once More che già nel 1987 pose l’aids al centro dell’attenzione (e ricordiamo che di lui si era visto a Torino dieci anni fa, l’episodio Les larmes du sida (Lacrime dell’aids) del film a episodi sul malefico virus L’amour est à réinventer -L’amore è da reinventare). “Encore” c’è scritto anche sulla targa in omaggio alla sua lunga e prolifica carriera nel senso del titolo del film, ma anche con l’augurio di regalarci “ancora” tanti altri bei film. (Togay 2006)
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