1/12/2008 |
Siamo ancora in attesa che qualche benemerito distributore di sala, tv o dvd ci permetta di vedere “I Don’t Want to Sleep Alone”, premiato al festival di Venezia 2006. Il film nel 2007 è stato proibito in Malaysia, dove il film è girato, perché metterebbe in cattiva luce il paese (“per ragioni culturali, etiche e razziali”). Solo nel 2008 dopo che Tsai ha accettato di tagliare le parti non gradite ai censori, il film è stato distribuito.
Nell’ottobre 2008, Tsai è stato a Parigi per presentare il suo ultimo film, “Visage”, commissionatogli dal Museo del Louvre e ancora in produzione. Affaticato per il lavoro del film che lo ha impegnato moltissimo, ha detto che il film sarà molto speciale “perché si basa su delle complesse combinazioni: la rinfrescante bellezza di Laetitita [Casta], l’attore feticcio del regista della Nouvelle Vague, Francois Truffaut, [Jean-Pierre] Léaud, l’attrice Fanny Ardent, io che non parlo il francese, e il mio alter ego “little-Kang” [Lee Kang-sheng]; tutti coinvolti dal Louvre, il film sarà un regalo”.
La religione buddista di Tsai è molto importante nella tematica del film, particolarmente la nozione dei tre Dharma Seals [???], “transitorietà”, impersonalità e l’insoddisfazione”, condizioni che il film cerca di descrivere. Queste idee sono venute in mente a Tsai dopo tre anni di visite al Louvre. Egli spera di mostrare “come ogni cosa sia illusoria, proprio come nel cinema è tutto illusorio, ma quello che è importante è come ci comportiamo davanti a queste illusioni e come riusciamo a sopportarle.”
Tsai ha detto di essere rimasto impressionato positivamente dal viso “unico” di Laetitia Casta, un viso “famigliare e intimo”.
Laetitia, riferendosi anche alle difficoltà della comunicazione linguistica col regista, ha detto che vede Tsai “come se fosse un Buddha, ma un Buddha che è anche un po’ pazzo.”
BIOGRAFIA |
Tra quello di Rainer Werner Fassbinder e quello di Andrej Tarkovskij, si scaglia, con fulminea rarefazione, prezioso, indispensabile, il cinema di Tsai Ming-Liang.
Figlio di contadini, ancora giovanissimo, viene introdotto al magico mondo del cinema dai nonni, che lo accompagnano alle piccole sale di provincia per vedere soprattutto i film della tradizione popolare cinese ed i nuovi prodigi hollywoodiani. “Sono nato in un tempo in cui i film si vedevano solo al cinema, non c’erano i dvd, solo così si possono notare tutti i dettagli. Da bambino a Kuching, in Malesia, ho visto più di 3.000 film di kung fu, il cinema di Hong Kong contaminato dall’occidente, studiato e influenzato da Hollywood, in cui si legge la sua storia coloniale.”
Al termine del liceo, oramai ventenne, si trasferisce a Taiwain, per frequentare i corsi di cinema e teatro all’Università di Cultura Cinese di Taipei, dove avviene il fondamentale avvicendamento tra il Nuovo Cinema Tedesco e la Nouvelle Vague: l’affettuosa narrazione di François Truffaut (al quale dedicherà nel 2001 il divertente Che ora è laggiù?), il lento procedere dei sentimenti tra gli afosi ambienti urbani in compagnia di Michelangelo Antonioni, lo scrupoloso rigore formale di Robert Bresson e soprattutto la sensuale e rivoluzionaria crescita sociale di Fassbinder. “Poi c’è stata la scoperta dell’America e più tardi da studente, all’università di Taipei, mi sono avvicinato al cinema europeo. Lì ho conosciuto un nuovo mondo, sono stato folgorato da Fassbinder, dalla sua storia d’amore tra una vecchia e un ragazzo nero.”
All’indomani della laurea (1982), il regista si dedica interamente al teatro, scrivendo, tra il 1989 e 1991, circa dieci drammi, e dirigendone lui stesso almeno sei, e dopo la realizzazione di alcuni episodi televisivi di gran successo giunge al cinema con Rebels of the Neon God, premiato al Festival di Torino nel 1992, e in cui sono già presenti tutti gli elementi caratteristici del suo linguaggio: una dedizione a quel particolare e disastrato nucleo familiare che ingabbia l’attore-feticcio Lee Kang-Sheng per l’intera sua cinematografia inondata dall’acqua, come se solo il suo fluire potesse mostrarci lo scorrere del tempo, profumata appena da bastoncini d’incenso, e ossessionata dal sesso, come immediato, forse rituale, e vano atto catartico.
Al tormentato e straordinario Vive l’amour, Leone d’oro a Venezia nel 1994, fanno seguito lo sconvolgente, allegorico (quasi mistico) e spietato Il fiume e The Hole (Il buco), in un’accurata coreografia d’anime sofferenti e ludicamente abbandonate, che strisciano sui muri come a voler lasciare un’impronta di sé.
Con Goodbye, Dragon Inn, che riceve numerosi riconoscimenti in varie parti del mondo, il regista raggiunge la vetta massima della sua esperienza visionaria e, attraversando il suo mondo così ispirato, dove i fantasmi, liberi dalle ragioni del tempo, appaiono timidi ma reali, ci mostra la strada verso casa, intima, tra mura forse deserte, ed ancora una volta solcata da una salubre alluvione Tarkosvkiana. “Non so per quale motivo, ma la mia vita è sempre stata legata alla pioggia, quando abitavo in Malesia il soffitto della mia stanza gocciolava, sono andato a Taiwan ed era la stessa cosa, addirittura quando ho affittato un appartamento a Parigi alle prime piogge il soffitto ha iniziato a gocciolare. Mi segue ovunque e ne sono felice.
[Daniele Del Mare]
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