Gian paolo Barbieri

Gian paolo Barbieri
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Gian paolo Barbieri

Gian Paolo Barbieri, omosessuale dichiarato, nasce in via Mazzini, nel centro di Milano nel 1938, in una famiglia di grossisti di tessuti. Proprio nel grande magazzino di tessuti di suo padre acquisisce delle competenze che gli saranno utili nel suo fare fotogra?a di moda. Come per altri grandi, Armani per esempio, è il teatro ad esercitare un potente fascino sulla fantasia, tanto da farlo iscrivere alla scuola di recitazione del Teatro Filodrammatici, tra il 1956 e il 1957. Insieme a due amici forma “Il Trio” e nella casa dei genitori rappresentano dei drammi sentimentali: “Letto matrimoniale”, “La Traviata”, “Un tram chiamato desiderio”. In seguito gli viene af?data una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti con Sara Ferrati e Memo Benassi. Diventa attore, operatore e costumista insieme al suo “Il Trio” nel rifacimento di alcune parti di famosi ?lm come: La via del tabacco, La vita di Toulouse Lautrec e Viale del tramonto. Il cinema americano degli anni ’50 costituisce una base importante per lui, i drammi di Tennesee Williams o attori come James Dean, Marlon Brando o ancora Lana Turner e Ava Gardner, donne bellissime illuminate da una luce tutta particolare che le rendeva ancora più affascinanti. Quando andava al cinema cercava di capire come queste attrici potessero risultare così belle perciò quando tornava a casa utilizzava tutto ciò che aveva in cantina per ricreare quella luce, prendeva le lampadine e le in?lava nei tubi di stufa ma con il tempo imparò che servivano le lenti di Fresnel e i ri?ettori ma non poteva saperlo, non avendo frequentato alcuna scuola. Il cinema gli diede il senso del movimento e l’occasione di portare la moda italiana, nata su fondo bianco in pedana, in esterno, dandole un’anima diversa.

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Articolo di Daniela Monti su Corriere della Sera del 26/2/2016

La memoria Ho custodito tutto, anche i biglietti che mi scriveva. All’amore non importa delle leggi, dei contratti. Chiede solo di essere seguito Amanti clandestini Non volevo che nessuno sapesse di noi Oggi mi comporterei in modo diverso, sembra tutto più facile. O forse è solo un’illusione

Non mi hai chiamato ieri sera/stanco sono andato a letto con il telefono in mano./È così bello vederti ridere e ballare prima di correre in acqua./E poi ti sdrai accanto a me e i tuoi capelli bagnati accarezzano la mia schiena./Ti piaceva una vita così e volevo dartela e fare una casa al mare per te./Manca solo il tetto e sarà finita, solo il tetto./Il telefono ha squillato con un suono sgradevole./Una volta, due volte, tre volte…/Poi ha smesso .
Quando il telefono squilla, Gian Paolo Barbieri, milanese, classe 1938, uno dei grandi maestri della fotografia di moda, è alle Seychelles, isola di Mahè. «Avevo una piccola casa e quando ho visto che Evar amava il mare ho pensato di costruirne una più grande, in cui potessimo stare insieme. C’era un lembo di spiaggia, me ne ero innamorato ed ho stabilito di edificarla lì. Così quell’estate ero alle Seychelles per seguire i lavori, mi alzavo alle sei per aprire il cantiere. Evar mi avrebbe raggiunto in agosto. La sera avevamo sempre un appuntamento telefonico, ma quella sera la telefonata non arrivò. Squillò invece il giorno dopo, mentre ero a casa per pranzo. Una voce mi disse: sai la novità? Evar è morto. In quel momento, ho perso la voce».
Evar Locatelli, 21 anni, di Paladina, Bergamo. Nel libro «Fiori della mia vita» che Barbieri ha appena pubblicato (verrà presentato domenica a Milano, nel suo studio, con una performance) c’è un piccolo ritaglio di giornale: «Bergamo — Giovane motociclista travolto da due auto è morto ieri sera all’incrocio fra via Locatelli e viale Italia ad Almè, in provincia di Bergamo. Vittima dell’incidente è Evar Locatelli». Il ritaglio non è datato, ma l’anno è il 1991.
Per venticinque anni Barbieri non ha fatto parola di questa storia. Pochissimi sapevano del loro legame, «ho sempre impedito ad Evar di parlarne, volevo proteggerlo: la gente è cattiva, è stupida, poteva rovinargli la carriera per una cosa così. Ci eravamo conosciuti per via del suo book fotografico. Avevamo trent’anni di differenza. Quando sua madre telefonava e io rispondevo dal piano di sopra, dove avevo la camera da letto, dicevo sempre: attenda signora, vado a chiamarlo, anche se Evar era lì, al mio fianco. Volevo che nessuno sapesse. Oggi forse mi comporterei in modo diverso, oggi sembra tutto più facile. Ma forse è solo un’illusione. O sei un grande nome, e perciò sei inattaccabile, oppure corri ancora il rischio di essere giudicato».
Venticinque anni dopo
Al buio cerco i tuoi occhi verdi./Stiamo giocando a nascondino…/1,2,3,…via!/Dove sei?/1,2,3…via! Ti cerco… Sono passati 25 anni./Tu sei vicino, ti sento ridere /sento il tuo fiato sul collo./1,2,3… Mi giro … Ti vedo!
«È stato lui a convincermi a pubblicare il libro — e Barbieri indica Branislav Jankic, il giovane assistente polacco, autore delle poesie del volume —. Ero titubante, è un progetto così privato. Alla fine ho ceduto alla violenza».
La memoria è il solo risarcimento possibile per ciò che ci viene tolto. Ma la memoria ha bisogno di cure, di silenzio, di tempo per stabilire delle connessioni. «La memoria è tutto, è la fonte di ogni nuova idea: dalla testa non può uscire nulla che non sia, in qualche modo, già dentro. C’è chi dialoga con le persone che ha perduto, io ho sempre avuto Evar nella mia vita: ho a casa un suo ritratto e davanti, ogni giorno, metto un fiore nuovo. Abbiamo vissuto tre anni meravigliosi, senza ombre. Ho custodito tutto, anche i biglietti che mi scriveva, infantili e profondi. All’amore non importa delle leggi, dei contratti, delle cerimonie davanti a un prete. L’amore chiede solo di essere seguito».
«Fiori della mia vita» fa dialogare le foto private che Barbieri ha scattato a Evar Locatelli, bello come un dio greco, con nature morte di fiori «che ho sempre fotografato pensando a lui e a come produrre qualcosa di interessante per il mio lavoro. I fiori sono così fotogenici, ma difficili. Cerco di rubargli l’anima, di renderli più belli di quello che sono. Il fiore del banano, per esempio…». E Barbieri, il celebrato fotografo — che la mitica direttora di Vogue America Diana Vreeland non riuscì a trascinare a New York neppure offrendogli nove mesi sicuri di contratto; quello dei ritratti a Monica Bellucci, Audrey Hepburn e mille altre; il collega di cui Avedon collezionava le foto e che volle conoscere tanta era la stima che aveva del suo lavoro — con la puntigliosità del botanico avvia una lezione improvvisata sull’anatomia del fiore di banano, la sua estetica rigorosa, la fragilità dei petali dalla vita brevissima e quella volta che li riattaccò al bulbo con gli spilli per riuscire a fare lo scatto che voleva…
L’attimo prima di scattare
Fiori e corpi. «Ho tolto le modelle dalla pedana immergendole nel caos della vita perché volevo che, guardando le foto, la gente si domandasse cosa era successo prima dello scatto e cosa sarebbe accaduto dopo. La moda mi ha dato tantissimo, mi ha istruito, però a un certo punto ho capito che potevo voltare pagina». Così sono nati i libri sul Madagascar, Tahiti, l’Ecuador. Poi il nudo. «Me lo ha chiesto un art director: tu lo sapresti fare senza volgarità. Così ho cominciato con un amico: è salito sulla pedana e io sono rimasto lì, immobile, non sapevo da che parte cominciare. Ci ho messo molto tempo prima di affrontare il corpo nudo con semplicità, sottraendolo al voyerismo». Ora c’è l’idea di una Fondazione che custodisca e metta a frutto il suo lavoro. E c’è il ricordo di un amore che in venticinque anni è cresciuto invece di annebbiarsi. Fotografia e memoria: entrambe cercano di convincerci che ciò che mostrano è davvero la realtà dei fatti. «La fotografia è il mezzo più potente per fermare i ricordi — insiste Barbieri —. Non il filmato: la fotografia».
Ho sognato di essere in una stanza piena di fiori e persone./Da lontano ti vedo./Nella mano tieni un casco della moto./Mi sorridi e dici:/«Non credere a coloro che ti diranno che sono morto!/Io sono qui per te ».

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