Dai nostri inviati Antonio Schiavone e Roberto Mariella.
Secondo appuntamento dei Queer Focus
Masterclass su Mina di Riccardo Ventrella ‘La zebra che fa le bolle (blù) telefonando: Mina come icona della cultura di massa’.
Quest’anno Mina compie 60 anni di carriera. Riccardo Ventrella ne ha tracciato le principali tappe con l’ausilio di numerosi spezzoni video. Dai primi passi alla Bussola, ai film musicarelli insieme agli altri cantanti ‘urlatori’, le trasmissioni in RAI, la cacciata per il figlio avuto fuori dal matrimonio, il ritorno in RAI, le pubblicità Barilla e Tassoni a Carosello, Il duetto con Battisti a Teatro 10, i problemi di entrambi che li portarono a non apparire più, via, via, fino ai giorni nostri.
Il FQF ha da sempre tenuto in gran conto la storia della nostra comunità e del movimento per i diritti delle persone LGBTQI. Nella programmazione di oggi si distinguono a riguardo due documentari particolarmente belli e significativi: Queerama di Daisy Asquith che ripercorre la storia della condizione omossesuale in Inghiterra dal processo a Oscar Wilde ai matrimoni ugualitari e Dykes, Camera, Action! di Caroline Berler, una storia del cinema queer al femminile attraverso le testimonianze delle principali registe.
QUEERAMA di Daisy Asquith
(UK, 2017), 70’
Voto:
Queerama è stato realizzato da Daisy Asquith dopo aver passato più di 10 settimane a rovistare nell’immenso materiale video degli Archivi del BFI National Archive e della BBC. Queerama non ha le caratteristiche del classico documentario, è piuttosto un grosso videoclip musicale composto da un collage di oltre cinquanta spezzoni tra celebri film lgbt e vecchi documentari, montati per argomento e adattati ad una moderna colonna sonora composta da brani di John Grant, Hercules & Love Affaire e Alison Goldfrapp.
Si parte con il film tedesco del 1919 Anders als die Andern di Richard Oswald considerato la prima rappresentazione cinematografica dell’omosessualità, e si prosegue con spezzoni dai principali film LGBT d’epoca; tra i tanti riconosciamo Victim, The Terence Davies Trilogy, Quelle due, L’assassinio di Sister George, Domenica maledetta domenica, The Naked Civil Servant e così via, passando per i film di Derek Jarman, sino ad arrivare alle recenti serie televisive come Shameless. La regista avrebbe voluto includere altri film ma non è riuscita ad ottenere il permesso, anche per una questione di costi.
Alcuni spezzoni più lunghi presi da vecchi documentari televisivi inglesi degli anni sessanta appaiono oggi tremendamente omofobi: interviste a omosessuali e lesbiche per lo più con il volto nascosto, trattati come malati ritenuti non facilmente guaribili da medici e psichiatri, bisognosi di aiuto, disperati, oppressi dai sensi di colpa perseguitati dallo stigma sociale, dalle retate della polizia e dai giudici e anche pericolosi se insegnanti o istitutori.
In Gran Bretagna le lesbiche al contrario degli uomini gay non erano perseguite penalmente, ma erano ugualmente esposte al disprezzo sociale. Ad un certo punto il film fa un salto indietro e parla del processo a Wilde (nel 1895), evento che segnò un inasprimento nella persecuzione degli omosessuali inglesi. Poi si passa agli anni ’70 ‘80 con la comparsa di qualcosa di molto diverso con i film di Derek Jarman e con l’apparizione delle prime scene di sesso gay, anche se il reato di ‘indecenza grave’ sarà revocato solo nel 2003. Poi purtroppo un altro periodo poco felice con il governo di Margaret Thatcher e l’arrivo dell’AIDS. Contemporaneamente però nascono le prime rivendicazioni, con lotta per l’equiparazione dell’età del consenso a 16 anni, i gay pride e finalmente il riconoscimento dei matrimoni.
Nel film compaiono anche poche didascalie, qui riportate, che sintetizzano in alcune date come la Gran Bretagna sia passata in cento anni dalla criminalizzazione degli atti omosessuali tra maschi al riconoscimento del matrimonio egualitario:
“Tra il 1885 e il 1967 7500 uomini omosessuali sono stati perseguiti per il reato di ‘Gross Indecency’ che includeva palpeggiamenti, baci, adescamento e istigazione al sesso omosessuale. Nel 1967 il ’Sexual Offences Act’ depenalizzò il sesso omosessuale tra adulti consenzienti in privato, tranne che per le forze armate, le navi mercantili, il cruising nei parchi e nelle aree pubbliche… e per il sesso con i minori di 21 anni (mentre il limite per il sesso tra uomo e donna era di 16 anni). Tra il 1967 e il 2003 altri 30.000 uomini gay furono arrestati per comportamenti che non sarebbero stati considerati reato se l’altro partner fosse stato una donna. Nel 1980 la campagna della Thatcher per i valori familiari portò ad una forte crescita di arresti e il ‘Section 28’ rese illegale la ‘promozione’ dell’omosessualità’. Dal 1994 venne intensificata la campagna per i diritti degli omosessuali. Nel 2001 l’età del consenso è stata equiparata a 16 anni per tutti. Nel 2003 il crimine di ‘Gross Indecency’ è stato completamente eliminato. Nel 2017 la Alan Turing Law concesse il perdono a tutti gli uomini gay perseguiti sotto il Sexual Offence Act. Nel 2005 sono state introdotte le unioni di fatto. Nel 2013 è stato approvato il matrimonio egualitario. ”
DYKES, CAMERA, ACTION! di Caroline Berler
(USA, 2018), 58’
Voto:
Alla presenza della regista
In collaborazione con New York University Florence
Il documentario “Dykes, Camera, Action!” diretto e prodotto da Caroline Berler, ripercorre i momenti più significativi del cinema LGBT dal punto di vista delle registe femministe e lesbiche. Il film ci ricorda che il cinema lesbico negli Stati Uniti è nato negli anni ’60, poco dopo quello gay, come espressione della militanza femminista e lesbica, per merito di attiviste desiderose di vedersi rappresentate sullo schermo attraverso una nuova narrazione al femminile, rompendo così con la regola che vedeva l’ambiente cinematografico da sempre governato dagli uomini. Forse il miglior esempio di cinema militante è stato Born in Flames di Lizzie Borden del 1983 pseudo-documentario su di una insurrezione in Usa di lesbiche femministe e nere. Questi film però hanno iniziato ad essere dei punti di riferimento per le nuove generazioni di donne solo dalla seconda metà degli anni ’90, con film come Bound (Torbido inganno), 1996 di Andy e Larry Wachowski, But I’m a Cheerleader (1999) di Jamie Babbit, e High Art (1998) di Lisa Cholodenko.
Nel documentario prendono la parola un gran numero di cineaste e studiose di cinema, tra le quali Rose Troche, regista del cult degli anni ’90, autrice di Go Fish e di The L Word, Desiree Akhavan, regista iraniana autrice di un altro cult Appropriate Behaviour, Barbara Hammer e Jenni Olson, solo per citarne alcune note anche da noi. Insieme ci raccontano le loro prime opere, realizzate con il supporto, anche economico, di gruppi lesbici.
Il film è ricco di spezzoni di film realizzati da donne, quasi un manuale, una sorta di aggiornamento, ma con uno stile più moderno, del celeberrimo libro The Celluloid Closet (Lo schermo velato) di Vito Russo tradotto in documentario da Rob Epstein e Jeffrey Friedman (1995) che per primo ha analizzato la rappresentazione dei personaggi gay e lesbici nel cinema americano. Ci sono poi stati altri film di questo tipo (‘Fabulous! The Story of Queer Cinema’, ‘This Film Is Not Yet Rated’, ‘Before Stonewall’) ma nessuno concentrato specificatamente sulla rappresentazione delle donne queer. Anche Dykes, Camera, Action! prende ispirazione da un libro ‘New Queer Cinema: The Director’s Cut’ della critica cinematografica B. Ruby Rich.
L’idea per questo film era nata a Caroline Berler quando, ancora studentessa di cinema, incontrò la regista Rose Troche ad una festa e poi la intervistò per un suo progetto scolastico. La Troche era per lei un’eroina, dato che L Word aveva avuto un ruolo importante per il suo coming out. Film come “Go Fish”, “The Watermelon Woman”, “Appropriate Behavior” e tanti altri fino al più recente “Carol”, sono tutti importanti tappe di un percorso di emancipazione femminile. Si tratta però di film prodotti negli ultimi due o tre decenni. Sino ad anni recenti, il cinema, prodotto e diretto dagli uomini, ha raccontato le lesbiche in maniera distorta: vampire, viziose e quando andava bene povere disgraziate. Anche film ben fatti come Quelle due di William Wyler del 1961, con Audrey Hepburn e Shirley MacLane, mostravano che le donne che scoprivano di amare altre donne non avevano altra via di uscita che il suicidio. Come si dice nel film ‘c’era sempre un albero che cadeva su una lesbica’. Dobbiamo aspettare la metà degli anni ’80 per trovare film come Cuori nel deserto, di Donna Deitch, del 1985, arrivato in Italia solo 3 anni dopo, una rappresentazione mainstream più adeguata di donne che amano altre donne.
La Berler ha dovuto superare numerosi ostacoli, per realizzare il suo film, come i costi per ottenere i filmati d’archivio protetti da copyright. Ha avuto un aiuto economico tramite il crowdfunding.
Ha detto Caroline Berler: “La maggior parte delle persone non conosce le storie raccontate in questo film. Ci sono troppo pochi film diretti da donne. Spero che questo film incoraggi le future generazioni di donne ad uscire allo scoperto, a fare film e a cercare film di e per le donne ”
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Tra i corti del concorso VIDEOQUEER di oggi segnaliamo:
Fernanda’s Spring di Débora Zanatta e Estevan de la Fuente
(Portogallo, 2018, 19’)
Voto:
Fernanda lavora come prostituta per mantenere sua sorella e sua nipote. Come è comune con questa attività stessa, a volte viene aggredita e insultata da clienti che non la rispettano.
La sorella, quando si rende conto della situazione di Fernanda, le consiglia di andare a cercare un lavoro in cui potrebbe essere trattata con più rispetto.
Fernanda, finisce per scoprire che può usare quello che ha imparato quando lavorava in Germania e quello che le aveva insegnato da sua madre come pasticciera. Fernanda Spring vuole portare in evidenza il problema dell’invisibilità dei transessuali nelle grandi città e le loro difficoltà ad avere una vita dignitosa. L’attrice stessa, Laysa Machado è un esempio di vita dignitosa spesa per la comunità.
Una semplice verità di Maria Cinzia Mirabella
(Italia, 2018), 14’’
Voto:
Il cortometraggio racconta di un caso di omofobia all’interno delle mura domestiche. La storia si svolge sull’isola d’Ischia, dove un uomo è invitato a presentarsi al distretto di Polizia per essere ascoltato in seguito ad una denuncia a suo carico. A denunciarlo è stata la figlia (Giulia Montanarini), malmenata da quest’ultimo e dal fratello di lei dopo che lei ha rivelato che la persona con la quale è andata a convivere è una donna. Ad interrogare il padre è un commissario donna (Cinzia Mirabella) che conduce l’interrogatorio prima al padre e poi alla donna stessa. E nel gioco delle rivelazioni, a sorpresa esplode una verità nascosta, come atto liberatorio verso una società che preferisce rimanere cieca e sorda, e che vorrebbe impedire attraverso il pregiudizio di far vivere un amore, a due persone dello stesso sesso.
Non è amore questo di Teresa Sala
(Italia, 2017), 33’,
Voto:
Cortometraggio a metà strada tra il documentario e la fiction, con protagonista, Barbara, una donna disabile. Nel nostro Paese il sesso in relazione alla disabilità è un argomento tabù. Il disabile viene visto come se fosse costituito esclusivamente dalla sua patologia e non potesse avere una vita piena e autentica. In Barbara la protagonista si racconta e si denuda – letteralmente – per farci entrare nella sua quotidianità; alzarsi al mattino, lavarsi, scendere le scale e parlare con amici, girare per la città. Il racconto del suo passato, del suo presente e dei suoi sogni, della sua vita affettiva e sessuale, del suo desiderio di maternità, del rapporto con la sua famiglia.
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Per QUEERBOOKS è stato presentato il libro
“L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano“ di Francesco Gnerre (Rogas Edizioni, 2018) presente l’autore con Andrea Pini.
Il libro di Gnerre, una ristampa completamente rivista rispetto all’edizione del 2000, fornisce una completa panoramica della letteratura italiana con contenuto LGBT, che parte dagli autori nati alla fine dell’ottocento, sino agli scrittori di oggi come Matteo B. Bianchi, Walter Siti, Mario Fortunato.
Andrea Pini leggendo dei brani dall’introduzione del libro di ha parlato dell’arretratezza della letteratura italiana di inizio ‘900 rispetto a quella francese riguardo ai contenuti omosessuali, poi del periodo fascista e della censura anche dopo la fine della dittatura, con libri come quelli di Giò Stajano condannati al rogo. Del conformismo di DC e anche del PCI su questo argomento.
Gnerre tra le molte interessanti cose che ha detto, ha parlato dei contenuti omosessuali in molti libri del ‘900, non comprensibili ai più perché gli autori hanno usato dei piccoli trucchi letterari per non essere espliciti. Come hanno anche fatto Aldo Palazzeschi e Mario Soldati. Riletti oggi, molti testi del passato rivelano sorprendenti pulsioni omosessuali. Molte persone, anche istruite, non conoscono l’omosessualità di certi autori, anche perchè nei licei e nelle università molti insegnanti non ne citano l’omosessualità. Mentre si citano le amanti del Foscolo, non si fa lo stesso con gli amori di Pasolini (Ninetto Davoli). Gnerre ha citato quel rettore di Università che gli diceva che se uno scrittore è omosessuale sono fatti suoi, quello che conta è quello che scrive. E’ vero invece il contrario, che l’orientamento sessuale influisce nell’opera di uno scrittore. Si è molto parlato di Tondelli e di Pasolini.
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In serata:
Ospite speciale il cantante Alia che presenta in anteprima il videoclip “L’attraverso” e un assaggio dal vivo con Martina Agnoletti (voce) e Erika Giansanti (viola) del suo nuovo album Giraffe.
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Mark’s Diary di Giovanni Coda
(Italia, 2018, 75’)
Voto:
Anteprima assoluta alla presenza del regista
Mark’s Diary, l’ultima opera cinematografica del regista Jo Coda, ci conduce nel mondo della sessualità e dell’amore nella disabilità. Mark’s Diary probabilmente è il film più bello di Coda fino a questo momento. Qualcuno potrà essere disturbato da qualche scena, ma non si può non provare commozione per il messaggio e stupore per la bellezza delle immagini. Non si può certo restarne indifferenti.
In attesa di produrre un film sulla violenza sulle donne, (ultimo di una trilogia insieme a Il rosa nudo 2013 e Bullied to death 2015) il regista ha sviluppato questo progetto dopo la lettura di ‘Loveability’ di Maxiimiliano Ulivieri, edito da Erkson, che tratta dell’ancora radicato tabù della sessualità dei disabili e della sua negazione. Una negazione fondata sull’idea falsa che i disabili siano asessuati. Maximiliano Ulivieri, impegnato da anni per il riconoscimento dell’assistenza sessuale per i disabili, ha raccontato diversi casi che gli erano stati riferiti per lettera dai protagonisti. Il film è prodotto dall’Università di Derby ed è stato scritto e girato in inglese. Gli attori principali sono statunitensi come la casa di produzione, la Atlantis Moon.
Nel film una voce narrante in inglese, interrotta da alcune canzoni, accompagna le immagini. Le prime frasi del film sono queste: “la società si sforza di venire incontro alle persone con disabilità per ogni loro bisogno che non possa essere svolto in totale autonomia. Le aiutiamo a svestirsi, spogliarsi, mangiare e lavarsi. Diamo loro carrozzine elettriche per muoversi, macchine con comandi speciali, computer dotati delle più sofisticate tecnologie, dotiamo le loro case di soluzioni robotiche, che consentano loro una vita, se possibile, indipendente. Eppure, di tutti questi diritti, di cui nessuno metterebbe in dubbio la legittimità, ce n’è uno che viene sistematicamente taciuto, omesso, rimosso: quello alla sessualità. ” Ha aggiunto il regista “ L’amore non ha confini. Il suo potere è praticamente infinito e siamo noi, la società civile – che per ignoranza o per convenienza, tabù del passato e per più recenti esigenze del mercato di omologare e standardizzare corpi, sentimenti e pulsioni – abbiamo sviluppato la necessità di porre dei limiti ad un sentimento che racchiude in sé una parte fondamentale della natura e di ogni essere umano. “
Mark e Andrew, due uomini disabili, (uno è interpretato dallo stesso Ulivieri, l’altro da Giacomo Curti) si incontrano e si piacciono. Tra i due si crea un’intensa attrazione impossibile da soddisfare fisicamente. I ragazzi innescano, attraverso una sovrastruttura onirica, una “realtà virtuale” creando due personaggi di fantasia ai quali trasmettono le proprie emozioni. L’intera storia si svolge nell’arco di dodici ore. Al termine della giornata ritorna la realtà e con una sorpresa emerge la consapevolezza che tra di loro è accaduto davvero qualcosa.
Il testo è composto come è nello stile di Coda, da citazioni di poesie e di brani letterari sul tema dell’amore, e da quanto ha scritto Ulivieri nel libro, con considerazioni sui problemi dei disabili riguardo alla sessualità, come la mancanza di intimità, l’impossibilità di praticare autoerotismo, anche per la paura di sporcare, l’imbarazzo del essere toccati da tante mani estranee. Intanto scorrono immagini di bellissimi ballerini di vari sessi che ballano freneticamente, poi due splendidi ragazzi che si baciano, si lavano nudi abbracciati, poi pranzano, passeggiano mano nella mano, poi ci sono giocolieri , pittori che disegnano. A poco a poco le immagini dei protagonisti e quelle dei loro alter ego diventano meno vistosamente contrastanti e si contaminano.
Questo film di Coda tratta l’argomento attraverso una metafora, espressa attraverso una serie di coreografie. Nei film di Jo Coda possiamo riconoscere alcune caratteristiche costanti. Da un lato si tratta di opere artistiche visuali, dove contano la poesia dei testi, la bellezza delle immagini, la composizione scenografica, il gioco dei colori e del bianco e nero, da un altro lato ogni suo film è un’opera morale, con un preciso messaggio didattico diretto a risvegliare le coscienze su di un qualche tema cruciale, per la vita e la felicità delle persone, che non è stato adeguatamente trattato e risolto. Coda utilizza l’arte e il cinema come strumenti didattici per trasmettere in forma più diretta e incisiva dei messaggi dal forte contenuto sociale. Nelle sue opere cinematografiche rimane ancora traccia del educatore che collaborava con il Centro Giovani di Quartu Sant’Elena.
A Moment The Reeds di Mikko Makela
(Finland/UK, 2017), 107
Voto:
In collaborazione con Firenzen Suomi-Seura (Associazione Culturale Italo-finlandese di Firenze)
Leevi un giovane finlandese, che studia letteratura a Parigi torna in Finlandia per le vacanze, dove ritrova suo padre, suo unico parente rimasto dopo la morte della madre. Va ad aiutarlo a sistemare il loro chalet delle vacanze, isolato in mezzo a paesaggi stupendi, in riva ad un magnifico lago, prima di venderlo. L’incompatibilità tra le aspirazioni di Leevi e lo spirito conservatore del padre sono chiare sin da subito.
I due vengono raggiunti da Tareq, un architetto siriano rifugiato in Finlandia, assunto come manovale dal padre di Leevi per aiutarlo nei lavori. Malgrado la distanza e la differenza dei rispettivi paesi di origine, le preoccupazioni dei due ragazzi sono simili: un ambiente conservatore molto vincolante e un’omosessualità che fatica a farsi spazio all’interno della famiglia. Durante le assenze prolungate del padre di Leevi, che deve rientrare in città per lavoro, attraverso le loro semplici conversazioni in inglese, si sviluppa poco a poco tra Leevi e Tareq un sentimento d’amore.
Esordio alla regia del finlandese Mikko Makela, il film contiene alcuni elementi autobiografici: il regista vive in Inghilterra, dieci anni prima aveva lasciato la sua cittadina in Finlandia dove non avrebbe potuto vivere liberamente come gay, per stabilirsi a Londra e studiare letteratura. Anche lui ha provato un senso di estraneità tornando nella sua città natale. La società finlandese è nota per la sua apertura verso le persone LGBT, eppure sino ad un paio di anni fa in Finlandia non era stato girato nessun lungometraggio con un omosessuale come personaggio principale, poi nel 2017 ne sono usciti addirittura tre, tra cui il pluripremiato Tom of Finland di Dome Karukoski.
Il regista Makela sceglie di lasciare volutamente una grande libertà di dialogo agli attori, che quindi improvvisano i loro testi nella maggior parte delle scene. Scelta che conferisce al film un grande naturalismo accentuato dall’utilizzo di un inglese semplificato internazionale come lingua comune dei due giovani. Anche l’importanza dei telefonini e dei social network è presentata in maniera convincente come un linguaggio comune. Il film trova la sua forza nel ritratto convincente di due ragazzi del nostro tempo che malgrado le origini diverse si comprendono, condividono le stesse preoccupazioni e lo stesso modo di vivere. Due ragazzi uniti dalla condizione di stranieri, uno “auto-esiliato” in Francia, l’altro emigrato forzatamente dalla Siria. Il legame creatosi tra di loro li affranca dalla condizione di emarginati e insieme si sentono liberi di amare.
(Antonio Schiavone e Roberto Mariella)