Dai nostri inviati Antonio Schiavone e Roberto Mariella
KILLER PLASTIC-o. Tu ti faresti entrare? di Stefano Pistolini
(Italia, 2011, 50’) v.o. italiano
Alla presenza del regista
voto:
Aperto nel 1980 in un malandato caseggiato di due piani in viale Umbria 120, sulla circonvallazione cittadina, il Plastic, uno dei più famosi club di Milano e d’Italia, nel marzo del 2012 chiude nella sua sede storica e si trasferisce in una sede più grande e periferica, ma non sarà più la stessa cosa. Il periodo d’oro dei locali milanesi era finito, altre storiche discoteche come il Rolling Stones e l’After Dark avevano già chiuso.
In questo documentario di Stefano Pistolini, Simona Siri, giornalista e frequentatrice affezionata del locale, ci racconta gli anni d’oro del Plastic attraverso interviste ai suoi fondatori, ai dj e ad alcuni personaggi noti frequentatori abituali. Tra questi ultimi c’è anche Lorenzo Jovannotti, che arrivato a Milano nel 1987 su invito di Claudio Cecchetto andava al Plastic tutte le sere.
Nel 2014 sempre quì al Florence Queer Festival avevamo visto un altro documentario sullo stesso soggetto: This Is Plastc! di Patrizio Saccò. Il film di Stefano Pistolini si distingue perché per diversi aspetti è più queer, più colorato e divertente. Che il Plastic avesse una marcata connotazione gay, sia tra gli organizzatori che nel pubblico, nel film di Stefano Pistolini è evidente, anche solo nelle immagini. I collaboratori del locale non ne parlano espressamente, ma il linguaggio del corpo parla per loro. Sono più espliciti alcuni dei frequentatori.
Elio Fiorucci amico dei fondatori del locale, ad un certo punto dice: ” Il Plastic ha sempre accettato l’omosessualità come una cosa normale. Ha sempre accettato il colore, le razze, la diversità tra gli uomini. Tutte le cose di avanguardia devono avere i piedi per terra. Come Lucio che di giorno lavorava in un negozio di fruttivendolo e di notte era al Plastic. Molta gente pensa che l’avanguardia sia la stranezza, L’avanguardia è la normalità con un pensiero libero. “
Carlo Antonelli, ex direttore di Rolling Stone e poi di Wired, associa il successo del Plastic alla crescita a Milano di una nuova classe sociale, quella dei creativi, e alla crescente predominanza della cultura gay in una Milano diventata una delle città più gay friendly d’Europa.
Un altro frequentatore abituale ricorda che “al Plastic limoni con chiunque, poi alle 4 del mattino c’è l’ultimo giro: chi c’è c’è, liberi tutti”.
Simona Siri ha ricostruito la serata di chiusura del Plastic seguendo alcuni membri dello staff a partire dai preparativi a casa loro sino alla fine della serata la mattina dopo.
Parlano i fondatori del locale, Nicola Guiducci, Lino Lisi e suo fratello Lucio e i principali collaboratori dei tempi d’oro. Pinky Rossi la donna più temuta del Plastic, dal 1990 alla porta del locale. Sergio Tavelli che ha inventato Bordello – la serata del sabato, dal 1998, inizialmente nel privè, tempio della musica italiana anni 80. Con lui il suo amico e compaesano La Stryxia, storica drag queen delle serate Bordello. Killer Salvo – il primo ‘door selector’, o butta dentro del locale. Dentro non c’erano tavoli, né arredamento e nemmeno liste, per partecipare alla serata dovevi essere scelto dal buttadentro. Sulla lavagnetta di Salvo, che gli serviva per segnare i nomi alla porta, aveva scritto: ‘Tu ti faresti entrare?’.
Poi parlano alcuni degli affezionati abituè, tra questi forse l’intervento più bello è quello di Patrizia Di Malta, ai tempi simpatizzante punk, che ricorda come al Plastic il martedì l’ingresso era gratis per i punk, mentre altrove non erano fatti entrare e aggiunge: “ C’era un’ atmosfera di libertà. Il Plastic ti faceva sentire qualcuno di importante. Ti facevano entrare se capivano che ti eri dato da fare perché volevi dimostrare al mondo che per te essere diverso era importante. Era un posto per diversi.” Un altro ha aggiunto:”Il Plastic ha sempre promosso è accettato la diversità culturale, credo che sia stato proprio questo essere al di fuori degli schemi, l’andare dritto per la propria strada, che ha fatto la forza di questo club. Un posto dove si è liberi di essere chi si vuole essere, dove si rispetta qualsiasi forma di sessualità e l’avanguardia musicale è di casa.”
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Del concorso Videoqueer ci sono piaciuti particolarmente alcuni corti.
Sunken Plum (Chen Li) di Roberto F. Canuto e Xu Xiaoxi
20’ Cina Spagna (2016 )
Dialetto sichuanese mandarino
Voto:
Una donna transessuale, che lavora come drag queen in una discoteca a Chengdu, riceve la visita di sua cugina, che la informa della morte di sua madre. Deve quindi tornare, dopo anni, nel suo villaggio di nascita per i funerali, ma non può apparire come una donna di fronte a parenti e compaesani. Il film fa parte di una trilogia dei registi che vuole denunciare i soprusi che devono subire le persone transgender nella società cinese.
DAVY & GOLIATH di Charles Lum e Todd Verow
(USA, 2018), 7’, muto
Voto:
Un giovane entra un pomeriggio in un sexy shop di una cittadina di provincia, per affittare una cabina e vedersi in solitudine un video porno. Ma l’anziano proprietario del negozio è pieno di risorse e può rendere felici tutti i suoi clienti. Si tratta di un corto molto divertente e davvero sporcaccione. E non poteva essere altrimenti, Charles Lum e Todd Verow sono gli stessi talentuosi registi del film “Sex and Silver gay” sul sesso spinto degli anziani, proiettato qui al festival un paio di anni fa.
Ski Blue di Guido Verelst
(Belgio, 2017, 17’) v.o. inglese, sott. italiano
Voto:
Tom un uomo belga che vive da solo, conosce tramite una App di incontri Simon, un rifugiato del Camerun fuggito a causa della sua omosessualità perseguita nel suo Paese. Hanno una relazione appassionata e sognano un futuro felice insieme. Ma il divario culturale è molto grande e Simon non ha i documenti in regola.
Il regista presente in sala ci ha ricordato che l’omosessualità è punita in molti paesi con la pena di morte e con la prigione. Ora c’è un’emergenza rifugiati e molti di loro sono gay, lesbiche o transessuali e queste persone non hanno un volto. Quando arrivano in un altro Paese devono ancora nascondersi. Il corto vuole dare un volto a queste persone. Il film è autobiografico, il pensiero del regista è espresso dal personaggio belga. Nel film la parola rifugiato è da intendere in senso metaforico, entrambi i protagonisti sono rifugiati perchè sono alla ricerca di una vita migliore e alla ricerca di amore. Un altro tema del film è la solitudine. Oggi le persone si incontrano sempre più spesso con le App. Di fatto non si esce più e non si parla più per strada. Questa non è una critica ma un dato di fatto della società contemporanea.
Calamity di Severine De Streyker e Maxime Feyers
(France, 2017), 17’, v.o. francese, sott. italiano.
Voto:
France insiste per conoscere la ragazza di suo figlio, ma quando finalment le viene presentata non riesce proprio a trattenere la sua reazione nei limiti delle buone maniere, lasciando tutti di stucco. Non si trattava proprio del tipo di ragazza che lei sognava per suo figlio.
Nel tardo pomeriggio dopo i corti Bruno Casini ha presentato il videoclip dei Mondo Candido “Cambiare idea” alla presenza dei componenti del gruppo.
Mondo candido è un gruppo musicale fiorentino, nato nel 2000 e sciolto nel 2008. Cambiare idea è un videoclip del 2002, in cui c’è un coraggioso bacio lesbico. Dopo la visione del clip i componenti del gruppo ci hanno raccontato la storia di quel progetto.
Di seguito c’è stata la proiezione di Becks, un film pieno di musica.
Becks di Daniel Powell e Elizabeth Rohrbaugh
(USA, 2017, 91) v.o. inglese sott. italiano
Voto:
Becks, diminutivo di Rebecca (Lena Hall), è una chitarrista e cantante di Brooklyn, di non grande successo, sulla trentina, che si esibisce come frontwoman in una band di cui fa parte anche la sua bionda e focosa fidanzata Lucy. Becks è decisamente sfortunata in amore, è un po’ immatura e troppo amante dell’alcool. Quando alla sua ragazza viene offerto un ingaggio a Los Angeles, questa parte chiedendo a Becks di lasciare tutto e di raggiungerla. Ma quando Becks arriva, in anticipo di un giorno, la trova insieme ad un’altra.
Rimasta sola e senza lavoro decide di tornare a vivere per un po’ con sua madre, Ann, una ex suora, e ora vedova, che abita nella periferia di St. Louis, in un ambiente molto conservatore. Ann ce la mette tutta per convincersi ad accettare l’orientamento sessuale di sua figlia, ma per lei non è facile e il comportamento di Becks non le viene incontro.
Suparata la prima fase di depressione, chiusa in casa a mangiare sul divano davanti alla televisione, Becks inizia a suonare nel bar di un suo amico dei tempi della scuola e si offre per dare lezioni di chitarra. Si fa avanti come allieva Elyse (Mena Suvari), casalinga annoiata e moglie di un ex compagno di scuola di Becks, che ai tempi era un bullo. Ci vuole poco a capire dove andrà a parare la storia, come si fa a non perdere la testa per una ragazza cosi dolce, carina e simpatica come il personaggio interpretato da Mena Suvari ? Forse Becks avrà una sua seconda chance per essere felice? Il tutto è condito da tante piacevoli canzoni, stile country cantate da Lena Hall, che oltre ad essere una attrice teatrale vincitrice di un Tony per ‘Hedwig and the Angry Inch’ è anche una brava cantante. Le canzoni sono in realtà della cantautrice Alyssa Robbins (scritte insieme a Steve Salett), alcune fatte apposta per il film. La Robbins, grande amica della regista nella vita reale aveva avuto una esperienza molto simile a quella narrata nel film. Sebbene la sceneggiatura sia forse un po’ troppo semplificata, questo film indipendente è credibile e riesce a divertire e a commuovere nei momenti giusti. E ha dalla sua delle interpretazioni davvero molto valide delle due protagoniste principali. Mena Suvari è davvero incantevole.
L’evento clou della serata è stata l’esibizione del coro LGBT fiorentino CHOREOS nato a gennaio 2018 all’interno di Ireos, sulla scia un interesse crescente per questo tipo di iniziative che ha coinvolto le principali città d’Italia. Choreos è associato a Cromatica associazione di cori arcobaleno. Il coro è composto da una trentina di ragazzi e ragazze. L’esibizione non poteva che iniziare con Tanti Auguri di Raffaella Carrà e Over The Rainbow.
Who’s gonna love me now di Barak Heymann e Tomer Heymann
(Israele – Regno Unito, 2016), 84’
voto:
Protagonista del documentario è un ragazzo israeliano che canta in un famoso coro LGBT londinese. Come nel film che ieri ha aperto il festival, 1985 di Yen Tan, anche Who’s gonna love me now di Barak Heymann e Tomer Heymann, parla dei problemi che un omosessuale malato di AIDS deve affrontare per farsi accettare e rispettare nella sua famiglia di origine quando decide di tornare nella casa natale. Non importa che questa casa sia in un kibbutz agricolo israeliano o nella nazione più potente al mondo, basta che sia ben radicata una religione omofoba.
In Who’s gonna love me now, Saar Maoz, un giovane uomo gay israeliano vicino alla quarantina che vive a Londra da 17 anni, condivide con noi la storia della sua vita. Saar è nato in un kibbutz agricolo nei pressi di una piccola cittadina israeliana. La sua famiglia vive ancora lì seguendo le regole religiose degli ebrei più ortodossi.
Saar aveva 10-12 anni quando ha capito di essere gay e ha sofferto per anni prima di accettarsi. A 21 anni è stato espulso dal kibbutz, così ha preso la decisione di espatriare a Londra, dove si è costruito l’ambiente giusto per lui. Ora è impiegato in un Apple store e canta in un noto coro maschile gay, il London Gay Men’s Chorus. Le esibizioni di questo coro fanno da colonna sonora al film.
Non è però che la vita londinese di Saar sia tutta rose e fiori. Dopo il fallimento di una relazione durata tre anni, Saar entra in crisi, conduce una vita disordinata, segnata da sesso promiscuo e droghe e quando un giorno un suo partner gli rivela di essere sieropositivo, scopre di avere contratto anche lui il virus. Poi sono arrivati i primi sintomi e le conseguenti cure. Ad un certo punto Saar sente che non gli basta più la rete di amicizie che si è creato a Londra, gli manca la sua famiglia di origine, la sua vecchia casa e le sue tradizioni. Prende così in considerazione la possibilità di fare ritorno in Israele, mettendo però in conto che dovrà lottare con la sua famiglia per conquistare il rispetto e per essere amato per quello che è. Questo scatena reazioni contrastanti tra i suoi familiari, sua madre, una donna molto devota, suo padre militare e i suoi sei fratelli minori. Per i genitori, la sessualità di Saar è stata difficile da accettare e ancora più difficile è accettare l’eventualità di una sua morte prematura. Per i suoi fratelli è la sua malattia il problema, perché temono che possa infettare uno dei nipotini. Solo un fratello, il più giovane, vuole aiutarlo e stargli vicino in ogni caso. Tra tutti colpisce la personalità del padre, che come ufficiale nell’esercito è omofobo, ma non impreparato, al contrario della madre, di fronte all’omosessualità del figlio. Quando Saar vive già da tempo a Londra, il padre gli scrive chiedendogli di tornare e mettere la testa a posto trovandosi una ragazza con questa argomentazione: ” le relazioni dove non c’è una donna a ingentilire le cose sono abominevoli relazioni di scambio dove tutto ha un prezzo, tutto è determinato dalla forza, e quelli che non ne hanno sono fottuti. Così vanno le cose tra uomini”. Per inciso, i genitori di Saar si sono separati.
Seguiamo Saar durante un viaggio di ritorno per le feste in Israele, il primo capodanno passato nel kibbuz con la famiglia dopo 17 anni. Quindi lo vediamo fare un colloquio di lavoro presso l’Israel AIDS Task Force, una associazione che ha lo scopo di promuovere i diritti delle persone con l’HIV e sappiamo che ne diventerà portavoce.
Il film, diretto da Tomer Heymann e Barak Heymann fa parte di una serie di documentari che affrontano il tema dei nuclei familiari. In due anni di riprese, cinque famiglie affrontano segreti, paure e conflitti e al termine del periodo il concetto di famiglia acquista un nuovo significato. Al centro di una delle cinque famiglie, c’è Saar Maoz.
Anche i due registi, Tomer e Barak Heymann sono cresciuti in una comunità agricola israeliana. Insieme hanno fondato la compagnia di produzione “Heymann Brothers Films” dedicata alla produzione di documentari sugli aspetti sociali della cultura israeliana / ebraica. Diversi loro film a tematica LGBT hanno vinto premi internazionali (Paper Dolls , I Shot My Love).
Antonio Schiavone e Roberto Mariella
(nostri inviati al Festival)