Dalla Mostra di Venezia la recensione del critico Sandro Avanzo.
Emma Stone, la protagonista del film, lo ha definito “Un Eva contro Eva con più sesso” (il modello primario di riferimento resta oggettivamente quel titolo classico di Mankiewicz). Per noi è già il film iconico del decennio, da consacrare fin dalla prima proiezione nel parnaso del cinema queer. Ampolloso e barocco nelle immagini e nella forma, eccessivo nei temi e nelle azioni, viene amato dalle donne per il soggetto femminile e idolatrato dai gay per i caratteri e le vicende fuori d’ogni misura. Ironico e arguto, “camp” allo stato più puro. Di certo il miglior lavoro di sempre di Yorgos Lanthimos, qui finalmente bilanciato e padrone consapevole di ogni ingrediente, destinato in egual misura a un pubblico popolare e a quello cinematograficamente più aristocratico.
Abbandonati temi classici di “The Lobster” e di “Il sacrificio del cervo sacro”, il regista greco costruisce un Settecento barocco di totale invenzione, ma mai così autentico e così vicino al nostro vivere contemporaneo. Alla maniera del cinema di Fellini. Ma anche vicino di pianerottolo di Haneke per lo sguardo analitico, di Von Trier per la fustigazione dello spirito umano o di Kubrik per il piacere della messa in scena o di Greeneway per la precisione dei dettagli e delle luci. Per stare sugli stessi riferimenti vediamo un Settecento reso tanto farsa quanto metafora, emblematico sovvertimento dei valori sociali alla Kubrik e apoteosi della crudeltà dei linguaggi del potere alla Greeneway, riletto totalmente attraverso lo spirito ghignante di un Buñuel e l’ironia nera di un Kafka.
I nuovi bersagli di Lanthimos sono personaggi storici realmente esistiti, di cui si hanno notizie certe, ma di cui poco si sa dei reali rapporti reciproci. Su tutti la regina Anna, il cui lesbismo è documentato e accertato, così come sono documentati i suoi 17 figli morti tra aborti e malattie in tenerissima età, e accanto a lei la favorita Sarah Churchill duchessa di Marlborough e la di lei cugina Abigail Masham. Di certo è noto che all’improvviso nei favori reali di Anna (e si presume tra le lenzuola) ci fu uno scambio tra Abigail che subentrò a Sarah, mentre quest’ultima venne allontanata da corte insieme col marito. E’ giunta fino a noi anche una manciata delle lettere che la sovrana scrisse numerosissime a Sarah, ma leggendole è oggettivamente difficile riscontrarvi le tracce di una travolgente passione amorosa. Per quali motivi sia avvenuto il “cambio della guardia” nel cuore e nelle confidenze della sovrana e in quali termini si sia svolto non ci sono attestazioni documentate ma per noi è divertente pensare che tutto sia accaduto come illustrato dall’intelligentissimo copione scritto dal drammaturgo australiano Tony McNamara a partire dallo script originale di Deborah Davis. Una serie di dialoghi sintesi di battute camp e di meravigliosi doppi sensi. Il risultato è stato un film davvero originale, allegro e leggero, di pieno godimenti a più livelli.
Tutto il dramma – sia storico che privato – è contenuto all’interno delle mura del castello reale o al più entro il recinto del parco, mentre il quadro storico è limitato entro i confini del conflitto contro i Francesi di inizio secolo XVIII. La narrazione come in romanzo si articola per capitoli, 8 in totale, dai titoli bizzarri e talvolta svianti come “Quello che un vestito”, “Ho sognato che ti ho pugnalato nell’occhio”.
La Regina Anna (una stupefacente Olivia Colman) è ritratta come debole, isterica, incerta, inattendibile e intrattabile, facile ai cambiamenti di umore, costantemente afflitta dalla gotta e vogliosa di carezze, avida di cunnilingus e altri piaceri più o meno perversi, assetata di pettegolezzi di corte e di confessioni intime, in costante oscillazione tra l’euforia fanciullesca e l’ira titanica.
La Sarah Churchill di Rachel Weisz è invece la cortigiana ambiziosa che aspira ad aumentare sempre più il potere che già detiene sulla regina e che grazie alle pratiche sessuali che le dispensa pensa di potersi sostituire a lei negli affari di stato.
A Emma Stone (unica interprete americana in un cast tutto britannico) è affidato il ruolo della cugina Abigail, la piccola e intrigante nobile di campagna venduta dal padre a saldo dei debiti di gioco, brutto anatroccolo deciso a diventare cigno a tutti costi, capace di giocare le proprie carte lecite e illecite. Come in “Eva contro Eva” il traguardo era il ruolo di primadonna del palcoscenico, qui l’obiettivo diventa il rango di “Favorita” per i privilegi ad esso connessi, stavolta con la presenza in più di un terzo elemento della contesa, un elemento per nulla neutrale. Si assiste dunque a un’ininterrotta lotta a tre, sul piano della seduzione fisica, dell’arguzia verbale e della crudeltà psichica, in un intreccio di alleanze e scontri ciascuna da sola e contro l’altra.
Le tre attrici si scatenano in una gara di bravura a dar vita ad ambizioni, a paure dell’abbandono, a timori di non esser amate, a più o meno legittimi desideri di potere, una gara che le mette già in corsa per gli oscar, ma sarebbe un piacevole inedito se la Coppa Volpi di questa Venezia 2018 venisse assegnata parimenti per la prima volta a un unico trio di attrici. Come si accennava si vede il passato, ma Lanthimos lo legge in parallelo con l’oggi, con una contemporaneità in cui anche le donne sono coinvolte in primo piano in una guerra dei sessi dove non si trovano più solo avversarie del sesso maschile, ma in antagonismo tra loro. La conquista del potere un tempo arrivava a mettere nelle loro mani decisioni fondamentali di politica estera (dichiarazione di guerra) o di gestione degli affari interni (l’aumento delle tasse fondiarie), oggi non sono solamente le regine a decidere dei destini di popoli e continenti.
Lettura al femminile di un regista che nelle sue opere mette sempre la donna al centro delle proprie narrazioni. Il film vive più degli iperbolici e memorabili scontri tra Sarah e Abigail, delle allusioni sessuali nei momenti più inaspettati (come nella scena del ballo di corte in cui la Weisz si scatena in assurde posizioni da kamasutra), delle perversioni ironicamente accennate (vedi il bondage dei raffinati costumi o il tiro al bersaglio con le arance contro il cortigiano nudo) che non del pur centrale aspetto lesbico della vicenda, anche se non mancano le riprese di intimità saffica con momenti di nudo integrale; vive delle frustate e degli schiaffi tra le due rivali, dei forti contrasti sottintesi nei loro dialoghi formalmente educatissimi (ma ascoltiamo anche espressioni da birocciai).
Se Lanthimos si dimostra qui uno dei registi più dotati della sua generazione va detto che non sarebbe riuscito vincitore in quest’impresa senza l’apporto di un fantastico team di collaboratori, a partire dal direttore della fotografia Robbie Ryan che l’ha assecondato nell’uso insistito delle luci naturali per arrivare alla scenografa Fiona Crombie che ha saputo ricorrere quasi esclusivamente a set reali e non ricostruiti regalando alle immagini una magnifica aura da libro delle fiabe. Un elogio a parte merita la costumista premio oscar Sandy Powell, finalmente libera da vincoli realistici e scatenata in abiti ammalianti per quanto paradossali. Anche la magica colonna sonora composta da brani coevi (Purcell, Vivaldi, Bach) non si pone coerenza temporale e all’occorrenza ricorre senza scrupoli a Schubert o a ritmi tribali contemporanei. Torna anche il parallelismo tipico di Lanthimos tra gli esseri umani e gli animali e l’ironica sequenza finale, fatta di un infinito magma di conigli sovrapposti, non solo è lì a indicare che il potere resta in mani immutabilmente identiche, ma che nell’accavallarsi di tante lotte e drammi c’è sempre una scappatoia anarchica nell’assurdo e nello sberleffo.
TENDENZA: 5/5 (LLL)
VOTO:
Sandro Avanzo