A questa pagina tutti i film vincitori del 33mo Lovers Film Festival
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“Thelma” di Joachim Trier
VOTO:
Finale thriller al Togay. Non per la serata finale, presentata da Pino Strabioli, zeppa di ospiti – Concita De gregorio, Valeria Golino, PIF, Lucia Mascino, Nina Zilli e altri ancora – ma all’insegna del garbato dejavù. Parlavo del film: Thelma, del norvegese Joachim Trier, diventato dopo Segreti di famiglia uno dei registi europei più di spicco. Thelma (Elly Arborea) è una timida, devota e introversa ventenne, cresciuta in una famiglia fortemente religiosa, che vive sulla costa norvegese. Il padre è medico, la madre, da quando ha perso un bambino piccolo, è sulla sedia a rotelle. Quando va a studiare biologia a Oslo, un giorno in biblioteca ha un tremendo attacco psicogeno, vicino all’epilessia. Nello stesso tempo, inizia a conoscere nuove persone, tra cui la bella Anja (Kaya Willins), e a comportarsi in maniera per lei nuova, bevendo e fumando. Thelma e Anja si innamorano e il loro rapporto fisico diventa sempre più coinvolgente. La cosa però la fa stare male, perché trasgredisce le sue rigide regole religiose; quindi più sta con Anja più gli attacchi psicogeni diventano frequenti. Ricoverata per capire quale sia il suo male, Thelma inizia a venire a conoscenza di molte cose sul suo passato, anche bruttissime, che aveva rimosso e si rende conto di avere dei poteri soprannaturali, inquietanti, su ciò che la circonda, tanto da far scomparire, o anche solo dislocare le persone. Anja, infatti, scompare nel nulla. Tornata a casa, Thelma riesce comunque ad affrontare i genitori, venendo a capo della faccenda. A Oslo ci sarà Anja ad attenderla. Thriller vicino a Hitchcock, Cronenberg (La zona morta) e soprattutto Brian De Palma (Carrie lo sguardo di Satana), il film possiede un ritmo narrativo in crescendo dalla forte tensione, grazie anche alla carica erotica. Elegante sul piano visivo con momenti che ricordano il grande cinema scandinavo, nonché le più belle serie televisive danesi, offre molte sequenze visionarie di grande impatto (come la scena del teatro, gli uccelli che impazziscono quando Thelma ha le crisi o quella del padre in barca), esaltate da un montaggio mozzafiato.
“The Cakemaker” di Ofir Raul Graizer
VOTO:
Una fugace apparizione in un piccolo festival ha proibito, come da regolamento, che The Cakemaker fosse in concorso. Un vero peccato perché avrebbe meritato di vincere. L’opera prima dell’israeliano Ofir Raul Graizer, autore già di alcuni ottimi corti, ė riuscitissima, affascinante e densa di significati.
Oren (Roy Miller) è un israeliano – sposato con Anat e padre di un ragazzino, Itai – che va spesso a Berlino per lavoro. Da più di un anno ha una relazione, sentimentale ed erotica, con Thomas (Tim Kalkhof), un giovane, aitante pasticciere. Un giorno Oren scompare all’improvviso, non rispondendo neanche più al telefono. Thomas viene a sapere che è morto in Israele in un incidente stradale. Straziato dalla notizia, decide di andare a Gerusalemme, con un biglietto di sola andata. Là inizia a frequentare il piccolo bar che Anat (Sarah Adler) ha aperto. In breve, riesce a farsi assumere prima come lavapiatti, poi come pasticciere, conquistando con la sua taciturna gentilezza tutti, a cominciare dalla mamma di Oren.
Anat inizia a sospettare qualcosa, ma è fortemente attratta da Thomas; così, lo seduce e fa sesso con lui (e Thomas fa a lei esattamente ciò che Oren le faceva e che poi raccontava a lui). Ma la verità viene a galla: Anat capisce dai messaggi sul cellulare del marito che è Thomas la persona per la quale Oren voleva abbandonarla per trasferirsi a vivere a Berlino. Non c’è più tempo per le bugie. Anche se alla fine…
Finissimo, girato in maniera elegante e recitato ottimamente da tutti, il film è una storia d’amore straordinaria (con un finale intrigante e aperto) in cui si continua ad amare chi non c’è più attraverso un’altra persona, conquistando e facendo proprio, pezzo per pezzo, il suo universo, in una sublimazione commovente e sofferta. L’intensità del rapporto fra Thomas e Oren, molto viva anche sul piano fisico, la si comprende man mano che il film va avanti, grazie a flashback. Ma lo sguardo lucido di Graizer va anche oltre: sulla politica e soprattutto sulla religione, su come questa condizioni le persone e le situazioni. Belle la musica e la fotografia.
“Permanent Green Light” di Dennis Cooper
VOTO:
Dennis Cooper per molti è un mito, uno scrittore maledetto alla Bukowski, che negli anni Novanta in particolare ha incantato tanti lettori con romanzi come Ziggy o Frisk (portato sullo schermo da Todd Verow).
Cooper si è presentato al Togay con un film diretto assieme al giovane video artista Zac Farley: Permanent Green Light. Come è giusto aspettarsi da lui, il film è stranissimo.
Siamo in Francia, a Chebourg, in una periferia astratta. Protagonisti sono dei teenager che parlano con nonchalance di morte e di finalità della vita. Roman (Benjamin Sulpice) è rimasto con una gamba offesa dopo un incidente con la bici e ogni tanto ‘dà di matto’. Da allora, sogna di farsi esplodere con una cintura, desiderando che niente rimanga di lui, neanche un brandello, senza però che l’esplosione coinvolga altre persone. Parla del suo progetto ai suoi amici, volendo che assistano alla funzione, convincendoli della bellezza dell’atto, anche perché sente di avere il bisogno della loro approvazione per compiere quel gesto. Tanto fa che conosce una ragazza che possiede delle cinture esplosive (ma lei poi si suicida in altra maniera). Alla fine, Roman si fa esplodere davanti ai suoi amici.
Il film si ispira alla storia del giovane australiano Jale Bilardi che, nel 2014, si unì all’Isis e si fece esplodere ma solo per suicidarsi, non per fini politici. Scomodo e urticante (nonché un po’ macabro), è in linea con i romanzi di Cooper, impregnati di nichilismo, in cui Sade si mischia a Rimbaud. Siamo lontanissimi dai ragazzi di Larry Clark, impasticcati, con dietro delle famiglie problematiche e amanti del sesso, qui poco presente (c’è solo uno degli amici di Roman che vorrebbe far sesso con lui, magari anche a pagamento). Al contrario, qui c’è la morte, che non fa spavento, che sembra addirittura bella, offrendo ciò che la vita non riesce a dare.
Chi pensa di essere interessato, non se lo perda (se riesce a trovarlo da qualche parte…). Gli altri ne stiano lontani. Prendere o lasciare, è così.
“Tinta bruta (Hard Paint)” di Filipe Matzembacher e Marcio Reolon
VOTO:
Tinta bruta (Hard Paint), dei brasiliani Filipe Matzembacher e Marcio Reolon, ha vinto meritatamente l’edizione 2018 dei Teddy Awards a Berlino.
Siamo a Porto Alegre. Pedro (Shico Menegat) vive da solo, dopo che la sorella Luiza, giornalista, si trasferisce a Salvador. Non ha altri se non la nonna. Inoltre, ha l’incubo di un processo, perché ha accecato a un occhio uno che lo bullizzava.
Per vivere, si è inventato uno show a pagamento con la webcam: si denuda, mima situazioni erotiche, tingendosi con colori fluorescenti, di grande effetto (per questo viene chiamato ‘ragazzo neon’), senza però voler incontrare nessuno dei clienti (compreso uno, Osservatore Sposato, che sembra benevolmente interessato a lui). Un giorno scopre che un altro ragazzo, Leo (Bruno Fernandes), lavora anche lui in webcam col suo stesso metodo. Perciò decide di incontrarlo e affrontarlo. Tra i due – che si mettono a lavorare in coppia, per la goduria degli spettatori – nasce un bel rapporto, anche di sesso. Leo deve però andare a Berlino per uno stage di danza. Per Pedro ricomincia la solitudine, aggravata dalla rottura del computer per un acquazzone.
Il personaggio di Pedro è indimenticabile: solo, introverso, misantropo, odia uscire (lo fa col cronometro. giusto perché lo ha promesso alla sorella) e, quando lo fa, gli capitano brutte esperienze (come uno col quale fa sesso che poi gli chiede, senza però averglielo detto prima, del denaro). Il film coglie l’umanità del ragazzo, con sullo sfondo una città rapace e spesso disumana (che, si dice nel film, sta sprofondando a causa di falde acquifere, trascinando con sé i suoi abitanti), che rimarca la solitudine di Pedro, i cui colori fluorescenti riescono a evidenziare ancor più il grigio che colora la sua quotidianità.
“A Moment in the Reeds” di Mikko Makela
VOTO:
È l’anno della Finlandia! A Moment in the Reeds, opera prima di Mikko Makela, è nella sezione ‘Cinque pezzi facili’. Leevi (Janne Puustinen) studia letteratura a Parigi e saltuariamente viene a trovare il padre in Finlandia, col quale non ha un buon rapporto, anche perché lo ritiene colpevole, forse a ragione, della morte della madre. Inoltre, il padre è per lui troppo conservatore, mentre lui in Francia si diverte, fra relazioni amorose e facili incontri erotici, trovati con le app. Per questo immagina un futuro in Francia, lontano da lui.
Stavolta il padre gli chiede aiuto nella ristrutturazione del cottage di campagna, in riva al lago, che poi andrà in vendita. I lavori fisici non sono nelle corde di Leevi, ma per fortuna arriva Tareq (Boodi Kabbani), un prestante siriano immigrato, architetto che non trova altro che lavori saltuari per guadagnare qualcosa. Anche Tareq è gay e vive col timore che la famiglia tradizionalista lo raggiunga in Finlandia. I due appartengono a mondi lontani, sulla carta inconciliabili, ma poi – complice l’assenza del padre, la sauna, qualche birra di troppo e delle occhiate insistite – nasce il sesso e poi una relazione intima, in cui poco a poco vengono a galla delle affinità. Purtroppo però il padre rovina il loro rapporto e Tareq va via. Leevi lo raggiungerà?
Se la storia non è certo nuova – l’incontro/scontro col diverso, che poi si dimostra altra cosa da come lo si immagina, capace anzi di dare un senso nuovo alla propria vita – il film mette tanta carne a cuocere: l’immigrazione, il rapporto padre/figlio e la nuova gioventù, alle prese spesso con gli stessi problemi qualunque sia la propria famiglia di origine, ma facilitato da nuove maniere di comunicare, dall’inglese che funge da collante sociale fino ai cellulari, che facilitano il sesso. Un po’ teatrale – con tre soli personaggi e un solo contesto – il film sa trovare il giusto equilibrio fra i silenzi, tipici di quella realtà scandinava, la natura bellissima e il sesso come linguaggio universale.
“God’s OwnCountry” di Francis Lee
VOTO:
Il mondo contadino è duro, si lavora senza pietà e le giornate sono tutte uguali. Ce lo ricorda il bellissimo film inglese God’ s OwnCountry, diretto da Francis Lee. Il venticinquenne Johnny (Josh O’Connor) deve badare da solo alla fattoria di famiglia nello Yorkshire, dopo che il padre Martin, col quale vive assieme alla nonna Deirdre, ha avuto un ictus. Il lavoro è pesantissimo, fra mucche e pecore, transumanze e muretti da riparare. Alla fine della giornata, non c’è altro se non andarsi a sbronzare al pub, magari dopo essersi scopato qualche ragazzotto compiacente. Le cose cambiano però quando viene assoldato per una settimana, nel periodo in cui nascono gli agnelli, un immigrato rumeno: Gheorghe (Alec Secareanu), che si dimostra subito a suo agio in quel mondo. Nonostante Johnny lo tratti con sufficienza e anche un po’ di disprezzo, tra i due – quando vanno per qualche giorno in un casale isolato – scatta implacabile il sesso. Così ciascuno trova nell’altro un appoggio forte alla propria solitudine. Le cose si complicano però quando un episodio allontana Gheorghe. Ma il futuro è loro, con la compiacenza del padre e della nonna.
La storia, per certi versi autobiografica del regista, ricorda un po’ Ander (Roberto Castón, 2009, dove l’immigrato è peruviano), ma poco importa. Il rapporto fra Johnny e Gheorghe è ispido e ferino, fatto di silenzi e taciti assensi, mentre il sesso, che odora di stalla e di letame, è naturale e coinvolgente. Il paesaggio, aspro ed essenziale, è in sintonia col loro rapporto fatto di poche cose eppure ricco di umanità, come la fotografia, volutamente ruvida e poco attraente.
“Postcards from London” di Steve McLean
VOTO:
Primo film al ToGay, subito dopo la briosa inaugurazione, con Francesco Gabbani e PIF (simpatico e comunicativo ma apparso come un pesce fuor d’acqua): Postcards from London, presentato all’ultimo BFI, di Steve McLean (regista di Postcards from America, 1994, di cui questo vorrebbe essere a suo modo un sequel).
Jim (Harris Dickinson, il protagonista di Beach Rats e della serie televisiva Trust, qui al meglio della forma), splendido ragazzo dell’Essex va a Londra, nel quartiere di Soho, nella speranza di dare una scossa alla sua vita provinciale e di realizzare i suoi sogni. Dopo un inizio sventurato, con uno che gli ruba i soldi, si imbatte in un locale in un gruppo quanto mai bizzarro di marchette (David, Marcello, Jesús e Victor), che si autodefiniscono ‘raconteur’ perché danno ai clienti, tutte persone intellettuali e di ottima levatura, la possibilità di parlare di arte e di cultura dopo aver fatto sesso. Jim, dal fisico statuario, è la persona perfetta e quindi in breve diventa la star, anzi la musa, di Soho: tanti artisti lo cercano come modello oppure per mettere in atto delle scene erotiche/artistiche, in cui lui è il San Sebastiano di Guido Reni o altro. Le cose però si complicano quando Jim si rende conto di essere affetto dalla sindrome di Stendhal (qui in versione un po’ modificata rispetto alla realtà): quando vede un dipinto che lo cattura per la sua bellezza, sviene, sognando di immedesimarsi in esso, trovandosi magari al cospetto di Caravaggio nella Napoli inizio Seicento e ingaggiando un duello con lui (e quel che è bello è che, al risveglio, la ferita ricevuta c’è sul serio…). Per queste sue qualità, viene anche assoldato da un mercante d’arte che lo sfrutta per capire se alcune opere sono vere o sono dei falsi (di fronte ai quali il ragazzo non sviene). Ricco di tante esperienze, alla fine Jim è pronto per tuffarsi con animo diverso nella rapace Londra.
Ambientato in una Soho vibrante di neon, immaginaria e voluttuosa, è un film originalissimo, zeppo di spunti cinefili (da Jarman a Fassbinder, dal Coppola di Un sogno lungo un giorno a Sei gradi di separazione) e artistici, tra citazioni pittoriche e tableaux vivants. Il baricentro di ogni cosa è il corpo nudo di Dickinson, che ruba la scena, non facendo rimpiangere la mancanza di sesso tout court.
Rivisitando l’altissima potenzialità omoerotica dell’arte barocca da Caravaggio in poi – nonché tanti capisaldi della cultura omosessuale, come Kavafis o Wilde – il film gioca su più livelli narrativi, che si intrecciano in maniera volutamente non razionale, dando luogo a sensazioni forti e intriganti. Il risultato è un prodotto sofisticato e denso, che manda in sollucchero il pubblico raffinato, mentre può lasciare perplessi altri. Di certo, ha tutte le carte per diventare un gay cult movie.
“Pihalla” di Nils-Erik Ekblom
VOTO:
Dalla terra di Aki Kaurismäki, la Finlandia, arriva Pihalla (Fottuto), diretto da Nils-Erik Ekblom. Miku (Mikko Kauppila) è un diciassettenne un po’ imbranato. Per conoscere di persona una ragazza con cui chatta, approfitta dell’assenza dei genitori – la madre, dalla forte personalità ma con problemi al lavoro, e il padre narcolessico, che si addormenta sempre – per organizzare un party a casa. Va malissimo: mentre lui capisce di non essere interessato alla ragazza, gli ospiti ubriachi vandalizzano la casa. Così, quando tornano i genitori, è costretto ad andare con loro in un cottage in campagna. Là, senza il cellulare distruttogli dalla madre, Miku si annoia fortemente finché non conosce un vicino di cottage, il diciannovenne gay Elias (Valtteri Lehtinen). In breve, i due fanno amicizia e poi, su iniziativa di Elias, sesso, ma vivono la cosa in maniera differente: mentre Miku è infervorato dalla situazione, l’altro, uscito a pezzi da un’altra storia, non vuole storie impegnative. Quando Elias parte, Miku ha però finalmente capito qual è la sua strada.
Il film è gradevole e rende bene le situazioni problematiche delle due famiglie ma, purtroppo, la storia si dipana con lentezza, con ruoli e psicologie non ben definite e senza momenti veramente coinvolgenti. Certo, le scene con i due ragazzi, molto carini, che stanno assieme sono sfiziose e ben fatte ma non basta, perché il resto è un po’ piatto. Forse la cosa più simpatica è quando la madre di Miku piange di felicità nel sapere che il figlio è gay, perché così capisce che non sono del marito i link porno gay trovati sul computer…
“A Glória e a Graça” di Flávio R. Tambellini
VOTO:
Giovanni Minerba, presidente nonché fondatore del festival, ha scelto personalmente i film della sezione ‘Cinque pezzi facili’. A Glória e a Graça, del brasiliano Flávio R. Tambellini, è uno di questi. Ottima scelta.
Graça (Sandra Corveloni), che ha due figli – la quindicenne Papoula e Moreno, di 8 anni – viene a sapere di avere un aneurisma al cervello che non le lascia molto tempo da vivere e la può colpire da un momento all’altro. Non sapendo chi potrà badare ai suoi figli quando non ci sarà più, contatta il fratello Luiz Carlos che non vede da 15 anni, da quando lui se n’è andato da casa. Luiz Carlos è però diventato Glória (Carolina Ferraz), dopo un percorso fortemente voluto (anche se non vuole operarsi). L’incontro iniziale fra le due è tremendo, anche perché Glória, che vive serenamente e agiatamente (ha un lussuoso ristorante) la sua nuova vita, non se la sente di accollarsi i nipoti. Ma poi decide di avvicinarsi alla sorella e ai nipoti, affezionandosi a loro. Tra incomprensioni, rancori che vengono a galla, ricordi belli e ricordi nefasti della loro comune giovinezza, le due sorelle si ritrovano legate da un sentimento fortissimo. Ora Graça è tranquilla, sapendo di lasciare i figli nelle mani giuste.
Il film è intenso, ma anche delicato al punto giusto, nel trattare il dramma dei 4 protagonisti: le due donne (Graça che vive sapendo di avere le ore contate e Glória che scopre un istinto materno che non pensava di avere), il ragazzo che vive ancora nel suo mondo di favole, la ragazza arrabbiata col mondo intero e prevenuta nei confronti della zia. Coinvolgendo lo spettatore senza scivolare mai nel mélo, mostra, un po’ alla Almodóvar, come l’amore possa essere la mossa vincente per vincere ogni riserva. Uno dei miglior film mai visti su una trans (interpretata, in questo caso, da un’ottima attrice, una donna e non una trans, ma dov’è il problema?).
“Xavier” di Jo Coda
VOTO:
Giovedì 20 aprile 2017, Parigi, Champs-Élysées. Xavier Jugelé – poliziotto trentasettenne, membro della Flag, l’associazione LGBT della gendarmeria francese – viene ucciso, unica vittima, da colpi di kalashnikov davanti a un istituto culturale turco, in un attacco rivendicato poi dall’ISIS. Pochi giorni dopo, il suo compagno, Etienne Cardiles, in un omaggio ufficiale che la nazione rende al caduto, pronuncia un discorso commovente quanto dignitoso, che fa il giro del mondo. È partito da quest’antefatto Giovanni Coda per Xavier, un cortometraggio umano e profondo, che sta conquistando consensi su consensi in numerosi festival esteri (cosa, peraltro, ormai usuale per i film del regista cagliaritano).
In 8 intensi minuti, Coda ricorda le ultime ore passate assieme da Xavier (Marco Casoli) ed Etienne (Thomas Grascoeur): l’emozione per un viaggio per cui sarebbero dovuti partire di lì a 48 ore, con i biglietti appena acquistati, e poi alcuni ricordi dei quattro anni passati assieme, di emozioni condivise, di progetti, di speranze, di sogni, di attese. Tutte cose ormai definitivamente infrante.
Ancora una volta, il regista cagliaritano propone il suo modo di filmare originale e pregnante, già apprezzato ne Il rosa nudo e Bullied to Death: un linguaggio cinematografico che chiama in causa la videoarte e che gioca in particolare sull’elegante, densa fotografia e sulla suggestione delle parole, calibrate e commoventi, dal sapore quasi ipnotico.
Una voce fuori campo, quella di Etienne, ricorda, in una sorta di lettera aperta, la personalità di Xavier, la forza del loro rapporto, lo strazio dopo la notizia della morte nonché il ricordo delle parole toccanti proferite nel 2015 dal francese Antoine Leiris, dopo aver perso la moglie nell’attentato del Bataclan. Proprio da quelle parole nasce il messaggio di Etienne che invita alla tolleranza, al dialogo, ad esaltare positivamente i valori della vita, scavalcando ogni pregiudizio (Coda ha parlato giustamente di “dolore resiliente”): “Non avrete il mio odio. L’odio, Xavier, non ti rappresenta e non corrisponde per nulla al sentimento che faceva battere il tuo cuore”.
Le immagini, benché scoordinate dal testo, sono capaci di metterne in luce l’intensità, si potrebbe dire il midollo, sia quando Xavier e Etienne vengono mostrati felici nella loro quotidianità sia quando Xavier è morto (in una postura che ricorda la “pietà”), mentre una pianta, le cui foglie si bruciano, ci ricorda quanto sia effimera la vita umana.
Una visione estremamente poetica, in cui il privato viene indissolubilmente fuso al pubblico, il microcosmo al macrocosmo, grazie al tema universale e assoluto dell’amore che è, a ben vedere, la base di ogni cosa.