TOM OF FINLAND
di Dome Karukoski
Voto:
Il biopic è un genere particolarmente difficile da gestire. Non per il senso celebrativo su cui inevitabilmente si fonda, né per la finalità con cui si devono scegliere le vicende realmente vissute dal protagonista e tantomeno per il ritratto finale che si ha in mente di darne. Non a caso sono davvero pochi i film biografici che entrano nel novero dei capolavori cinematografici e rarissimi anche i registi (Ken Russell e pochi altri) che hanno saputo trasformare le vite vissute in opere interessanti di per sé, a prescindere dalle vicende ricostruite per lo schermo. Il Tom of Finland di Dome Karukoski non fa eccezione e, pur con momenti di ottimo cinema e le frequenti buone intuizioni, non riesce a volare ad altitudini vertiginose. Troppi i temi e le situazioni di cui rendere conto in un arco storico di mezzo secolo, dall’atmosfera formale postbellica ai frutti della rivoluzione sessuale, un’intera epoca in cui al di qua e al di là dell’Atlantico si sono accavallati avvenimenti epocali, sconvolgimenti di regimi politici e cambi di costume, rivoluzioni tecniche e antropologiche di cui nessun film potrebbe dare conto in modo adeguato nell’arco delle canoniche due ore. La scelta di sceneggiatura e regia si è dunque focalizzata principalmente sull’aspetto privato della biografia di Touko Laaksonen, sul suo introverso carattere umano, piuttosto che sul valore sociale che hanno avuto i suoi disegni erotici nel mondo gay e nel mondo artistico: meno l’autore (Tom of Finland) e più l’uomo (Touko Laaksonen). Colori alla Ed Hopper con forti chiaroscuri fin dalle prime sequenze belliche quando il protagonista ci viene presentato come giovane tenente dell’esercito diviso tra il crusing nei parchi e il terrore scatenato dalle esplosioni delle bombe russe. E subito in evidenza il binomio Eros-Thanatos su cui il regista continua a insistere per tutto il film, senza però decidere se indicare tale binomio quale sede primaria della scintilla artistica di Tom o vedervi la prigione statica di un immaginario erotico che da circostanza personale è diventato fenomeno planetario. Resta il fatto che nei momenti più critici della narrazione (anche nei finali trionfi americani) tornano le immagini dei raid degli aerei sovietici incrociati dai fasci di luce, come pure torna in modo ossessivo l’episodio in cui Tom uccide un giovane paracadutista russo, vittima amata e temuta che darà i tratti somatici a Kake, il futuro personaggio-icona dai caratteristici baffi alla Gable. Questa indeterminatezza caratterizza però il film anche in modo positivo, permettendo di leggere il carattere di Tom nei suoi aspetti non contradditori e assai vari di traumatizzato dalla guerra, desideroso di successo e timido (ma con abbastanza forza per spingersi fino a Berlino nel tentativo di vendere i propri disegni), ingenuo seduttore in cessi pubblici dove cerca di adescare altri uomini con schizzi di pratiche erotiche, inventivo grafico nelle agenzie pubblicitarie. I primi riconoscimenti con relativi primi veri guadagni arriveranno alla fine degli anni ’50, quando in modo quasi clandestino spedirà le sue tavole negli USA e i beefcake magazines ne faranno un ampio uso spesso anche al di fuori dei diritti legali, creando un vero e proprio mito Tom of Finland. Belle opere in cui motociclisti vestiti in pelle si accoppiano con militari, bovari o poliziotti… tutti impegnati a sollazzarsi reciprocamente con falli e con testicoli di misura XXXL, lontani anni luce dagli stereotipi effemminati con cui fino ad allora erano stati ritratti i gay (“è il mio cazzo che mi dice se ho fatto un buon disegno, se guardandolo mi tira allora vuol dire è un buon disegno”). Prima dei trionfi californiani degli anni ’70 c’era stato il complice ma difficile rapporto con la sorella, anch’essa disegnatrice, la frustrazione di vivere relegato nella campagna finlandese bellissima ma immobile nel tempo, la partecipazione ai festini illegali, e soprattutto c’era stato l’incontro con Veli, il ballerino arrivato come coinquilino e sottratto alle idee amorose della sorella (bellissima la citazione visiva da Domenica maledetta domenica dell’amante condiviso)… Veli che sarebbe stato l’amore di tutta una vita, colui che per primo lo ha spronato all’avventura artistica americana e che voleva vivere apertamente il loro rapporto dietro finestre aperte con le tende gialle anche se “le tende gialle le mettono solo le checche”. C’è una certa sproporzione tra la prima parte del film e le sequenze conclusive, quelle americane smaccatamente più umoristiche (l’incursione della polizia durante un party alla Bob Guggione in versione omo) o celebrative (la comunità dei bikers che in piena era Aids si mobilita per stampare in poche ore il volume antologico di uccelloni e mega-chiappe nella tipografia di un ebreo ortodosso), ma la sensazione è che questa parte sia pensata per un mercato di spettatori gay d’oltre Atlantico, che così accetta il film con maggior favore. Più difficile per questo tipo di pubblico cogliere le finezze della metafora delle due lastre di ghiaccio che il mare allontana l’una dall’altra al momento della morte di Veli o la saltuaria presenza di Kake che compare ad osservare ironico e critico i comportamenti del suo autore. Forse il regista Dome Karukoski e lo sceneggiatore Aleski Bardy avrebbero potuto osare verso un’opera più personale e spingersi nella direzione già indicata dalla scelta di non caratterizzare con dati storici il trascorrere dei decenni, concentrando il loro racconto sul carattere del personaggio più che sulla sua specifica biografia, ma la lunga lista dei produttori internazionali (dalla Finlandia, alla Svezia, alla Danimarca, più vari altri) sta ad indicare quanto difficile sia stato poter realizzare questo film, per cui anche noi ci spingiamo (quasi) a perdonare o quanto meno a tollerare la dose di immancabile retorica che chiude la storia (didascalia finale: Touko Laaksonen, 1920-1991, è morto. Tom of Finland non muore).
JUST CHARLIE
di Rebekah Fortune
Voto:
Taluni film vanno intesi non tanto per il modo in cui sono realizzati, quanto per i valori e gli insegnamenti che trasmettono. “Just Charlie” della britannica Rebekah Fortune rientra in questa categoria. Per il tema che approccia e per la complessità con cui viene narrata la vicenda potrebbe diventare un opportuno manifesto delle Famiglie Arcobaleno (beninteso non solo del Regno Unito, dove si svolge la vicenda!). Al centro c’è la complicata situazione di Charlie, un pre-adolescente che vive con papà, mamma e una sorella che frequenta le superiori. Il protagonista è un piccolo campione di calcio, nessun avversario lo ferma. Proprio nella fase del suo massimo successo, quando riceve la proposta di un contratto per una squadra di alto livello, emergono pulsioni e desideri del tutto reconditi e improvvisi. E’ difficile dire di no a una proposta così allettante quando tutti ti spingono ad accettare: orgoglio per la famiglia tutta, migliaia di sterline utili in casa e anche una grande soddisfazione per il padre che vedrebbe nel successo del figlio il riscatto per la propria carriera calcistica mai decollata. Ma Charlie convive con un segreto, non un dramma, ma che dramma potrebbe diventare presto; se ne rende conto in modo ancora vago ma anche ineludibile: si è accorto che ama vestirsi con abiti femminili, ma non sa ancora capirne i motivi e per questo lo fa di nascosto nel bosco fino a quando non viene scoperto dal suo allenatore, che però mantiene il silenzio, e in seguito anche dal padre che lo trova in casa vestito con gli abiti della sorella. E’ il dramma che coinvolge tutti, la pietra nello stagno che alimenta cerchi sempre più ampi tutt’attorno. La famiglia gli è vicina, ma vuole capire cosa gli sta succedendo, lo vede soffrire e ne soffre a sua volta e non approva la richiesta del ragazzino che chiede la somministrazione di ormoni atti a impedire la sua crescita alla fase adulta. Il calcio non è più il centro della vita di Charlie, ma va diventando un problema perché la sua popolarità come calciatore lo mette sotto l’attenzione di tutto il paese. Il calcio può però diventare anche la sua salvezza, nel momento in cui viene ammesso a giocare in una squadra femminile… con tutte le conseguenze che una situazione del genere può generare. Se la sorella lo difende a scuola, si sente dare del freak dal suo miglior amico, se le nuove compagne di squadra si dividono tra chi lo accetta in quanto assicura i goal e quelle che lo respingono, gli ex-compagni di partita lo ostracizzano in modi anche violenti. E’ un percorso lungo, non solo per il ragazzino che prende lentamente consapevolezza e accettazione della propria autentica identità sessuale, ma anche per il resto della società in cui si trova inserito, con contrasti molto duri come quello del padre che, per nulla in sintonia con la nuova identità del figlio, si ritrova al pub a doverne prendere le difese in contrasto con (ex)amici. Il momento più toccante di questa fase? La scena il cui per la prima volta la madre parla del figlio passando nel discorso dal maschile “he” al femminile “she”. La fine della vicenda ha un po’ il sapore della favola, di una favola contemporanea che non racconta di principi, di principesse e di draghi, ma che nella sua forma di favola mette in mostra un’infinita serie di grandi e piccole verità, fuori dagli stereotipi e utili per riflettere in modo (anche) leggero su temi complessi e importanti senza ricorrere alle facili contrapposizioni ideologiche e ai pregiudizi precostituiti. I meriti spettano in particolare alla sceneggiatura firmata da Peter Machen che con estrema sensibilità ha saputo studiare e ricreare per il copione i diversi punti di vista di tutto il paese su un così complesso percorso di formazione (il protagonista, i diversi membri della famiglia, i compagni di scuola, i compagni e le compagne di squadra di calcio, gli amici più stretti, i vicini di casa, i concittadini…), ma per la riuscita del film è stato fondamentale anche il tocco delicato e opportunamente ironico della regista Rebekah Fortune che ha sempre anteposto gli aspetti di approfondimento rispetto alla più semplice drammatizzazione.
P.S. Si consiglia la visione di questo film a un certo sig. Giovanardi non solo perché possa apprezzare la performance di magnifici attori come il giovane Harry Gilby, ma perché finalmente possa anche lui capire quali devastanti moti d’animo vengano messi in atto nel singolo e nel sociale da temi tanto delicati e intimi come la ricerca della formazione della propria interezza fisica e psicologica.
WOMEN WHO KILL
di Ingrid Jungermann
Voto:
Qualcuno ha presentato la regista lesbica Ingrid Jungermann paragonandola a Woody Allen. E assistendo a “Women who kill” si può solo condividere tale affermazione e capirne le motivazioni. Non siamo di fronte a un Allen in gonnella per l’humour yiddish, ma i due sono accomunati dalla caratteristica di voler controllare e intervenire nell’intero processo produttivo, scrittura della sceneggiatura, direzione d’attori, o lei stessa in prima persona come protagonista. Per non dire del comune gusto di girare nella metropoli newyorkese. Qui c’è anche un analogo gusto nella scelta del titolo che oltre a essere quello del film è anche il medesimo di una trasmissione radiofonica al centro della narrazione cinematografica. A condurla è una coppia di ex, Morgan e Jean, due donne reduci da una relazione fallita… ma non fallita del tutto visto il legame che si protrae e le cui fiamme non si sono del tutto spente. La loro trasmissione si occupa di cronaca nera con analisi e interviste in carcere alle più celebri ed efferate serial killer. Morgan lavora anche in una cooperativa sociale e qui conosce la giovane e incantevole Simone da cui si lascia facilmente sedurre, programmando con lei un’inattesa vita futura. Tra i dubbi e i contrasti con la ex, la nuova situazione inizia a farsi allarmante quando si scopre che Simone è in realtà un’alias dal passato misterioso, anch’essa possibile omicida e che forse è la figlia di una serial killer intervistata nel passato per la trasmissione radio e addirittura che costei starebbe usando la figlia per scopi non certo ortodossi… forse è perfino in carcere al posto della figlia. Il mistero si infittisce allorquando un’amica comune viene uccisa e i vari tasselli dell’enigma devono a questo punto trovare un incastro. E’ ovvio che non si può svelare qui chi è e se c’è davvero un’assassina ma si può dire che non è questo l’aspetto più interessante del film; in realtà sarebbe più interessante rivelare se le due ex torneranno insieme, ma neanche questo si può rivelare. Il modo in cui viene costruito questo prisma degli specchi (non è forse già nel titolo?), con i doppi dei personaggi e delle situazioni che si moltiplicano e si negano l’uno nell’altro è frutto di sapiente mestiere e di grande amore per il cinema. I tratti comici e del noir si fondono qui in un caleidoscopio di citazioni (Il silenzio degli innocenti, in primis) che regalano brividi di piacere ai cinefili ma che sono perfettamente utili alla narrazione filmica soprattutto là dove servono a ironizzare su usi e costumi presenti nelle varie sottoculture lesbiche. Se non sono bastati i premi già conseguiti al Tribeca, il successo riscosso al Lovers Festival di Torino potrebbe spingere qualche distributore italiano a far circolare anche in Italia questo titolo che ha tutte le carte in regola per appassionare anche il pubblico non LGBT.
(Sandro Avanzo)