La giornata è iniziata con la proiezione di Lugares de Medo e Ódio, un documentario che denuncia la violenza omofobica soprattutto nei confronti delle persone trans in Brasile. Il pomeriggio è poi proseguito con una tripletta di ottimi documentari italiani su personaggi ormai storici del nostro recente passato. Lavori che fanno ben sperare per il futuro del nostro cinema LGBT. Dei tre il più divertente è certamente Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis, mentre il più interessante, frutto di un lavoro di ricerca davvero accurato, è probabilmente Lina Mangiacapre. Artista del femminismo, che ha il merito di salvare dall’oblio un personaggio davvero eccezionale, ma purtroppo completamente sconosciuto ai più. Interessante anche Sarà tutta una depravazione – Hommage à Dominot, che però dura solo 15 minuti, quasi un corto, quindi non confrontabile con gli altri due.
Sempre nel pomeriggio è stata poi ricordata Luki Massa, che ci ha lasciati il 6 settembre scorso. Attivista LGBT, regista e direttore artistico di importanti festival LGBT come “Immaginaria” e poi “Divergenti” e “Some prefers cake”. Amica e presenza praticamente fissa al Florence Queer Festival, era stata giurata nel 2014. Di lei è stato proiettato il cortometraggio Rapido finale con passione (1999), 5′.
Lugares de Medo e Ódio (Luoghi di paura e odio) di Alexandre Nakahara (Brasile, 2016), 28’, v.o. portoghese, sott. inglese e italiano
Voto:
Questo documentario brasiliano raccoglie le storie di cinque persone (Susi, Amara, Rafael, Vanessa, André) di San Paolo e dintorni, che hanno vissuto delle esperienze traumatiche a causa del pregiudizio e della discriminazione nei confronti del loro orientamento sessuale. Il Brasile ha un serio problema sociale riguardo alla violenza anti-LGBT e agli atteggiamenti omofobici e il regista Alexandre Nakahara a voluto rendere pubblico questo problema. Lugares de Medo e Ódio ci mostra che la discriminazione non conosce confini. Una lavoratrice del sesso trans finita in carcere, una studentessa trans discriminata e violentata, un uomo gay della classe media massacrato di botte per strada, un trans FtM arrestato per errore e picchiato dalla polizia, insieme ci dimostrano che nessuno, ricco o povero, insospettabile o no, può sperare di essere immune dalla violenza, dall’abuso e dalle minacce in un paese che ancora oggi non ha leggi contro la discriminazione .
Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis
di Antonio Palumbo e Mariangela Barbanente (Italia, 2015), 52’, v.o. italiano
Voto:
Alla presenza dei registi
Il docufilm «Varichina» è incentrato sulla storia di Lorenzo De Santis, detto Varichina (1938-2003), molto conosciuto nelle strade del vecchio quartiere Libertà di Bari negli anni Settanta e Ottanta. Unico gay visibile in una città e in anni in cui di omosessualità e di diversità non era ben educato parlare in pubblico.
«Varichina» era un uomo di umili origini, scaricato dalla famiglia per le sue inclinazioni, viveva di espedienti e piccoli lavori e abitava in povere stamberghe. Era stato posteggiatore abusivo, addetto ai bagni pubblici, assistente alle prostitute del posto… da ragazzo consegnava con la bicicletta la candeggina che sua madre vendeva e da lì gli è venuto il soprannome. Era conosciuto da tutti i baresi che vivevano o attraversavano il vecchio quartiere Libertà, era un personaggio pittoresco, un po’ matto, vestiva in modo stravagante, aveva i boccoli nei capelli, sempre con una camicia a fiori annodata sulla pancia, era molto profumato, sculettava, non nascondeva la sua omosessualità e per questo quando passava era oggetto di scherno (quando non era aggredito), cosa a cui lui rispondeva con un fiume di colorite parolacce. La sua frase preferita e urlata era ‘tutti accà dovete venire’ mentre batteva la mano sulla natica.
I registi Antonio Palumbo e Mariangela Barbanente, hanno avuto l’idea del film dopo aver letto un articolo di Alberto Selvaggi pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno il 2/6/2013 (‘Un busto per il mito diverso – Viva Lorenzo «Varichina»!’). Nel film interviene anche il giornalista Selvaggi, che di Varichina dice ‘ha celebrato ogni giorno il gay pride da solo’.
Il film è a metà strada tra la fiction ed il documentario. Il personaggio è raccontato da diverse testimonianze di persone che lo hanno conosciuto, alcune originali, altre ricostruite da attori. Varichina è interpretato dall’attore Totò Onnis. Di Varichina non esisteva nessun materiale visivo se non poche foto, tra cui quella sulla sua tomba. Lorenzo De Santis muore nel 2003 a 65 anni, in una casa di riposo, con le gambe amputate per il diabete.
Sarà tutta una depravazione – Hommage à Dominot di Daniel Kuhn e Enrico Salvatori (Italia, 2015), 15’, v.o. italiano
Voto:
Alla presenza di Enrico Salvatori
Il documentario vuole ricordare la figura di Antonio Iacono, meglio conosciuto come Dominot, attraverso materiali video, foto di scena, manifesti, e testimonianze inedite. Tra le persone intervistate figura Andrea Pini, che aveva fatto a Dominot una importante intervista per la rivista Babilonia.
Il giornalista e regista Enrico Salvatori quest’anno aveva portato al festival TGLFF di Torino l’interessante “Ricordando Alfredo Cohen”. Come collaboratore del canale digitale RAISTORIA, Salvatori ha un accesso agevolato ai materiali degli archivi Luce e RAI.
Antonio Iacono in arte Dominot (Tunisi, 1930 – Velletri, 2014) attore, mimo e trasformista, Dominot non ha mai nascosto la sua omosessualità e questo per il periodo in cui ha vissuto, lo pone all’interno di una ristretta schiera di personaggi pubblici (come Giò Stajano, Vinicio Diamanti, Alfredo Cohen, Ciro Cascina, Marcella Di Folco, Romina Cecconi, per fare qualche esempio) che hanno svolto, più o meno consapevolmente, un ruolo di avanguardia di quello che anni dopo sarebbe diventato il movimento per i diritti degli omosessuali in Italia.
Antonio Iacono nasce a Tunisi, figlio di immigrati siciliani. Giovanissimo ballava negli hammam e si esibiva travestito da donna nei locali tunisini. Intorno ai vent’anni si trasferisce a Parigi, dove studia recitazione e intanto si traveste, fa l’entraineuse, spettacoli di spogliarello e canta in celebri locali notturni parigini. Le tournée di questi spettacoli lo portano anche a Teheran ad esibirsi davanti allo Scià di Persia. Dalla fine degli anni cinquanta si stabilisce a Roma. Nel 1958 Federico Fellini, che lo scrittura per una piccola parte nel film’ La dolce vita’. Spetta proprio a Dominot la battuta finale, citata anche nel titolo di questo documentario. Negli anni settanta si dedica al teatro d’avanguardia recitando in ruoli sia maschili che femminili. Nel 1984 Dominot apre con il suo compagno Mario, un locale a Roma, Il ‘Baronato Quattro Bellezze’, arredato in modo pittoresco, con un cavallo da giostra appeso al soffitto sopra al bancone. Su quel bancone ogni giovedì si esibiva cantando en travestì. Di solito dodici canzoni, ognuna con un abito diverso. Suo cavallo di battaglia è il repertorio di canzoni di Edith Piaf.
Tra la altre cose Dominot è stato ospite assieme a Alfredo Cohen e a tanti altri, del celebre locale fiorentino ‘Banana Moon’ attivo negli anni ‘70, fondato e diretto da Bruno Casini, oggi Direttore Artistico del Florence Queer Festival. Il 2 marzo del 1977 il ‘Banana Moon’ veniva inaugurato con lo spettacolo di Dominot ‘Labirinto n. 1’, definito allora un’esperienza di teatro onirico. Sempre il Banana Moon ospiterà più volte anche Ivan Cattaneo, altro personaggio, questa volta per fortuna vivo e vegeto, celebrato in questa edizione del FQF per i suoi quarant’anni di carriera.
Lina Mangiacapre. Artista del femminismo di Nadia Pizzuti (Italia, 2015), 43’, v.o. italiano Alla presenza della regista.
Voto:
Con questo documentario, la giornalista, scrittrice e regista Nadia Pizzuti ha voluto tracciare il ritratto di una delle protagoniste più scomode e geniali del femminismo italiano, in modo che anche le nuove generazioni possano conoscerla. Per la regista qualcosa dell’opera di Lina Mangiacapre e delle sue compagne è rimasto, anche inconsapevolmente, nella creatività, nell’arte e anche nel cinema.
Nadia Pizzuti era rimasta particolarmente colpita da alcune caratteristiche peculiari della figura della Mangiacapre: i collegamenti fra i suoi percorsi artistici e politici, l’identificazione con l’androgina, la denuncia dell’inquinamento ambientale, l’impegno per la ricostruzione di una Napoli a misura di donna dopo il terremoto, la sua ricerca sul cinema come sintesi di tutte le arti.
Artista, cineasta, scrittrice, poetessa Lina Mangiacapre (1946-2002) nasce a Napoli da una famiglia borghese. Negli anni della contestazione studentesca si iscrive al corso di laurea in filosofia cercando di coniugare marxismo ed esistenzialismo. Inizia anche a dipingere. Da allora in poi, lavora sull’arte e la creatività come forma di lotta politica. Nel 1970 fonda il collettivo femminista le Nemesiache, uno dei primi collettivi femministi italiani. E lei inizia a farsi chiamare Nemesi (la dea greca della ‘distribuzione della giustizia’).
Lina Mangiacapre costruiva la sua immagine in totale libertà, creandosi un look multiforme e androgino. Aveva un corpo esile, occhiali grandi e colorati, un cilindro nero e stivali da cavallerizza. Lei non si identificava con le categorie di genere, non diceva ‘sono una donna’, e neanche ‘sono un uomo’, lei si identificava con la figura dell’androgino, che adesso si direbbe un ‘queer’. Lei costruiva la sua immagine e la proponeva, in modo provocatorio.
La Regista ha posto particolare attenzione all’esplorazione delle metamorfosi di Lina nel corso del tempo. Si faceva chiamare di volta in volta Nemesi, Màlina, strega, sirena, sibilla, Pentesilea, Eliogabalo, Faust-Fausta. In una fase iniziale parlava molto di femminilità originaria, nella mitologia, poi però ha avuto una evoluzione in cui si è interessata del ‘transfemminismo’, riverendosi a identità fluide e non più a un’identità decisa, come invece anche il femminismo allora rivendicava (lavorando sull’essere donna in opposizione ai codici imposti dal patriarcato). Lina ha anticipato il lavoro di studiose (come Judith Butler e Paul Beatriz Preciado) che hanno poi elaborato in maniera diversa gli stessi concetti nelle loro teorie queer.
Lina con le sue compagne Nemesiache faceva delle azioni artistiche e politiche allo stesso tempo. Come esempio quando andarono vestite con abiti maschili e baffi ad interrompere un convegno a Castel dell’Ovo di femministe che rivendicavano la loro femminilità. Altre volte si presentavano con lunghi abiti mitologici, perché loro si richiamavano anche molto alla mitologia. Un altro aspetto che ha interessato la regista è il radicamento di questo gruppo nel territorio napoletano. Le Nemesiache celebravano i miti classici femminili del territorio napoletano riappropriandosi cosi di quelle zone archeo-mitologiche: celebravano Napoli e Cartagine, entrambe fondate da donne e legate al fuoco e al mare. Quello che facevano non era folklore, ma si trattava di attività anche politiche, come quando per due anni hanno incontrato le donne internate nei manicomio del Frullone, l’ospedale psichiatrico di Napoli, per entrare in contatto con persone che hanno pagato «la rivolta al ruolo e alla normalità», realizzando con loro dei video super8, diventati la pellicola ‘Follia come poesia’ (1977/79) . Quando poi c’è stato il terremoto nel 1981 le Nemesiache hanno dato vita ad un convegno sulla ricostruzione vista dalle donne.
Nei confronti del cinema, come per il teatro, Lina Mangiacapre avverte il costante desiderio di far emergere l’impegno politico e le relazioni tra donne. A questo intento si ispirano le sue pellicole Autocoscienza (1976), Le Sibille (1977) e Faust/Fausta (1991) tratta dal romanzo omonimo. Lina Mangiacapre con le Nemesiache ha organizzato rassegne cinematografiche femministe per affermare la presenza dell’espressione della donna nel campo del cinema. Un tipo di cinema che non voleva distinguere tra professionismo e non professionismo. Come scrittrice, scrive ‘Cinema al femminile’, opera in due volumi (1, 1980; 2, 1994).
La regista Nadia Pizzuti ha deciso di non girare un documentario di tipo tradizionale che si limitasse a riportare un certo numero di testimonianze delle Nemesiache e di altre persone, preferendo invece realizzare un film prevalentemente di montaggio, una elaborazione creativa delle immagini e dei testi di Lina, con l’aggiunta di alcune scene di animazione. Il progetto, lanciato con un crowdfunding, è stato realizzato anche grazie alla collaborazione del collettivo adateoriafemminista e dell’associazione Le Tre Ghinee/Nemesiache, in particolare di Teresa, scultrice sorella di Lina, che assieme ad altre Nemesiache, ha proseguito il percorso del gruppo dopo la sua morte.
Di seguito i film della serata.
Bruising for besos di Adelina Anthony (USA, 2016), 90’, v.o. inglese, sott. Italiano
Voto:
Bruising for Besos (Livida per i baci) primo lungometraggio da regista e sceneggiatrice di Adelina Anthony, protagonista anche nel film, è ambientato nella comunità delle lesbiche latine di Los Angeles e affronta il problema della violenza domestica nella comunità lesbica. Adelina Anthony interpreta Yoli, una lesbica mexicana butch, sulla trentina, un’artista che ama giocare con la sua arte cosi come con le sue donne che cambia spesso. Alla sua festa di compleanno a sorpresa incontra Dana (Carolyn Zeller) una intrigante infermiera portoricana, con la quale inizia a flirtare. Dopo intensi preliminari in automobile interrotti da una guardia, le due finiscono a letto insieme e questo succederà poi spesso nel corso del film. Dopo la loro prima notte insieme però, Dana va nel panico. Lei è molto cattolica, ha forti sensi di colpa e si vergogna riguardo al suo orientamento. Yoli decide di andare avanti con questa relazione perché pensa di riuscire a far cambiare idea a Dana, e in parte ci riesce, almeno momentaneamente. A questo punto, Yoli è innamorata di Dana, ma non ha perso di vista le sue vecchie storie: c’è una sua nuova collega sexy e formosa che ci prova sempre con lei, c’è la sua ex che ancora le gira intorno, poi c’è Carmela, un’altra sua ex fiamma e ora fidanzata con la sua migliore amica (o amico) e coinquilina Rani (interpretata/o dal performance artist D’Lo, transessuale FtM).
Yoli è una persona complicata. Ha trascorso i suoi primi anni di vita in una famiglia dove si compievano abusi, con un padre che picchiava e tradiva sua mamma. Quei ricordi sono ricreati nel film attraverso delle marionette messicane che Yoli sta preparando per un concorso, marionette che servono per spiegare al pubblico un passato che Yoli sta cercando inutilmente di dimenticare.
Anche Dana ha i suoi problemi con il padre, ma di tipo diverso. Suo padre è sempre stato sordo e invecchiando ha ora dei seri problemi di salute. Questo è un motivo in più per Dana, per non venire allo scoperto.
Quando la salute del padre di Dana peggiora, lei va ad assisterlo. Quando però Yoli decide di raggiungerla, vede un uomo uscire dalla casa di Dana. Quindi Yoli affronta Dana in modo molto aggressivo nei toni e Dana reagisce colpendola. E questo incidente è solo l’inizio. La relazione tra Yoli e Dana prosegue con molta insicurezza e gelosia da entrambi i lati e i nodi alla fine arrivano al pettine.
Il film pone tutta una serie di interrogativi. Ci sono cose che possono scusare qualche volta gesti violenti? La violenza è solo fisica? Nella comunità lesbica il 35% delle donne in relazioni omosessuali ha sperimentato la violenza domestica nel corso della vita. Il film che ha un crescendo drammatico, ha spesso anche battute divertenti, la Antony ha spiegato che l’umorismo è necessario perché altrimenti la storia sarebbe stata troppo dura: l’umorismo aiuta a sopravvivere.
ADELINA Anthony è una artista multidisciplinare messicana e lesbica. I suoi lavori affrontano temi come la colonizzazione, il femminismo, il trauma, la memoria, il sesso, l’etnia, la sessualità, l’immigrazione e tutte le questioni che generalmente interessano le comunità LGBT. Bruising for besos è tratto da un omonimo suo monologo teatrale. ‘‘Forgiving Heart’, il suo primo cortometraggio da regista si basava su l’adolescenza di Yoli Villamontes, la protagonista di Bruising for Besos. Essendo cresciuta in una famiglia violenta Adelina Anthony ha trovato un modo riportare questa sua esperienza in una torrida storia d’amore solo in parte autobiografica.
Wo willst du hin, Habibi? (Where Are You Going, Habibi?) di Tor Iben (Germania, 2015), 70’, v.o. tedesco e turco, sott. Italiano
Voto:
Del regista tedesco Tor Iben avevamo già avuto l’opportunità di apprezzare i suoi due lungometraggi precedenti “The Passenger” (2011) e “Cibrâil” (2010) e alcuni corti. Qui il protagonista è Ibrahim (Cem Alkan, attore turco già presente in The Passenger), un giovane berlinese nato da genitori turchi, bello, brillantemente laureato e ora in cerca di un lavoro adeguato ai suoi studi, impresa difficile date le sue origini straniere. Ibo ha una sua vita gay di nascosto dalla famiglia ed un compagno, svedese, che però è da poco tornato a Stoccolma. Un giorno gli capita in casa Alexander (Martin Walde) un piccolo criminale, che sta scappando dalla polizia e da quel momento Ibra perde la testa per lui e inizia a pedinarlo. Il biondo Alexander è un violento, una specie di naziskin con un fisico da urlo visto che si allena in palestra alla lotta. Quando Alexander viene aggredito da sconosciuti e si ritrova con entrambe le braccia ingessate, nemmeno sua madre vuole aiutarlo e Ibra può finalmente farsi avanti e accudirlo in tutto. Alexander è eterosessuale, ma si rende conto che in quella situazione non può fare tanto lo schizzinoso e accetta le avances di Ibra e anzi sembra apprezzarle. Intanto il padre di Ibra scopre la sua omosessualità e la prende malissimo, cacciandolo di casa. La storia tra Ibra e Alexander ovviamente non può continuare, almeno da un punto di vista sessuale, ma contro ogni logica tra i due giovani nasce infine una splendida amicizia, che risolve i problemi di entrambi entrambi.
Probabilmente il miglior film finora girato da Tor Iben, Wo willst du hin, Habibi? è un film allegro, divertente, ben recitato, inoltre, e ciò non guasta, ha un’alta carica erotica che lo attraversa, anche grazie al sex appeal dei due protagonisti, senza avere scene hot, a parte un primo piano delle belle chiappe di Alexander. Ci spiega il regista che la parola Habibi nel titolo, parola che sta diventando molto comune in Germania, significa in arabo sia amico che tesoro, potendo indicare sia amicizia che amore, come nella storia del film. Il regista ha anche voluto evidenziare come la comunità turca in Germania stia velocemente cambiando atteggiamento nei confronti dell’omosessualità anche tra le vecchie generazioni, grazie all’influenza positiva di tutto l’ambiente circostante.
(Testo di Roberto Mariella, video di Antonio Schiavone)