La seconda giornata del 14* Florence Queer Festival è iniziata alle 12 con la presentazione del libro ‘Do not Disturb’ di Claudio Finelli e Mario Gelardi (Marchese editore). Con l’autore Claudio Finelli era presente Willy Waira.
Claudio Finelli è un militante dei diritti LBGT e tra i tanti impegni è anche delegato alla cultura dell’Arcigay di Napoli. Claudio, insieme a Mario Gelardi ha scritto a quattro mani una decina di brevi testi teatrali, all’interno del progetto DO NOT DISTURB, un format teatrale che porta gli spettatori all’interno di un certo numero di vere camere di albergo, trasformandoli in spettatori indiscreti di scene di vita intime. Praticamente tutte queste brevi pièce hanno uno sfondo erotico e la maggiorparte sono di interesse LGBT. Il libro contiene cinque di questi lavori, tra cui ‘La grande tribù’ dedicata a Pier Paolo Pasolini che parla di un incontro tra una giovanissimo prostituto napoletano e un intellettuale omosessuale.
Le proiezioni pomeridiane iniziano con un documentario davvero ‘scandaloso’, che tratta di un argomento importante, la vita degli omosessuali anziani, in un modo che davvero non si era mai visto prima.
“Sex and Silver gay” di Todd Verow e Charles Lum (USA, 2016), 70’, v.o. inglese, sott. Italiano
Voto:
Sex & the Silver Gay ci racconta cosa succede nella sede newyorkese di una importante associazione LGBT, la ‘PRIME TIMERS’, fondata nel 1987 a Boston da un professore in pensione, Woody Baldwin, ed ora diffusa a livello nazionale e con numerose sedi sparse in Nord America, Europa e Australia. L’associazione si rivolge agli uomini anziani gay ed ai loro ammiratori più giovani. Lo scopo dell’associazione è di dare a questa categoria di persone la possibilità di riunirsi in un ambiente favorevole per poter partecipare ad attività sociali, educative e ricreative in base ai più diversi interessi. A questo scopo la Prime Timers organizza per i propri soci, tutta una serie di eventi: cene sociali, viaggi, spettacoli, ma gli eventi più seguiti e quelli che più hanno attirato l’attenzione dei due registi, sono i sexy party mensili in una camera di albergo a base di sesso sfrenato. Il documentario parte nel modo più tradizionale descrivendo l’associazione e gli associati e chiedendo a loro di parlare del loro coming out, delle loro prime esperienze, delle discriminazioni che hanno subito. Li vediamo ad una festa di Natale mentre si scambiano i regali, il più vecchio è centenario, alcuni hanno problemi di salute, qualcuno è in carrozzella. Poi si arriva a parlare di questi party e dei gusti sessuali di ognuno. In ognuna di queste feste entrano 20-30 persone, fatte salire quattro alla volta per non destare l’attenzione degli albergatori, quando arriva il secondo gruppo i primi sono già nudi e ai preliminari. Le regole sono poche: essere puliti, educati e non mangiare tutti i panini pronti sul tavolo; se due uomini troppo grassi occupano tutto il letto gli viene chiesto di lasciare il posto anche agli altri. Assistiamo anche a un letto che crolla per il peso di due partecipanti.
La telecamera segue questi ottuagenari, durante un’orgia che dura tantissimo, di cui non viene nascosto proprio nulla. L’argomento è sviscerato in modo davvero ‘nudo e crudo’. Non si tratta di uno spettacolo adatto a signorine bene educate, ma di sicuro raggiunge l’obiettivo di parlare molto francamente di questo argomento, fornendo tutti gli elementi di conoscenza necessari per comprenderlo veramente. Un documentario davvero unico e necessario. N.B. Nei titoli di coda una frase assicura che non è stato filmato nessun minorenne al di sotto dei 18 anni. Di sicuro nessuno aveva dubbi su questo.
Il documentario successivo è molto più tradizionale e tranquillo.
MAJOR! di Annalise Ophelian (USA, 2015), 90’, v.o. inglese, sott. Italiano Documentario
MAJOR! ripercorre la vita di Miss Major Griffin-Gracy, una donna transessuale di colore, oggi 76-enne, impegnata da più di quarant’anni nelle battaglie per i diritti civili delle donne transgender.
Questo documentario è un classico esempio di come il movimento LGBT americano sia molto bravo nel creare i propri eroi e la propria epopea, a differenza di quanto avviene noi, abituati a dimenticare velocemente i personaggi del movimento LGBT appena escono di scena.
La storia dell’impegno di Miss Major è cosi di lunga data che di fatto coincide con la storia della lotta per i diritti delle donne transgender di colore. Miss Major è’ stata in carcere, si è prostituita, è diventata leader della sua comunità e in tarda età è diventata una attivista per i diritti LGBT riconosciuta internazionalmente, come dirigente della ‘Transgender, Gender Variant & Intersex Justice Project’ (TGIJP).
Sino a non molti anni fa, negli USA, le persone che non si conformavano che si travestivano in pubblico, finivano spesso in carcere e spesso anche in isolamento. Miss Major per quarant’anni ha aiutato le transessuali in carcere, andando a fare loro visita e facendo loro avere del denaro, cosi come ha aiutato e confortato le sue compagne che si prostituivano sui marciapiedi. Per questo tutte, da allora ad oggi la chiamano mamma.
Nel film, Miss Major parla della sua esperienza a New York negli anni ‘60 e di come era allora la comunità delle persone trans. Lei si esibiva nella Jewel Box Revue, uno noto spettacolo di drag. Miss Major era presente la notte della rivolta allo Stonewall Inn di New York nel giugno del 1969. La sua testimonianza ha valore anche perché la maggior parte delle giovani trans di colore responsabili di aver dato inizio alla ribellione quella notte, non sono sopravvissute per poterci raccontare oggi quella storia. La comunità transgender di colore è una minoranza colpita più di altri dall’ HIV, dal carcere, dalle violenze e dagli omicidi causati dall’odio omofobico e dai suicidi.
Le testimonianze raccolte nel documentario dimostrano che l’esempio di vita rappresentato da Miss Major ha rappresentato un modello per tante persone nella comunità LGBT. Diverse transessuali che Miss Major ha aiutato nel corso degli anni, a loro volta ora lavorano come volontarie in associazioni che si occupano di persone transgender. Emerge dal film anche una piccola nota polemica, riguardante alle recenti conquiste nei diritti civili riguardanti unioni civili e matrimoni. Conquiste che non hanno praticamente toccato la comunità transgender, che ancora deve lottare per dei diritti primari, come poter vivere liberi, sicuri e in salute: ancora oggi donne trans sono assassinate perché sono donne trans. Finché nel movimento LGBT ci saranno persone che rimangono indietro, tutti noi non potremo dire di avere vinto.
Alle 19 c’è stata la consueta tornata dei corti partecipanti al concorso VIDEOQUEER. Erano presenti in sala Walter Riccarelli regista di ‘Es War einmal/C’era una volta’ insieme a uno dei giovani protagonisti, e Donato Luigi Bruni regista di ‘Non riesco a dormire’.
‘Es War einmal/C’era una volta’ di Walter Riccarelli è un corto di soli 8 minuti, che assembla diversi spezzoni di filmati girati per lo più a Berlino. Messi tutti insieme danno l’idea di una storia di amore finita tanto tempo fa.
‘Non riesco a dormire’ di Donato Luigi Bruni è un lavoro davvero promettente (il regista è giovanissimo) e divertente, forse un po’ troppo lungo per essere un corto (23 minuti). Si tratta di una storia di amore tra due fratellastri costretti a convivere nella stessa stanza, messa in crisi da una invadente mamma/matrigna.
In prima serata è stato proiettato il lungometraggio
Barash di Michal Vinik (Israele, 2015), 85’, v.o. israeliano, sott. italiano
Voto:
Il film racconta le vicende di una famiglia israeliana apparentemente tranquilla: i Barash. Padre ex militare piuttosto autoritario, madre succube del marito che non vuole vedere i problemi, due figlie adolescenti, entrambe con le loro buone ragioni per sentirsi troppo strette sia nelle mura domestiche che nella società che le circonda e infine un figlio ancora troppo piccolo per cominciare a pretendere il suo pezzo di spazio nel mondo. La figlia maggiore, Liora, non c’è quasi mai, arruolata nell’esercito, scappa in continuazione e finisce anche in carcere, per poter stare con il suo fidanzato che, purtroppo, ha il difetto di essere nato nel posto sbagliato. L’altra figlia, Naama, la protagonista del film, è una diciasettenne che frequenta una scuola molto conservatrice. In apparenza è più tranquilla della sorella, questo però non le impedisce di andare a divertirsi con le sue amiche, trascorrendo serate in discoteca a base di alcool, droghe e incontri sessuali promiscui. Quando poi entra a far parte del gruppo Dana, una biondina esplosiva e senza inibizioni, Naama perde la testa per lei e le due iniziano una relazione travolgente, che durerà sino a quando Dana non si sarà stancata.
Il film, un’opera prima girata con un budget limitato, si fa apprezzare per la freschezza e la genuinità con cui sono descritti i turbamenti adolescenziali della protagonista Naama, ai quali fa da sottofondo il difficile ambiente sociale circostante. Un muro divide gli adulti a causa della loro razza e religione e un altro muro invisibile, e ancora più invalicabile, divide i giovani dai loro genitori. Per interpretare Naama e Dana sono state scelte due ragazze lesbiche anche nella vita reale. Cosi come è stata ripresa dalla realtà la scena della festa lesbica in discoteca. Barash è risultato vincitore della 30° edizione di Festival MIX Milano 2016.
Ha chiuso la serata il film drammatico
You’ll never be alone (Nunca vas a estar solo)
di Alex Anwandter (Cile, 2016), 81’, v.o. spagnolo, sott. italiano
Voto:
Il film si sviluppa nel giro di pochi giorni, prima e dopo un brutale crimine omofobico di cui è vittima il figlio del protagonista.
L’introverso e solitario Juan vive con il suo figlio diciottenne Pablo. Juan dirige una fabbrica di manichini e spera che, dopo venticinque anni di lavoro, il proprietario della fabbrica lo prenda come socio.
Pablo è gay, ma padre e figlio evitano di affrontare l’argomento. Un silenzio quello di Juan che in realtà nasconde disapprovazione. Pablo si dedica allo studio della danza, di nascosto si prepara per un imminente spettacolo in drag, frequenta un club gay insieme alla sua amica Mari e spesso fa sesso con il suo amico d’infanzia Felix. Il film si apre con Pablo e Felix che si baciano avidamente, contro un muro, in un vicolo di Santiago.
Un giorno Pablo rimane gravemente ferito durante una brutale aggressione da parte di due teppisti locali che già lo avevano minacciato. Felix, che è amico degli aggressori, timoroso di venire anch’egli etichettato come gay, non va in soccorso del suo compagno, anzi. Pablo viene ricoverato in coma in ospedale. Da quel momento suo padre è sopraffatto dal dolore e dai sensi di colpa. Costretto dall’aggressione al figlio a confrontarsi con le proprie opinioni sull’omosessualità, si rende conto di non avere mai voluto conoscere e capire suo figlio.
La mancanza di testimoni che potessero avvalorare una denuncia nei confronti degli aggressori e le costose spese mediche non coperte dall’assicurazione, costringono Juan ad abbandonare la quieta stabilità della sua vita piccolo borghese. Tutti i suoi sforzi per salvare il figlio, si concludono in buchi nell’acqua. Juan non ha davvero nessuno a cui chiedere aiuto e con cui parlare, a parte Ana, una dottoressa lesbica dell’ospedale. Intanto il padrone della fabbrica di manichini sta vendendo l’azienda a sua insaputa. Finché una notte per le grigie strade di Santiago del Cile, Juan trova una sua disperata soluzione.
Il giovane regista e musicista di electropop, Alex Anwandter per il suo film di debutto si è in parte ispirato ad un efferato caso di cronaca nera avvenuto a Santiago del Chile: nel marzo del 2012, Daniel Zamudio, un giovane gay venne orribilmente torturato e ucciso da un neo-nazistista. Alex Anwandter conosceva di vista quel ragazzo. Il clamore di quel caso nell’opinione pubblica portò poi al varo di una legge contro l’omofobia, ma in Cile omofobia e machismo sono tuttora presenti. Il regista ha anche composto musica del film.
Nonostante la bella storia, i tre personaggi principali Pablo, Felix e Juan non sembrano abbastanza definiti. Il filo della storia nella seconda parte si ingarbuglia, il finale sembra monco. C’è qualche svolazzo di troppo, come le scene metafisiche coi manichini e l’alternanza di colore e bianco e nero poco comprensibile.
Premio Speciale della Giuria del 30° Teddy Award della 66sima Berlinale.
(testo di Roberto Mariella, video di Antonio Schiavone)