“A noi bastava l’amore / tutto il resto poteva mancare”
Potrebbero cantare all’unisono, con timbro differente, Carol e Therese, protagoniste lunari di una storia di fantasia, sia nella fiction cinematografica sia nel romanzo di Patricia Highsmith da cui è tratta (The price of salt, prima pubblicazione censurata nel 1952). Un’opera di narrativa nel senso migliore, perché ogni esistenza che ha trovato un senso andrebbe raccontata come una favola, parte dal c’era una volta e si dipana in scene esemplari sino all’indefinita conclusione. Infatti, i dettagli storici e reali sono secondari, le circostanze sono evocative e di contorno, le persone non sono confinate nelle secche dei problemi materiali, compresi denaro e lavoro, perché lo scopo è enfatizzare il viaggio simbolico. D’altronde, affermare la propria natura nella sfera amorosa è una forma di “ricchezza”, persino un lusso che non sono in molti a potersi permettere in ogni tempo.
Il film è volutamente sofisticato e pertanto non immediato, quasi distanziante, rende gli astanti alla lettera “spettatori” che non possono né devono interferire con l’evento che si materializza sullo schermo. Ne è centro irradiatore Carol Aird (Cate Blanchett), una donna matura della buona società, addestrata a controllare emozioni, gestualità, parole, come la dama de L’Americano di Henry James: “una creatura modellata e resa flessibile ad alcuni elevati bisogni sociali”. È molto femminile, curata, raffinata, di classe, conscia della superiorità di ceto e cultura, un tipo di lesbica più frequente di quanto si creda; in versione minore è femminilità senza ambiguità anche quella di Therese Belivet (Rooney Mara). L’espressione sentimentale e linguistica è contenuta nei limiti secondo l’etichetta della gente perbene e civile, “noi non siamo persone orrende”, ricorda Carol al marito, uscendo dallo studio legale nel quale si decide la sorte dell’unica figlia, per dissuaderlo dall’ingaggiare una spietata battaglia giudiziaria. Delicatezza sobrietà stile caratterizzano la rappresentazione, contribuendo a porre l’attenzione sui contenuti e sulla qualità, poiché eccentricità, squilibrio, devianza, pruderie sono sempre in agguato quando si affronta il tema dell’omosessualità. L’autentica trasgressione per gli omosessuali è aspirare all’equilibrio e alla stilizzazione della condotta; ci vuole più coraggio a vivere la normalità nella quotidianità, che a recitare nella mondanità, in piazza o sul palcoscenico della comunità gay.
L’ambientazione negli anni Cinquanta aiuta a dissociare il messaggio dai luoghi comuni e dagli slogan dell’attualità, una vernice che impedisce alla nostra pelle di traspirare e venir riscaldata dal sole naturale della continuità tra le generazioni. Nel confronto, senza alcuna nostalgia per la dura lex, si può rilevare che il passato ora appare in una luce migliore di quanto sembrasse all’epoca, e soprattutto i contemporanei hanno senza saperlo o volerlo sapere un debito di riconoscenza verso coloro che hanno pagato a caro prezzo l’affermazione della propria identità.
Perché le conquiste “civili” non si comprano in saldo o con sconti, sono un traguardo che si consegue impegnandosi senza risparmio e dando il meglio di sé; però, una volte ottenute sono inalienabili e sembrano un regalo della vita.
Coscienza, scelta, coraggio sono le tappe del cammino su cui convergono le due donne, giungendo via via a capire che si ha il dovere di essere se stessi e assumere la responsabilità di ciò che si è, anche tradendo il patto dell’impostura sociale, un dato di fatto nel quale natura e cultura si compenetrano, “vocazione e volontà” secondo la formula di Oscar Wilde.
In questo senso, al centro si colloca la verità e non la realtà della condizione omosessuale, non c’entrano la coppia, il matrimonio, la genitorialità (tanto che Carol accetta l’affidamento della bambina al padre e alla famiglia di lui per percorrere fino in fondo la sua strada). Perciò l’opzione del linguaggio è per la poesia rispetto alla prosa, com’è inevitabile quando si entra nell’orbita dell’amore, ove si parla la lingua amoris. L’amore inteso come intenzionale comunicazione affettiva e mentale, che consente di essere in salvo per sempre da qualsivoglia ambiente o società, è una fortuna che capita ad una minoranza, poiché la maggioranza si accoppia o si lega, ma pochi amano e sanno trovare la libertà nell’amore.
“Sei il mio angelo caduto dallo spazio”, dice Carol alla giovane amica mentre si congiungono sul letto singolo di una camera d’albergo. Si tratta dell’angelico messaggero che annuncia il superamento di meschinità e grettezza, l’affrancamento dalle angustie del secolo e del periodo storico, indicando l’altrove del sogno o dell’utopia. Da qui la malinconia che pervade la narrazione, un sottofondo di dolore per la fine implicita nel patetico appassionarsi all’esistenza e ai singoli esseri viventi.
La dimensione simbolica del film è rafforzata dalla circolarità, l’antico cursum perficere, cioè portare a compimento il cerchio. Comincia dalla conclusione, con la scena delle due protagoniste che si rivedono in una sala da tè dopo mesi di separazione, occasione definitiva per pronunciare il “ti amo” da parte di Carol. E ritorna al principio prima di dar luogo all’epilogo, uno straordinario momento di intensità che vale l’intera opera, un lieto fine che rende appropriata l’espressione “finire in gloria”.
Lo sguardo di riconoscimento e intesa tra le due, tra il vociare dei clienti ai tavoli del ristorante, è un assoluto che chiude la scena zittendo platea e mondo, colma l’abisso della solitudine, annulla spazio tempo società legge, apre la finitezza alla trascendenza, dichiara certa la felicità futura.
Del resto, all’inizio della loro confidenza aveva sussurrato con tono accorato Carol: “Chiedimi tutto, ti prego”. Il perché l’ha spiegato Emily Dickinson: “Che l’amore è tutto / è tutto ciò che sappiamo dell’amore”.
Mattia Morretta (marzo 2016)