Carol, un film di puro niente

Carol raffigura il desiderio in modo così essenziale e puro, cioè depurato dell’inessenziale, che dà una vertigine di vuoto, come gli interni di Hopper…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa approfondita recensione del film “Carol” di Todd Haynes

Farai un vers de dreit nien
Guglielmo IX

Carol raffigura il desiderio in modo così essenziale e puro, cioè depurato dell’inessenziale, che dà una vertigine di vuoto, come gli interni di Hopper. Tutto nel film è inessenziale tranne, apparentemente, le due protagoniste. Carol è un film sul desiderio, non su chi accidentalmente e senza meriti lo prova, e ne è illuminato, e men che meno su chi cerca di contrastarlo, né sulle istanze di rado (per fortuna) apertamente sostenute dalle une e dagli altri. È il desiderio che vivifica i corpi delle due donne, distinguendole dalle statuine che si muovono nel villaggetto piccolo e falso di un trenino elettrico, solo nelle dimensioni (su cui la camera gioca) differente dalla grande città, avvolta in una musica incombente e carica di presagi, e stretta nella morsa delle vacanze natalizie (It’s Christmas Time in the City, un bianco e vitreo Natale, e tutto continua un po’ ossessivamente a ricordarcelo, dai campanellini ai mille rossi di Carol).

Se si vuole avere un’idea dell’unica, breve ed estremamente intensa, scena di sesso del film basta ricordare le abbuffate di Kechiche (anche Haynes peraltro indugia sul cibo), gli interminabili e pornografici amplessi de La Vie d’Adèle e pensare alla cosa più distante che esista. Per immaginare il primo bacio basta fare la stessa operazione con gli imbarazzati e imbarazzanti bacetti delle impacciate protagoniste di Io e lei. La poesia, invece, è simile a quella di Fucking Åmål, perché c’è qualcosa di virginale, di fragile, anche nella navigatissima Carol (Cate Blanchett), per esempio quando, poco prima di fare l’amore con Therese (Rooney Mara), dischiude la vestaglia con l’aria assorta e grave di un’adolescente (e non c’è dubbio che sia anche per Carol una prima volta). Mentre la tensione che elettrizza le due donne nell’attesa ricorda The Children’s Hour, la storia intensamente allusiva del legame tra due insegnanti, interpretate da Audrey Hepburn e Shirley MacLaine, travolte dalla voce (La Rumeur è il titolo francese), falsa e al tempo stesso almeno in parte vera, della natura scandalosamente omoerotica della loro amicizia.

Che cosa nutre il desiderio di Carol e Therese? Che cosa le fa bruciare dal primo istante all’ultimo (rallentato e senza fine, con Therese come impietrita e gli occhi sorridenti di Carol ridotti a due fessure brillanti)? Forse niente all’infuori del desiderio stesso, proprio e altrui. Un desiderio “fisico”, si direbbe a giudicare dalle poche e poco intime frasi che le due donne si scambiano nel corso del film e, prima ancora, dallo sguardo curioso e fuggitivo che Therese – commessa-numero di un grande magazzino newyorkese, Frankenberg – lancia, attraverso il negozio affollato, a Carol, una cliente borghese nel pieno della maturità e della sensualità, che invece sprizza, quanto meno all’inizio, malizia e sicurezza di sé. Fisico, ma spesso appena al di sopra della soglia della percezione: Carol è un film di sguardi, di labbra increspate, di mani sfiorate. Nella mano che Carol posa, indugiando, sulla spalla di Therese (è lo stesso tocco lieve con cui l’accompagna delicatamente a letto la prima volta) e in quella, pesante e fraterna, che sull’altra spalla appoggia un collega c’è molto di questo film in cui gli uomini sono spesso puerilmente minacciosi, raramente sensibili, quasi mai desiderabili, e le donne abissi di desideri tanto espressi – a fior di pelle ma ininterrottamente – quanto dilazionati. E non è ovviamente un caso che la scena venga riproposta alla fine del lungo flashback che occupa quasi per intero il film, a prospettiva parzialmente invertita e a emancipazione compiuta o forse appena cominciata (Therese è “sbocciata” e ha imparato, oltre che a fotografare persone, a dire di no), quando finalmente siamo anche noi al tavolo con le due donne e sentiamo nella voce di Carol un principio di disperazione soffocato da una volontà ferrea. Sta pronunciando quella frase che stando dall’altra parte del locale avevamo solo potuto leggere sulle sue labbra rosso fuoco: I love you.

In questo film quasi tutti dicono “I love you”. Lo dice il fidanzato di Therese, che dice anche di sapere la differenza tra sesso e amore, e lo dice, ripetutamente, il marito da cui Carol vuole divorziare. Ma in bocca agli uomini la dichiarazione è algida e piena di paura; paura di avere al proprio fianco una di quelle donne come Carol, per cui le altre donne hanno un nome e non sono solo “mogli di”, e paura, ancor più grande, di restare soli, di non avere nessuno con cui ballare alle feste, nessuno da portare a casa, dalle madri. Queste paure, è ovvio, aumentano a Natale, la festa della famiglia tradizionale (tipo quella di Lontano dal paradiso, per intendersi).

Non è comunque maschi (corpulenti) contro femmine (flessuose) e Carol non è un film sull’omosessualità femminile. Il “tema” fa capolino in modo un po’ goffo solo all’inizio, nel dialogo “gender” su bambole e trenini elettrici, al culmine di una scena in cui la sensualità di Carol ha qualcosa di volgare, è eccessiva, quasi caricaturale: gonfia di esperienza e denaro, la signora dagli occhi felini sembra sul punto di spalancare le fauci e divorare in un solo boccone la ragazza, pure non priva di ardimento e di iniziativa; ma il banale banchetto viene opportunamente dilazionato e ostacolato, tanto che non avrà mai luogo: la facile seduzione – solo l’ultima di una lunga serie, a giudicare dalla disinvoltura di Carol – diventa poco a poco amore, solo in questo “diverso”, piovuto dallo “spazio”.

Così Carol si rivolge al suo “angelo” Therese, che sta tremando. È appena scoccata la mezzanotte del 31 dicembre (ce lo dice una radio accesa, ma tenuta bassa a impedire che il chiasso del mondo turbi l’estasi di quella solitudine a due) e Carol e Therese festeggiano il nuovo anno e la nuova vita facendo l’amore in un motel dell’Iowa. Le due amanti sono in viaggio-fuga (ma niente all’infuori dell’ambientazione on the road e della pistola ricorda Thelma & Louise), verso ovest e evidentemente verso la libertà, che è in primo luogo liberazione dalla famiglia, angosciante nelle facce quadrate e inespressive del fidanzato di Therese e del marito di Carol, che reagiscono all’abbandono, o meglio alle conseguenze sociali dell’abbandono, con stizza impotente, ma anche nel viso sbiadito della figlia di Carol. Il tempo trascorso con la bambina sembra essere per la donna più un pesante diritto da rivendicare e dovere cui sottomettersi con ansia che un’autentica fonte di gioia, le parole e i gesti sono sempre un po’ meccanici e forzati, il volto teso. La bambina fa involontariamente parte di un’universo in cui tutto, a partire dagli affetti, viene messo sotto controllo e quindi privato di intimità, guastato (Carol acquista tardivamente e svogliatamente il regalo per la figlia, il Natale, con il suo pesante fardello di incombenze domestiche e tacchini bruciati, la innervosisce, e tutto, anche la grandezza dell’albero, tradisce la sua paura di non essere all’altezza). È con la giovane amante che Carol scopre il piacere della spontaneità e perfino della maternità: “materno” è, per esempio, il gesto delicato con cui, la notte di Capodanno, la donna accarezza i capelli di Therese, come già aveva fatto con la figlia (specchi e caschetti scoprono fastidiosamente il parallelismo), “filiale” e un po’ spaurita la richiesta della ragazza di essere portata a letto. Il senso materno della donna non viene solo, banalmente, trasferito sulla giovane per compensare l’assenza della bambina, ma cambia, anche se per poco diventa lieve, libero.

Carol non sembra interiorizzare le accuse di immoralità, ma seppur rifiutandosi di rinnegare la sua condotta sessuale – di più, di andare contro sé stessa – finisce per accettarne le conseguenze (la mancata custodia congiunta della figlia). Si direbbe per pragmatismo, per dissuadere il marito, con un discorso conciliante, ma al tempo stesso minaccioso, dall’assumere posizioni estreme, oltre che per una fondamentale presa di coscienza etica: Carol percepisce il paradosso di ottenere l’affidamento della figlia a qualunque costo, cioè anche a costo di rinnegare la sua identità, e dunque di non poterle più essere d’esempio. Ma forse anche per tornare ad essere la donna libera che è stata durante il viaggio con Therese, in questo un viaggio senza ritorno.

La stanza del motel in cui Carol e Therese varcano per la prima volta la frontiera – non dell’amicizia, trattandosi di amore a prima vista, né della “normalità”, che Carol aveva oltrepassato almeno con l’amica d’infanzia Abby, forse, se non si trattasse di una fuga, dell’autonomia esistenziale – si trova in un posto chiamato Waterloo. Ma Haynes, nei panni di Carol, è così bravo da risparmiarci quasi subito l’ineluttabile fine che ogni iniziazione lascia intravedere, la distruttiva routine di coppia, i postumi delle febbrili carezze che, al culmine apparente della sensualità, hanno posto fine alla dilazione. Cambia, todo cambia, e finisce: questa è la velenosa verità – resistente agli antidoti razionali (e dunque irragionevoli) dei giovani come Therese – che si cela dietro le frasi a effetto, un po’ sibilline e pretenziosamente filosofiche, della lettera d’amore di Carol. Per impedire a sé stessa e all’amante di entrare nel vicolo cieco della dipendenza e dell’assuefazione, la donna imprime una svolta dolorosa alla storia, compiendo il primo autentico gesto d’amore, una volontaria deposizione della volontà, a beneficio della volontà fin lì schiacciata della giovane e a proprio rischio e pericolo, ma forse anche sollievo. Lasciata libera, anche se obtorto collo, anzi a tradimento, Therese può – solo così, secondo Carol – essere felice. Ragionamento che il cuore della ragazza non capisce o di cui probabilmente intuisce il verso opposto, non dichiarato: Carol vuole restare libera, prima che sia troppo tardi e prima che tutto si guasti.

Lo sguardo di Haynes non è propriamente nostalgico, ma è evidente che il brindisi delle due donne oltre al presidente McKinley se lo sarebbe meritato il presidente Truman, per questa America gelida e bigotta, perfetta come sfondo scuro su cui far stagliare le due luminose protagoniste. D’altro canto, se Carol e Therese non esaudiscono subito desideri la cui reciprocità è evidente a entrambe fin dall’inizio, non è solo per “merito” dell’America puritana che le ingabbia (come quella grata iniziale lascia presagire). Siamo forse al centro del paradosso amoroso attorno a cui i primi poeti europei hanno costruito una quasi millenaria concezione dell’amore e della letteratura che fa dell’ostacolo un elemento indispensabile al desiderio, rimosso il quale nessuna poesia è più possibile, e del desiderio stesso l’oggetto del desiderio. Siamo in compagnia di due donne che sembrano saperlo anche senza averlo letto, che sanno godersi l’attesa tra giochi e trucchi. Dietro le maschere forse niente; è questo il segreto di Carol/Carol?

Sara Natale (Milano, 1983). Filologa, lavora tra Firenze e Siena

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