Momento perfetto per parlare di teatro: i principali festival estivi hanno appena chiuso il sipario e quelli di agosto stanno per aprirlo tra breve. Con le novità “a tema” che sono davvero tante, da recuperare nelle prossime serate invernali o da correre a vedere nelle settimane che stanno arrivando.
“IL CAMBIO DEI CAVALLI” di Franca Valeri
A Spoleto la “nostra” Franca Valeri ha portato in scena “Il cambio dei cavalli“, ultimo testo da lei scritto, amara commedia sulle differenze delle varie età della vita e sulle diversità tra le esigenze umane. Al centro della vicenda un’anziana signora ironica e raffinata, un ricco imprenditore puttaniere, figlio del suo ex-amante defunto, con accanto un’arrampicatrice sociale un po’ santarellina e un po’ escort. Tanti discorsi bizzarri e apparentemente incoerenti tra il finanziere e la sua saggia e comprensiva “quasi matrigna”, per raccontare e mostrare forza e debolezze dell’essere umano fino ad un’inaspettata conclusione ai fiori d’arancio tra i due più giovani in un finale che proprio lieto non si può definire. Appuntamento con questo spettacolo al Teatro Franco Parenti di Milano dal 9 al 19 del prossimo ottobre, nel frattempo nel video Youtube qui sotto se ne possono cogliere alcuni significativi frammenti, comprensivi di un’immancabile Franca Valeri al telefono.
“QUAI OUEST – APPRODO DI PONENTE” di Paolo Magelli
Sempre a Spoleto ha debuttato l’allestimento di Paolo Magelli di “Quai ouest – Approdo di ponente“, dramma scritto nel 1985 da uno dei più maledetti drammaturghi francesi del secolo passato, quel Bernard Marie Koltès cantore delle differenze di identità razziali e di inclinazioni sessuali, rapito dall’Aids all’età di soli 40 anni. E’ giunta l’ora che l’Occidente, ormai del tutto colonizzato, paghi duramente il suo sistema di rapina. Al centro della scena, un quartiere periferico devastato in una città abbandonata da Dio e dagli uomini, agiscono una sofisticata borghese dal grandioso passato, donna in crisi che va cercando sè stessa, fragile e nevrotica nel vagare come nel regno dei morti, e un anziano suicida mancato (è stato un misterioso uomo di colore a salvarlo dalle acque del fiume) in fuga dopo un crac finanziario, interpretato da un magnifico Franco Graziosi. Entrambi diventano ben presto vittime designate di una scombinata famiglia d’immigrati sudamericani, tutti individui perduti, anche in questo caso una famiglia ormai del tutto sfilacciata, dove è troppo tardi per ricostruire un minimo tessuto di normale rapporto affettivo. Tra costoro, quasi giudice e giustiziere angelo della morte, interviene il misterioso giovane dalla pelle scura a uccidere ad uno ad uno gli altri personaggi, in una vendetta che ha il sapore del rito sacrale e del mito primigenio. Lontani da ogni idea di redenzione, come in una catena di impronta dostoevskiana, si assiste all’ultimo bagliore di un sovvertimento della storia con la fine dei suoi abusi, e l’inizio – forse – di nuovi altri abusi, nella logica che ogni ingiustizia sia destinata a incontrarsi con la propria vendetta là dove va ad aprire un nuovo ciclo nel momento stesso in cui arriva a chiuderne uno precedente. “Quai ouest – Approdo di ponente” sarà di nuovo in scena al Teatro Fabbricone di Prato dal 12 al 20 novembre per poi proseguire la tournèe in Italia.
“SANTO GENET” di Armando Punzo
Avrà un importante tour anche il magnifico “Santo Genet” della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo (tra le tappe principali: il Teatro Menotti di Milano dal 17 al 19 ottobre, e a seguire l’Arena del Sole di Bologna). Nei teatri tradizionali all’italiana, o comunque negli ampi spazi chiusi, non avrà di certo la stessa forza eversiva e lo stesso significante politico che sprigiona entro le mura del carcere di Volterra, dove ha avuto vita alla fine di luglio, ma non mancherà di suscitare stupore e stimolare interesse e discussioni. Nell’occasione della tournèe ci impegniamo a riparlarne. Per ora basti dire che qui siamo di fronte a un’esperienza che travalica il senso dello spettacolo e che ci interroga direttamente come individui prima che come spettatori, così come da anni avviene ad ogni lavoro di Armando Punzo e dei suoi detenuti-attori. Questa volta siamo portati a interrogarci e a ragionare sull’essenza, sul senso e sul valore della bellezza insita nel nostro vivere quotidiano e calata nel sociale che ci circonda, partendo dalle immagini e dalle parole che Jean Genet ci ha lasciato in eredità .
Nell’anno dell’Oscar a “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino torniamo a porre la mente su un tema che, come deflagrante vaso di Pandora, si moltiplica in un’infinita serie di costellazioni simultanee. Fin dal momento in cui entriamo nello spazio scenico transitando attraverso un viale di statue viventi in abiti da marinai che assumono posture emblematiche, dall’atto della preghiera alle sculture fidiache. Ma tra queste è la prima che ci indica il viaggio a cui siamo stati chiamati: tutti i marinai riproducono l’estremo atteggiamento del Tadzio di “Morte a Venezia“, quando fermo sul limite dell’orizzonte visibile indica con l’indice a braccio alzato al morente von Aschenbach un ulteriore orizzonte, di un’altra bellezza sconosciuta, ancora più lontana, nuova e irraggiungibile, tutta da immaginare, da scoprire o da inventare dal nulla. E a questo Punzo ci invita e ci stimola in una costante azione “politica”: ad un impegno costante che parte dall’estetica per espandersi ad ogni altro aspetto dell’esistenza. Con procedimento socratico: prima distruggere le false credenze per poi trovare la giusta direzione di indagine. Così non è un caso che il viale di statue viventi introduca a un livido cimitero bianchissimo e accecante alla luce del sole nel cortile del carcere (purtroppo questo effetto andrà perduto nel prossimo allestimento pensato per i teatri al chiuso!!!) in cui tra candide tombe, colonne di marmo e alate statue in stile Piacentini parole kafkiane celebrano quella che Patroni Griffi definirebbe “la morte della bellezza”.
A prendersi la responsabilità di porsi come guida e alterità del contraddittorio è lo stesso Armando Punzo in eleganti vesti femminili di nero taffetà che rimandano alla Sissi del “Ludwig” di Visconti, seducente e provocante ma anche ironico ibrido di maschile e femminile. E’ di certo la Divine di “Notre Dame des Fleurs” , che abitava in una soffitta affacciata proprio su un cimitero, ma è anche tutti gli altri travestiti, tutti i carcerati, tutti i delinquenti e tutti gli emarginati che popolano le pagine e gli scritti di Genet. E alla presenza di tutti loro, di coloro che hanno davvero commesso quei crimini, veniamo ben presto introdotti noi spettatori, quando siamo spinti a entrare nei lunghi corridoi e nelle anguste celle del carcere. Qui tra specchi ed ex-voto, tra piccoli altari e immagini sacre e dissacrate si fanno avanti Querelle il marinaio, il Capitano Seblon nella sua bianca uniforme che sembra clonato dal Franco Nero del film di Fassbinder, le gheisce del “Mikado” di Gilbert & Sullivan, la Madonna che promette di esaudire ogni desiderio ma che indossa i colori di Alice, i magnaccia traditori, i vescovi fieri delle proprie perversioni, i leather s/m esibizionisti alla Tom of Finland, la Biancaneve nella bara di cristallo, le tenutarie di bordelli, i San Sebastiani.
Si mescolano, si confessano, si accalcano, con la loro carne sudata che diventa la carne sudata degli spettatori, i loro corpi che si toccano e si strusciano con i corpi dei partecipanti in un rito che sacro e pagano al tempo stesso. Sono momenti di una bellezza intensissima, di una magnificenza faticosa da reggere, si viene sedotti, spaesati, turbati da un vortice di emozioni e sensazioni, ma chi è passato negli stessi corridoi e negli stessi anfratti lo scorso anno e ha assistito allo studio preparatorio dell’estate scorsa non può non notare che lo scultoreo detenuto-attore nero seminudo di un anno fa è sostituito da un suo simulacro in cartapesta, un segno preciso che a tale bellezza e magnificenza impone ora uno sguardo totalmente inedito.
Ancora una volta i personaggi definiscono la propria identità e si presentano agli astanti solo in base alla propria superficie, alle sensazioni indotte dagli abiti che indossano, alla propria capacità di sedurre l’altro, ma quelle immagini che si moltiplicano all’infinito e quelle parole che muovono alla commozione e allo stordimento vanno adesso ad affrontare un discorso che lega in un vincolo indissolubile l’estetica e la morte. Il valzer in cui gli attori coinvolgono lo spettatore non è un’elegante danza viennese, ma il ballo con cui l’oscura signora ci rapisce alla vita. Sono le funebri note fassbinderiane e le parole di “Each man kills the thing he loves” (“Ciascuno uccide le cose che ama”) ad accompagnare il pubblico di nuovo all’esterno nel cimitero del cortile. E qui il rito riprende e si ripete, si chiude e riparte, i personaggi visti nei ristretti spazi dell’interno ritornano nella forma di statue pietrificate, effigi cimiteriali che rivendicano la propria valenza superiore nella comprensione dei valori filosofici e concreti della “bellezza” e della “bontà “. Così quando nel finale vengono offerti agli spettatori ranuncoli multicolori, solo quelli più attenti ed avveduti si rendono conto che si tratta di fiori strappati alle corone e ai mazzi dei defunti e che nel gettarli agli attori come atto di ringraziamento si vanno separando proprio da quei simboli che invece dovrebbero trattenere e coltivare come azione di riflessione e crescita intima e collettiva. Come è stato riconosciuto da più parti si tratta di uno degli spettacoli più belli, più intensi e più importanti delle ultime stagioni a cui hanno dato un contributo fondamentale le musiche originali eseguite dal vivo Andrea Salvadori e i magnifici costumi di Emanuela Dall’Aglio che guardano tra innamoramento e ironia alle linee estetiche di Jean Paul Gaultier, Pierre et Gilles e David LaChapelle. Lo si è già detto e lo si torna a ribadire: prendiamo qui l’impegno a tornare a parlare in autunno di questo “Santo Genet” quando arriverà nei teatri perchè i soggetti che va a toccare sono tanti e tutti di fondamentale rilevanza, a partire dal tema del doppio, della doppia valenza dell’identità sessuale, della doppiezza della verità , del valore doppio della rappresentazione scenica… Intanto i più curiosi che volessero farsi un’idea di ciò che li aspetta in teatro possono gurdarsi il video qui sotto.
“A DANCE TRIBUTE TO ART OF FOOTBALL” di Jo Strømgren Kompani
E ancora nel “doppio” si finisce per andare a parare anche quando si affronta il “machissimo” tema del calcio. Tanto più nell’anno dei Mondiali brasiliani. In una partita non abbiamo forse di fronte 11 maschi specularmente opposti ad altri 11 maschi? Da questa situazione parte uno spettacolo di danza assai anomalo come “A Dance Tribute to Art of Football” della compagnia norvegese Jo Strømgren Kompani che a fine luglio ha chiuso trionfalmente il festival piemontese Teatro a Corte. Tra i danzatori ritroviamo le stesse pacche sulle spalle, gli abbracci non sempre indispensabili, i contatti fisici dalla interpretazione dubbia, i muscoli fin troppo esibiti in allenamento e fuori allenamento, il cameratismo dalle movenze talora equivoche che vediamo tra i calciatori, tutto quel campionario di omoerotismo più o meno inconsapevole ma ben conosciuto attraverso le riprese televisive, quello esaltato in tanti siti web cliccati dai gay. Tutto ciò è stato preso in considerazione nella coreografia di questo delizioso balletto che si diverte a prendere in giro in modo seriamente bonario tutti gli aspetti che si vedono in campo durante una partita di calcio. Come è ben testimoniato anche nei frammenti qui sotto visibili.
“TOGETHER” di Alpo Aaltokoski
Questo spettacolo norvegese è stato l’ultimo titolo di una specifica vetrina che il festival delle dimore sabaude quest’anno ha voluto dedicare, tra un happening di strada e uno spettacolo di nouveau cirque, alla danza delle nordiche lande scandinave. Vetrina nordica che ha presentato vere e proprie gemme del balletto a tematica gay, sia dal vivo che in video. Sul palco si sono prodotti i performer Ahto Koskitalo e Jouni Majaniemi in “Together“, un pas de deux di circa un’ora tutto al maschile coreografato dalla star del balletto finlandese Alpo Aaltokoski.
Il duo è un vero inno alla fisicità maschile, più potente quella del muscoloso Ahto Koskitalo, più morbida ed elastica quella del compagno. I loro corpi agiscono (ma forse sarebbe meglio dire che sono agiti dalla musica) su una delicata partitura di Aake Otsala dal sound alla Bjork, tutta mezzi toni e allusioni, una vera e propria drammaturgia musicale in grado di evidenziare e condurre gli stati d’animo e gli sviluppi narrativi. Sia che risultino imprigionati in piramidi di luce verticale o in geometriche figure orizzontali, sia che da là riescano a liberarsi, i due protagonisti restano legati dagli spazi che idealmente determinano i loro movimenti, le equilibrate vibrazioni come le distorsioni deformanti; ma soprattutto restano legati tra loro da un invisibile contatto mentale che li avvicina o li isola grazie a una forza misteriosa e magica che potrebbe chiamarsi amore. La loro azione può essere fatta di rapidi scatti contratti o di ampi ondeggiamenti, di infinitesimali ripetersi dello stesso atto o di impetuose movenze, ma è come se stessero vivendo fino all’estremo una storia a cui non possono sfuggire.
E’ questo l’amore tra uomini? Sì l’amore è proprio questo! Si cercano romanticamente, si accarezzano, le labbra di uno sfiorano timidamente le spalle dell’altro, poi le loro mani si incontrano e si incrociano per afferrarsi con forza a formare con le braccia un delicato e fluido nodo corporeo dentro cui si trova imprigionato prima l’uno poi l’altro, legati anche da un sentimento che non permette a nessuno dei due di liberarsi. Però ci sono momenti in cui i due danzatori fisicamente si allontanano, si respingono, lottano contro l’altro e contro sè stessi per finire inevitabilmente di nuovo allacciati nel vincolo fatale. Nè con te nè senza di te. Come sospesi in un’atmosfera creata solo per loro due e da loro due, si guardano con lo stesso sguardo, si toccano con la stessa intenzione, sospirano dello stesso fiato, le loro membra si attirano tanto di reciproca brama che di ostile rigetto a fondersi in un’unica entità, trapassano ogni confine di spazio e di tempo, fino a quando solo la tenebra può accogliere e forse risolvere il conflitto dei loro desideri.
Scene da “Together” di Alpo Aaltokoski
“THE RAIN” di Pontus Lidberg
Non troppo dissimilmente da quanto avviene nel video “The Rain” del coreografo svedese Pontus Lidberg, filmato nel 2007 e alfine presentato ora in prima nazionale dal festival piemontese tra le storiche mura del Castello di Rivoli. Quando queste riprese cariche di premi prestigiosi ricevuti dal London International Dance Film Festival e dal Goteborg International Film Festival approdarono sugli schermi americani il New York Times le presentò dicendo che “Il video The Rain ci mostra in modo memorabile tutto ciò che la danza rappresentata sul palcoscenico non riesce ad esprimere . E aveva perfettamente ragione, perchè di rado si è visto qualcosa di altrettanto sensuale in fatto di danza e di immagine elettronica. Una sensualità che è racconto in sè e che del racconto è frutto. Una sensualità che come la pioggia del titolo si spande su corpi e oggetti e che come la pioggia del titolo si ricicla ogni volta ininterrottamente. Piove sulla ragazza che in un bar incontra forse l’uomo della sua vita, e anche su lui si riversa la pioggia. Piove dentro il bagno dove l’uomo nella vasca sogna il grande amore. Piove dentro la stanza in cui danza dopo averlo trovato, compagno di vita, di sesso e di affetti (è la parte più corposa e affascinante della narrazione coreografica). Piove sulle scale, sulle strade, sui tetti, dentro le auto, dentro le case e piove sui parchi della città. Le storie nascono, si dipanano e finiscono, e sempre continua a piovere…. Nella semplice ed efficace metafora della pioggia vista come l’amore che costantemente fluisce e si spande, ma che nessuno riesce a fermare e a possedere per sempre. Un vero capolavoro che tutti dovrebbero avere nella propria videoteca personale e di cui potete avere un assaggio qui sotto, purtroppo in immagini di bassa qualità. Il video “The Rain” è però disponibile in vendita in formato integrale e in HD sui normali siti internazionali di e-Commerce. Comperatelo e ci ringrazierete! Noi ringraziamo il festival Teatro a Corte per avercelo fatto conoscere.
PROSSIMAMENTE A TEATRO
Se questi erano i principali spettacoli a tema gay passati nelle scorse settimane, non ci resta che fornire ora alcune anticipazioni su quelli che stanno per andare in scena. Per primo segnaliamo la tappa del 28 e 29 agosto al Festival Castel dei Mondi di Andria della versione teatrale di Scende giù per Toledo che Arturo Cirillo si è cucito addosso a partire dalle parole del romanzo di Giuseppe Patroni Griffi. Si tratta dell’amara e divertente storia del femminiello Rosalinda Sprint che nella Napoli della metà dei Settanta vive diviso tra i sogni di grandezza, l’aspirazione al grande amore (ovviamente eterosessuale!… Cosa credevate?) e il desiderio di fuga verso un mondo di libertà e di agiatezza (“Scende giù per Toledo e va di fretta Rosalinda Sprint, è in ritardo col sarto e deve andare da Marlene Dietrich. Fra mezz’ora e quella non aspetta. Colpa della Camomilla Schulz “). Lo spettacolo sarà poi in tour durante l’inverno toccando piazze importanti come il Teatro Elfo Puccini di Milano dal 16 al 21 del prossimo dicembre.
E così andiamo a terminare con i numerosi spettacoli al debutto in quello che potremmo definire il festival più omosessuale dell’estate 2014: il Festival di Todi. Il 22 agosto va in scena “L’abito della sposa“, novità di Mario Gelardi interpretato da Pino Strabioli e Alice Spisa. Ci fa partecipare ai segreti di Lucio, sarto di abiti militari e figlio di un sarto di abiti militari, costretto dagli eventi a condividere la sua sartoria con la timida Nunzia. La vita vera è fuori da quelle quattro mura, dentro ci sono timidezze patologiche ed enigmi da mettere in comune e da svelare come alla fine di un giallo. Accompagnati da una colonna sonora composta da hit di Rita Pavone e dai rimandi puntuali ai grandi e piccoli eventi storici del 1963, il matrimonio
Ponti Loren, la visita di Kennedy in Italia, la tragedia del Vajont. E’ poi la volta dello scandaloso “Vico Sirene” di Fortunato Calvino che debutta con la regia di Enrico Maria Lamanna il 29 agosto portando in scena le complesse vicende liete e tragiche dei femminielli napoletani Nucchetella, Scarola, Coca-Cola, Susi, Butterfly e Mina, tutte/i abitanti in Vico Sirene. Tra la tombola tradizionale dei degradati bassi popolari e gli echi della morte di Pasolini corrono via le storie oscure e derelitte di clienti dalla doppia vita e di peccati che si consumano solo nel buio delle ore notturne.
Riccardo Reim drammaturgo e regista ha scritto il testo di “L’abbecedario del Conte Tolstoj” prendendo come base i “Quattro libri di lettura” del grande autore russo per indagare sull’erotismo giovanile in relazione alle teorie pedagogiche di ieri e di oggi. Il suo copione non censura l’attrazione carnale di Lev Tolstoj verso i giovani ragazzi e la sua regia prevede la nudità maschile. Il programma del festival ne prevede il debutto in data 23 agosto.
Sarà invece uno dei musical più “camp” di ogni tempo a chiudere il cartellone, quel Sunset Boulevard di Andrew Lloyd Webber ispirato al capolavoro cinematografico di Billy Wilder, ricco di battute come “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!“. Per la prima volta in Italia, tradotto lingua italiana va in scena diretto da Federico Bellone in data unica il 31 agosto.
E avendo aperto con informazioni relative alla “nostra” Franca Valeri, con Franca Valeri andiamo a chiudere, perchè per una decina di giorni a partire dal 22 agosto i monologhi più divertenti e più celebrati della grandissima attrice-autrice milanese-romana torneranno a vivere sulla scena nello spettacolo “Toh, quante donne!” di Mauro Bronchi en travesti diretto nell’occasione da Graziano Sirci. Il nome di Mauro Bronchi vi ricorda qualcosa? Vi ricorda forse Le Sorelle Bandiera? Ebbene si tratta proprio di lui, di nuovo sulla scena travestito come un tempo e più di un tempo!
Sandro Avanzo