FILM E PERSONAGGI PRESENTI AL 29° TGLFF

BREVI RECENSIONI, RESOCONTI E VIDEO – TUTTI I PREMI ASSEGNATI

MARTEDI 6 MAGGIO – TUTTI I PREMI DEL 29° TGLFF

Le Giurie del 29° TGLFF hanno assegnato tre premi principali (Premio “Ottavio Mai” per il Miglior lungometraggio, Miglior documentario e Miglior cortometraggio) e due premi collaterali (Queer Award e Premio DAMS – Sguardi sul Festival), che saranno consegnati stasera, alle ore 21 presso la Sala 1 del Cinema Massimo, durante la cerimonia di chiusura del festival. Saranno consegnati anche i tre premi del pubblico.

Premi LUNGOMETRAGGI

La Giuria, composta da Paola Pitagora, Pippo Delbono, Gabriele Ferraris, Ron Peck e Gal Uchovsky, assegna il premio “Ottavio Mai” per il miglior lungometraggio a:

Der Kreis (The Circle)di Stefan Haupt (Svizzera, 2014).

Con la seguente motivazione: «Un film che con un sapiente linguaggio cinematografico racconta, tra la realtà e la finzione, in maniera toccante, vera, il difficile cammino di due uomini, di una comunità, nel cuore dell’antica Europa, per arrivare a vedere finalmente riconosciuti i diritti alla libertà dell’amore».

La Giuria assegna inoltre una menzione speciale a: La partida (The Last Match) di Antonio Hens (Cuba, 2013).

Con la seguente motivazione: «Con un linguaggio cinematografico tagliente e contemporaneo racconta, come in una  tragedia shakespeariana,  una storia  di menzogne, degrado, violenza, morte  in una terra di grandi rivoluzioni e antiche rigidità, dove alla fine vince però il grido inevitabile dell’amore».

Premio del pubblico: Hoje eu quero voltar sozinho (The Way He Looks) di Daniel Ribeiro (Brasile, 2014).

Premi DOCUMENTARI

La Giuria, composta da Milena Paulon, Luigi Romolo Carrino e Gabriele Farina, assegna il premio per il miglior documentario a:

Violette Leduc: la chasse à l’amour (Violette Leduc, in Pursuit of Love) di Esther Hoffenberg (Francia, 2013).

Con la seguente motivazione: «Per aver saputo raccontare con fascinoso linguaggio documentaristico il coraggio della parola di Violette Leduc in un’epoca maschilista quasi quanto quella attuale».

La Giuria assegna inoltre una menzione speciale a: Rebel Menopause di Adele Tulli (Regno Unito, 2014).

Con la seguente motivazione: «Per averci ricordato che anche le donne hanno il diritto di invecchiare e di avere le rughe».

Premio del pubblico: Rebel Menopause di Adele Tulli (Regno Unito, 2014)

Premi CORTOMETRAGGI

La Giuria, composta da Silvia Minelli, Alessandro Fullin e Enrico Salvatori, assegna il premio per il miglior cortometraggio a:

For Dorian di Rodrigo Barriuso (Canada, 2012).

Con la seguente motivazione: «Per l’orginalità del tema, l’omosessualità di un adolescente down, trattato in modo ironico e commovente».

La Giuria assegna inoltre una menzione speciale a: Das Phallometer (The Phallometer) di Tor Iben (Germania, 2013).

Con la seguente motivazione: «Poiché riesce a trattare un tema molto delicato, il trattamento umiliante dei rifugiati politici gay nella Repubblica Ceca, in modo assolutamente geniale e sintetico».

Premio del pubblico: Ett Sista Farv ä l(A Last Farewell) di Casper Andreas (Svezia, 2013).

Queer Award.

La Giuria, guidata da Max Croci e composta dagli studenti dello IED (Ludovica Drusi, Francesca Gallina e Giulio Rocca) e del DAMS di Torino (Davide Bertolino, Bianca Cassinelli e Edoardo Monteduro), assegna il Queer Award a:

Ich f ü hl mich Disco (I Feel Like Disco) di Alex Ranisch (Germania, 2013).

Con la seguente motivazione: «La Giuria si è innamorata di un film dallo stile fresco e personale, che evita le trappole della banalità rendendo verosimile il surreale».

Premio DAMS – Sguardi sul Festival.

La Giuria degli studenti del DAMS di Torino, composta da Davide Drochi, Ilaria Frare, Alessandra Madonia, Giacomo Mezzetti, Martina Ponsa, Federica Scarpa e Chiara Tamburini, assegna il Premio DAMS – Sguardi sul Festival a:

20 leugens, 4 ouders en een scharrelei (20 Lies, 4 Parents and a Little Egg) di Hanro Smitsman (Paesi Bassi, 2013).




LUNEDI 5 MAGGIO – FILM VISTI E RECENSITI DAL CRITICO SANDRO AVANZO

“DEL LADO DEL VERANO” di Antonia San Juan

“Del lado del verano” è un film spagnolo, girato e interpretato dalla straordinaria Antonia San Juan, attrice che potete ricordare nel ruolo di Agrado in “Tutto su mia madre” di Almodovar. Antonia è stata presente qui a Torino anche in anni passati sia con lugometraggi che cortometraggi. In questa circorstanza ha fatto davvero un’opera divertentissima e molto, molto personale. Lei, provenendo dalle isole Canarie, ha ambientao la vicenda in una delle piu belle città di queste isole, costruendo un film molto metropolitano, (Antonia ha vissuto anche a Madrid e Barcellona) e dimostrando di conoscere bene sia l’architettura e l’urbanistica ma anche la frenetica vita e il modo della gente di passare la giornata. Il film è un profluvio di parole, è un’esplosione, un vulcano, tutti parlano, tutti sono contro tutti, generando un grande casino, un casino che neanche Almodovar è mai riuscito a mettere in scena in modo così prorompente e impossibile da irregimentare. Un casino dove succede di tutto e di più. La vicenda inizia nel momento in cui un marito beone muore, la madre del morto ce l’ha con la nuora, la nuora ccon le tre figlie, cha a loro volta sono una contro l’altra, le sorelle contro le nipoti e queste contro le zie. L’altra metà della famiglia, quella paterna è altrettanto incasinata e piena di contraddizioni, sembra insomma di vedere una sorta di ‘parenti serpenti’ all’ennesima potenza. Che cosa c’è di gay e lesbico in tutto questo? Tutto e niente, nel senso che, per esempio, una sorella protegge il cugino che viene accusato di essere omosessuale, il marito di Antonia è bisessuale e ha una storia con un taxista. Messo di fronte alle sue responsabilità, quando gli viene chiesto “ma tu cosa vuoi davvero, andare con gli uomini o con le donne?”, risponde, cosa assai divertente, a me interessano le persone, al che la moglie ribatte: “ma nella pratica ti piace di più il cazzo o la figa?”. Sono situazioni molto divertenti, esplosive, è un turbinio assoluto e in tutto ciò c’è ovviamente un filo conduttore preciso che è la vicenda di una di queste figle che ha la possibilità di vincere un master in Australia. Questo personaggio femminile, interpretato da Antonia, è sicuramente il più positivo dell’intera sarabanda, riuscirà ad affermarsi professionalmente ed anche affettivamente sia dal punto di vista del rapporto personale con il suo uomo sia nei confronti della famiglia e dei cugini dai quali è circondata. E’ veramente un’esplosione, una forza della natura, un vulcano in eruzione, questa Antonia San Juan che abbiamo potuto ammirare anche sulla scena quando venne al teatro dell’Elfo con due magnifici spettacoli sulle donne che all’epoca entusiasmarono oltre ogni dire le platee. (Sandro Avanzo)

Giudizio artistico:

“THE DOG” di Allison Berg e Frank Keraudren

Tutti ci ricordiamo ovviamente di uno dei film che ha segnato la nostra vita, mi riferisco a “Quel pomeriggio di un giorno da cani” di Sidney Lumet con Al Pacino nel ruolo di un uomo che rapina una banca per poter finanziare il cambio di sesso della persona che ama. Questa vicenda è ispirata ad un fatto realmente accaduto e queso doc, “The Dog” è la storia vera del personaggio che sta alla base della vicenda del film di Lumet. E’ un personaggio particolare davvero molto strano, segnato profondamente dal fatto che dalla sua vicenda personale viene tratto un film così importante che ha vinto Oscar e che lo ha messo sotto i riflettori di tutto il mondo. Compagno tre o quattro volte di donne o uomini, ha avuto una vita molto travagliata. Il doc ricostruisce questa vita andando a ripescare molte interviste che questa persona, morta solo qualche anno fa, ha rilasciato nel corso della sua vita, interviste alla moglie, alla madre e ad altri personaggi che abbiamo potuto conoscere attraverso il film con Al Pacino. Intervista anche il compagno che grazie a quella rapina andata male, ma diventata poi un film, ha potuto essere pagato e realizzare l’operazione tanto desiderata e oggi è davvero una donna a tutti gli effetti. Il personaggio del rapinatore, soprannominato the dog, è una persona gelosissima, folle, attivista del movimento ma nello stesso tempo fuori da esso. E’ una persona che aveva un grande bisogno di essere riconosciuta e di dare amore a chiunque avesse intorno, una persona assolutamente anomala per quel che riguarda il suo ego, molto espanso ma nel medesimo tempo incapace di gestire quelle che erano le sue pulsioni positive. Si aggiunga che a livello economico è sempre stato un pessimo amministratore delle sue finanze e non solo, tanto da ridursi alla fine ad andare davanti all’edificio della banca ad elemosinare firmando autografi ai passanti ai quali diceva che era il protagonista della vicenda alla base del film. E’ un ritratto veramente a tre dimensioni quello di questo strano individuo, strano ma anche simpatico, vitale, accattivante, coinvolgente. Da tutto questo risulta chiaramente come e perchè sia stato capace di attivare un gran can can, anche a livello di stampa, quando negli anni ’70 le operazioni di cambio di sesso erano soltanto agli inizi e sembravano non interessare nessuno. Un doc assolutamente ben realizzato, di quelli in cui gli americani sono dei veri maestri.(Sandro Avanzo)

Giudizio artistico:

“THE CIRCLE” di Stefan Haupt

Parliamo di “The Circle”, film documentario già premiato da giuria e pubblico ai Teddy 2014 (ma siamo sicuri che collezionerà premi in tutto il mondo) che alla prima proiezione in questo festival torinese ha ottenuto una vera e propria ovazione da parte del pubblico in sala, con gente in piedi, tutta commossa, regalandoci una sensazione impossibile da dimenticare. All’euforia generale, oltre all’ottimo film, una storia interessantissima ed importante, hanno contribuito anche i due protagonisti della vicenda, presenti in sala, due anziani omosessuali svizzeri che vivono a Zurigo e che stanno insieme dal 1956 e che si sono uniti in matrimonio pochi anni fa come prima coppia gay a sposarsi in Svizzera. L’impronta politica del film travalica ogni valore artistico, che pure è di alto livello. Il film racconta la storia parellela di una situazione storica in Svizzera molto importante ed il privato delle persone che a questa storia hanno partecipato. “Il Circolo” era una rivista fondata da un gay scappato dai prodrom nazisti del 33 e rifugiatosi in Svizzera. La rivista da lui fondata divenne famosa in tutto il mondo, anche perchè bilingue, e negli anni ’40 e ’50 è stata un punto di riferimento di tutta la comuniytà gay internazionale. La rivista proponeva fotografie ed articoli, e fu in qualche modo l’embrione di quella che sarebbe poi diventata la comuniazione omosessuale a livello mondiale. Era una rivista rivolta prevalentemente ad un pubblico molto colto, agiato, che poteva trovarvi anche una para-pornografia con foto di modelli erotici che però non mostravano mai il lato A, il fronte, cosa che si poteva vedere solo quando l’immagine maschile nuda era quella di una statua o di un dipinto. Intorno a questa rivista si era creato un vero e proprio movimento. Si organizzavano anche feste, sempre a Zurigo, con tableux vivant, feste in cui gli omosessuali dell’epoca arrivavano persino dagli Stati Uniti e feste in cui c’era la possibilità d’incontrarsi e intessere relazioni. C’erano drag queen, cabarettisti, persone che andavano lì solo per dragare, per battere, insomma era un momento di aggregazione e riconoscimento reciproco. Il tutto era ben conosciuto dalla polizia che usava questi momenti per tenere monitorata la realtà omosessuale, svizzera, tedesca ed internazionale. Purtroppo, ad un certo momento, questo tipo di situazione idilliaca, diventata una sorta di mecca, di paradiso terrestre per gli omosessuali di quegli anni, viene rovinata dall’intromissione di gigolò, di marchettari che in qualche modo, anche attraverso ricatti, vanno ad inquinare questa felice situazione, arrivando a generare incidenti e perfino delitti. La polizia è quindi costretta ad intervenire con irruzioni nei locali delle feste, per reprimere e schedare, costringendo alla fine la rivista a chiudere. Nell’ambito di questa situazione s’incontrano un insegnante ed un cabarettista, che sono appunto i due protagonisti del film. Sullo schermo seguiamo una doppia storia, da un lato i due protagonisti nella loro vita reale e dall’altro quello che succede nel movimento. Abbiamo quindi una vera e propria docu-fiction, con un racconto che diventa sempre più concreto e una storia di vera epropria testimonianza. Il valore del film è primariamente socio-politico, non a caso, come dicevo prima, il pubblico si è entusiasmato oltre ogni limite, riscontrandone le assonanze che soprattutto oggi in Italia, ma anche in altri Paesi dove i diritti degli omosessuali sono negati o non riconosciuti, film come questo diventano di alto valore sociale e didattico. La coppia che abbiamo visto in scena e sul palco è una coppia meravigliosa: due anziani signori che si sono protetti reciprocamente, anche nei momenti in cui hanno avuto difficoltà, perchè è impossibile che in tanti anni di convivenza non ci siano delle crisi, che però sono sempre riusciti a superare e oggi, all’età di ottant’anni hanno potuto sposarsi. Il film anche se ha una costruzione cinematografica modesta ha un valore comunicativo altissimo che ci porta ad assegargli un giudizio complessivo (che non possiamo o vogliamo scindere) di 9/10.(Sandro Avanzo)

Giudizio complessivo:



VISTI DOMENICA 4 MAGGIO E RECENSITI DALLO SCRITTORE E CRITICO VINCENZO PATANE’
che oggi lunedì 5 maggio, alle 17, al Circolo dei Lettori di Torino (Palazzo Graneri della Roccia, Via Bogino 9), presenterà il suo libro “L’estate di un ghiro. Il mito di Lord Byron”, introdotto dallo scrittore Gianni Farinetti. Nella sua opera, Patané ricostruisce la figura del grande scrittore inglese attraverso le opere, i diari e le lettere, molte delle quali inedite in Italia.

“YE” di Zhou Hao

Quest’anno al ToGay ben quattro film – 3 coreani e uno cinese – hanno una “notte” nel titolo: notti bianche, leggere, frizzanti, fluttuanti…
Quello con una marcia in più, il più fresco, è però sicuramente “Ye” (la “notte”, appunto). È un film delizioso, girato da un bel ventunenne cinese, Zhou Hao, che ne è anche il protagonista, Tuberosa, che si prostituisce con successo in un vicolo. Le cose cambiano quando nello stesso vicolo si insedia una ragazza, Narciso. A complicare il discorso ci pensa poi Rosa, un ragazzo innamorato ma non ricambiato del protagonista, che, in una sorta di sfida densa di ripicca si mette in competizione con lui, vendendo anch’egli il suo corpo.
Tra i tre dunque si instaurano rapporti contorti, con mosse non sempre chiare e quindi spesso contraddette e contraddittorie, che però alla fine accontentano tutti. Tranne Tuberosa – è lui il vero narciso, che ama guardarsi e riguardarsi voluttuosamente davanti allo specchio e che ama soprattutto se stesso – che ha una visione fatalista e disincantata, per cui un lavoro vale l’altro e la vita è un tunnel che non ha importanza dove porti, l’importante è starci. Filosofia spicciola ma non per questo banale, in sostanza corazza con la quale difendersi dalle asperità dell’esistenza.
Tutto giocato sui fiori, a cominciare dai nomi dei protagonisti (ma quello della ragazza è l’unico vero, gli altri sono soprannomi), il film insiste significativamente sull’idea delle radici, sulla nascita, lo sviluppo, l’avvizzirsi, lo spezzarsi, il rinascere della vita umana, attraverso le varie esperienze.
Concepito in ambito universitario (cosicché i clienti sono tutti giovani…), “Ye” è ambientato, quasi teatralmente, in pochi posti, forse periferia di una grande città che forse non esiste. Bella la musica, con canzoni che accompagnano le metamorfosi narcisistiche del protagonista, bravi gli attori, intriganti le scene erotiche, splendida la fotografia sgranata e trasognata, che sembra trasformare tutto in un apologo.
Insomma, un bell’inizio per un regista che sembra rievocare, come è stato ricordato, Genet e Wong Kar-wai, ma anche le atmosfere rareffate e intense del cinema di Tsai Ming-liang. E complimenti al Festival che in “Forever Young” sa catturare con lungimiranza queste primizie. (Vincenzo Patanè)

Giudizio artistico:

“FLOATING SKYSCRAPERS” di Tomasz Wasilewski

Inutile, anzi irritante. Il film polacco “Plynace wiezowce” (“Floating Skyscrapers”), diretto da Tomasz Wasilewski, racconta una storia vista tante altre volte: un giovane prestante, Kuba, vive con la madre dalla forte personalità e Sylwia, la fidanzata. Sfortunato sul versante lavoro, Kuba gioca le sue carte sul nuoto, dove mostra di avere sicuro talento. La comparsa nella sua vita di Mikal, elegante e benestante, gli sconquassa però i valori fino ad allora faticosamente conquistati. Kuba si innamora, ricambiato, alla follia di Mikal, in un vortice di passione che porterà a un finale devastante.
Ovviamente non è detto che i film debbano per forza avere un happy end, anzi, ma stavolta è proprio il trionfo dei luoghi comuni, tipici di un paese evidentemente ancora troppo legato alla religione. Ne risulta un messaggio fastidioso. Come se non bastasse, la regia è piatta, anche se vuole darsi un tono attraverso silenzi ponderati (che vorrebbero essere profondi), soggettive, oppure con la macchina da presa che segue i protagonisti alla ricerca di chissà che cosa. (Vincenzo Patanè)

Giudizio artistico:

“YO SOY LA FELICITAD DE ESTE MUNDO” di Julián Hernàndez

Il messicano Julián Hernàndez – già vincitore a Torino e a Berlino – è indubbiamente uno dei pochi poeti del cinema attuale. I suoi film rievocano un rapporto particolare di profonda affinitá con la natura, di un pungente desiderio erotico che diventa quasi panico, contagiando tutto ciò che ci circonda.
Negli anni Hernández è però cambiato, come si può vedere dal suo quarto film, l’ultimo: “Yo soy la felicitad de este mundo” (“I am Happiness on Earth”). Film complicato per il pubblico medio che si trova sperduto tra immagini splendide, frasi poetiche ma sfilacciate e una narrazione non sempre lineare. La vicenda è divisa in tre tranche, solo marginalmente collegate. Nella prima c’è la storia fra il giovane regista Emiliano (il protagonista del film, che altro non è forse se non un insieme di sue elucubrazioni…) e il ballerino Octavio, bellissimo e bravissimo, che termina con lo strazio del ragazzo quando viene abbandonato; poi c’è una storia erotica fra due giovani e una ragazza e infine di nuovo Emiliano alle prese con una marchetta, con la quale nasce un rapporto particolare.
Molti i nudi degli splendidi ragazzi, ripresi con straordinaria efficacia, e numerose le scene erotiche, anche femminili. In compenso, forte è il senso di spaesamento dei rapporti umani, nella ricerca, caratterizzata dal leit motiv della “falsitá” più volte presente, delle dinamiche che li disgregano le relazioni.
Il film dá però l’impressione di girare a vuoto, perché stavolta le belle scene, caratterizzate spesso da canzoni (fra cui quella che dà il titolo al film), peraltro cantate male, non riescono ad ammaliare il pubblico. Anche se, in fin dei conti, l’unico consiglio da dare allo spettatore è proprio questo: immergersi totalmente in ciò che vede, in un’atmosfera unica, in cui realtà, pensiero, sogno si mischiano poeticamente. (Vincenzo Patanè)

Giudizio artistico:



Nel pomeriggio di Sabato 3 maggio in Sala 2, nell’ambito del Focus Chilometro Zero, abbiamo potuto assistere alla visione di una serie di corti italiani molto diversi tra di loro per contenuto e qualità.
Quello che ci è piaciuto di più è stato Gli Uraniani di Gianni Gatti.

“GLI URANIANI” di Gianni Gatti

Una nota attrice degli anni ’30 (Sandra Ceccarelli), passa un periodo di vacanza in una spiaggia deserta accompagnata dalla sua giovane dama di compagnia. Lei vuole rimanere lontano da sguardi indiscreti, ma l’arrivo di un pittore omosessuale (Pippo Delbono) molto meno cauto e discreto di lei, la costringe a fare luce sulla vera natura del sentimento che la lega alla sua compagna.
Erano presenti in sala il regista Gianni Gatti, lo sceneggiatore Antonio Cecchi e i due interpreti principali, Sandra Ceccarelli e Pippo Del Bono.
Il regista Gianni Gatti – “Questo è il primo episodio di un film lungometraggio, che ha l’ambizione di raccontare gli omosessuali con vari linguaggi del cinema a seconda dell’epoca raccontata. Questo cortometraggio si svolge alla fine degli anni venti e lo abbiamo voluto raccontare con il linguaggio di quel periodo. Non essendo un vero corto, ma il primo episodio di un film, non ha le caratteristiche tipiche di un cortometraggio, insomma è un po’ più disteso, non ha le furberie di un cortometraggio. Nonostante questo spero che vi piaccia.
Sandra Ceccarelli – “Mi è piaciuto moltissimo lavorare in costume, proprio nel vero senso della parola, perché si svolge su di una spiaggia. Ho fatto parecchi film in costume ma mai ambientati ai primi del novecento, ed è stato bellissimo, perché ci sono delle cose che hanno influito sulla nostra recitazione, sul nostro modo di essere per poi invece trattare un tema che è attualissimo“.
Pippo Del Bono – “Un mio ricordo di questo corto è che io fino all’ultimo non sapevo se farlo, perché come al solito io ho sempre un sacco di impegni. Come attore mi hanno sempre chiesto di fare il vero maschio, non so’ come mai, ed era la prima volta che mi chiedevano di fare un gay … molto interessante. Mi era appena morta mia madre tra l’altro. Secondo me ci sono delle letture psicanalitiche. Il film è iniziato in un periodo stranissimo della mia vita, cioè perdo mia madre e dopo cinque giorni ho detto: vado! Non ne avevo nessuna voglia, per dire la verità, l’ultima cosa che avrei fatto è questo film e invece sono venuto”. (RM)

Giudizio artistico :

“SONO UGUALI IN VACANZA” di Peter Marcias

L’altro film protagonista del pomeriggio è’ stato “Sono uguali in vacanza”, l’ultimo corto di Peter Marcias, che purtroppo non ha potuto essere presente in sala. Il tran tran della vita di due anziani coniugi, in un paese sul mare in Sardegna, viene alterato dalla scoperta che loro figlio ha un segreto: ama un altro uomo. Questo spinge il padre a svelare a sua moglie il suo segreto di Pulcinella: va a pescare tutti i giorni, ma il pesce lo compra in pescheria. Film divertente e ben recitato. (RM)

Giudizio artistico :

Fabio Bo, ha voluto ricordare Stefano Campagna un amico e collega giornalista del TG! Morto a soli 51 anni. Quindi ha presentato gli altri registi dei corti presenti in sala.
Enzo Monaco che ha portato il trailer del suo documentario ‘Ci chiamamo tutti diversi‘, realizzato da solo e finanziato da Produzioni dal basso, in cui l’autore ha voluto raccontare la differenza di trattamento tra eterosessuali e omosessuali.
Giuseppe Bucci regista di ‘Luigi e Vincenzo‘, corto ormai molto conosciuto e premiato, proiettato oggi in contemporanea anche a Parigi e Miami.
Vieri Brini regista di ‘Ufficio nuovi diritti‘ mini documentario realizzato assieme a Irene Dionisio, che fa parte di un progetto sulla Cultura di parità che si chiama ‘Identità e diversità’, finanziato dalla Comunità Europea tramite un bando sulla cultura di genere. Il documentario vuole dare uno spaccato un po’ più positivo rispetto a quanto emerge di solito quando si parla di questioni LGBT, orientamento sessuale e diversità.

“TELEOLOGIA PROMISCUA” di Paolo Ferrarini

Ha infine salutato il pubblico il regista e musicista Paolo Ferrarini, ormai presenza fissa del Festival con suoi lavori che negli anni diventano sempre più maturi sia nella tecnica cinematografica che nella sceneggiatura, oggi presente con il suo ultimo video musicale ‘Teologia promiscua’. Trattandosi di un lavoro vicino alla video arte lasciamo volentieri alle parole del regista il compito di spiegare la sua opera.
Paolo Ferrarini – “volevo ringraziare il Festival per aver ospitato un mio video clip per il terzo anno consecutivo, è il sesto proiettato alla rassegna dal 2012. Teleologia Promiscua, è il video più filosoficamente complesso e ambizioso che ho realizzato finora, che accompagna l’omonima canzone tratta dal mio disco Prolegomeni. Vorrei qui dare solo una veloce chiave di lettura per spiegare il senso di che cos’è Teleologia Promiscua, in modo da capire di cosa parla il video. Si tratta di una funzione cognitiva del cervello che fa vedere scopi e funzioni nella realtà anche dove non esistono. E’ una cosa che inizia da bambini, ma che viene coltivata anche da adulti soprattutto in certi ambiti, come quello della superstizione e della religione. Ho voluto ritrarre questo aspetto, da una parte con riti e rituali che si trovano in giro per il mondo e poi invece con una storia che ho creato, di cui loro sono i protagonisti: Nicolò Cristini e Eleonora Zambelli (nipote del regista)”. (RM)

Giudizio artistico :

“ROSIE” di Marcel Gisler

Delizioso film dello svizzero Marcel Gisler che vogliamo credere ricco di spunti autobiografici, tanto bene tratteggia la crisi di un affermato scrittore omosessuale ormai vicino ai cinquanta. Il catalizzatore di tutto quello che avviene nel film è l’anziana mamma Rosie (una superlativa ed esilarante Sibylle Brunner) giunta ormai ad un’età che le impedisce di essere autosufficiente e quindi di poter vivere da sola. Il figlio Lorenz (Fabian Kruger) che vive a Berlino e la figlia Sophie (Judith Hofmann) devono quindi prendere una decisione sul futuro della madre. Pian piano scopriamo le amarezze esistenziali di tutti, il difficile matrimonio di Sophie, sempre sull’orlo del fallimento, e soprattutto l’isoddisfacente vita di Lorenz che non ha ancora trovato un compagno fisso, preferendo le meno coinvolgenti avventure di sesso mordi e fuggi. Lorenz è uno scrittore gay che scrive romanzi di successo, sempre con personaggi e storie gay. Interessante quando durante un’intervista dove gli chiedono se gli dispiaccia di essere definito un autore omosessuale, lui risponde assolutamente no, che semmai gli dispiace che non venga usata l’etichetta di autore etero per gli altri. Quando Lorenz arriva a casa della madre, della quale sembra il figlio preferito, assistiamo subito all’incontro col giovanissimo Mario (Sebastian Ledesma) un ragazzo da sempre infatuato di Lorenz e del quale ha letto e conserva tutti i romanzi. Una bellissima scena di sesso con Mario felicemente sodomizzato, ci fa sperare nell’inizio di una bella storia d’amore, ma la differenza di età e soprattutto la paura di un legame fisso bloccano Lorenz che tenta in tutti i modi di allontanare Mario. Quasi commovente l’insistenza di Mario, decisissimo a conquistare Lorenz, anche attraverso l’aiuto della madre Rosie. Mentre tutti i personaggi che circondano Rosie sono infelici e insoddisfatti, per una ragione o per l’altra, Rosie, la persona realmente e maggiormente in pericolo, è l’unica ad essere ancora capace di uno sguardo distaccato e quasi scanzonato della vita, nonostante le durissime prove che ha dovuto superare (scopriremo diversi segreti del suo passato matrimoniale). Non possiamo dirvi come si concludono le diverse storie, quella di Rosie che rifiuta una badante e ancora di più il ricovero, quella di Lorenz che scopre (finalmente) che gli incontri occasionali non possono più soddisfarlo, quella di Mario che sta prendendo la decisione di abbandonare tutti e andare via, quella di Sophie che ad un certo punto caccia il marito da casa, ecc. Purtroppo, lasciatecelo dire, la persona che più di tutti offre un’indiretto aiuto a ciascuno, sarà quella meno ripagata. Un’opera matura, precisa nel tratteggio dei personaggi, con una sceneggiatura articolata (ottima la scelta delle transizioni da un episodio all’altro che utilizza la corsa sulle strade tra i bellissimi panorami della Svizzera orientale), una meticolosa ambientazione e bravissimi protagonisti (giustamente premiati). (GM)

Giudizio artistico:

“THE WAY HE LOOKS” di Daniel Ribeiro

Colpisce che un regista così giovane sia riuscito a realizzare un film così accattivante. Applausi infiniti dal pubblico che non poteva rimanere estraneo alla storia di un adolescente handicappato, in questo caso cieco dalla nascita, che si ritrova innamorato di un compagno di classe. Il regista ha detto che gli interessava soprattutto mostrare la scoperta della sessualità e che non ci sarebbe stato nulla di più efficace che mostrare un non vedente, una persona che non può vedere nè il corpo di una donna nè quella di un uomo, e che si trova naturalmente ed istintivamente innamorato di una precisa persona. Nel film, nonostante qualche episodio d’infantile bullismo, tutto sembra facile e semplice. Leo, ragazzo quindicenne cieco, gode dell’amicizia di una compagna di classe, Giovana, che lo accompagna ovunque e, un po’ meno, dell’assilante controllo dei genitori sempre in panico per lui. Quando arriva un nuovo compagno di classe, Gabriel, tutto viene sconvolto. Giovana e Leo s’innamorano entrambi di Gabriel. Ma Gabriel è omosessuale velato, rifiuta il bacio di una ragazza, non si accorge della corte di Giovana e si eccita quando vede Leo nudo. Leo pensa solo a Gabriel e si masturba nella solitudine della sua cameretta accarezzando il di lui maglione. Naturalmente è proibito approfittarsi sessualmente di un handicappato, e ancora più difficile per cieco catturare la sua ambita preda, così dobbiamo attendere parecchio prima del bacio risolutore. Apprezzata dal pubblico anche la delicatezza con cui la sceneggiatura affronta il coming out in famiglia. Il regista ha detto che ha preferito lasciarlo più intuire che mostrare, così dobbiamo accontentarci di un sorrisetto della nonna all’arrivo dell’amico Gabriel in casa sua, e della raffinatezza con cui la madre di Leo gli parla del suo futuro, senza nominare mai la parola ragazza o ragazzo coi quali potrà formare una famiglia ed avere dei figli (dice magari adottivi). Sicuramente un punto a favore del film, che può vantarsi del premio Teddy alla Berlinale 2014, un premio senz’altro condiviso dai gay di tutto il mondo, esaltati dalla pregnante ed inattesa (si fa per dire) scenetta finale. (GM)

Giudizio artistico:

“SNAILS IN THE RAIN” di Yariv Mozer

Ottima scelta dei programmatori del Festival la riproposta di questo film israeliano che purtroppo, nonostante sia stato proiettato nella sala grande del cinema Massimo, ricolma di pubblico, questo non gli abbia attribuito nemmeno un unico applauso. La spiegazione è tutta nel finale del film che non è quello atteso dallo spettatore gay, desideroso di sentirsi liberato ed appoggiato nelle giuste scelte di visibilità ed accettazione.
Il film affronta in modo originale e quasi spietato la tematica dell’omofobia interiorizzata, spesso più difficile da vincere di quella esterna. Siamo nel 1989 a Tel Aviv. Il protagonista del film è Boaz (interpreto dallo splendido modello Armani, Yoav Reuveni), uno studente universitario talmente bello da far girare la testa a chiunque gli passi vicino. Vive con la fidanzata Noa, innamoratissima, e riceve spesso le visite della madre ansiosa di vederlo sposato (come se temesse qualche sorpresa). Mentre ogni giorno si reca all’ufficio postale in attesa di una risposta per l’ammissione ad un master a Gerusalemme, trova invece la lettera anonima di una persona, un uomo, che gli dichiara tutto il suo amore. Iniziano per Boaz momenti difficili. Riaffiorano ricordi di una omosessualità sperimentata nel suo passato (sia nell’esercito che fuori), con storie che gli avevano regalato momenti di grande felicità. Storie che poi ha voluto dimenticare scegliendo una vita da normale eterosessuale. Ma adesso, grazie a quelle lettere che continuano ad arrivargli, tutto viene rimesso in discussione. Riprende a guardare gli uomini (stuzzicanti le ripetute scene negli spogliatoi e nelle docce dove tutti sembrano corteggiarlo) con la speranza di trovare l’uomo delle lettere. Chiaramente Boaz è un omosessuale represso, ma il desiderio è la cosa più difficile da reprimere, e adesso sembra riaffiorare in ogni momento, perfino con la fidanzata che viene da lui brutalmente presa da dietro, fino a portarlo (o riportarlo) nel parco di battuage di Tel Aviv dove si fa spompinare con massimo godimento seguito da istintivo e violento rimorso. Poche volte abbiamo visto al cinema rappresentata così bene la disperata lotta interiore tra una tensione omosessuale e la paura, o meglio il terrore, di assecondarla. Ma non tutti hanno la forza di seguire la propria natura, soprattutto quando vuoi inserirti in un contesto sociale che ti vuole completamente integrato ed omologato. Anche se in questo film, meritoriamente, ci si concentra più sulle difficoltà psicologiche individuali che collettive, quest’ultime rappresentate quasi esclusivamente dall’impegno della fidanzata, che ha capito tutto, e non vuole perdere il suo Boaz. Un film stuzzicante sotto diversi punti di vista, che meriterebbe attenzione anche dal circuito commerciale. (GM)

Giudizio artistico:


VISTI AL TGLFF VENERDI 2 MAGGIO

Nel pomeriggio di venerdì 2 maggio all’interno del Focus Chilometro zero, abbiamo visto due documentari italiani molto diversi tra loro dedicati alle persone travestite e transessuali.

LEI E’ MIO MARITO di Gloria Aura Bartolini e Annamaria Gallone

“Lei è mio marito” (She is My Husband) di Gloria Aura Bartolini, Annamaria Gallone, è un classico film biografico che documenta la trasformazione del protagonista da un sesso ad un altro. In questo caso seguiamo la storia di Alessandro, un avvocato di Conegliano Veneto che dopo aver passato gran parte della sua vita in abiti maschili, decide di fare il grande passo: prima il coming out in abiti femminili e poi l’operazione. Tutto questo senza interrompere il legame con la sua compagna, diventata recentemente sua moglie. Un merito innegabile di questo lavoro è la sincerità: mentre il/la protagonista è sempre giustamente orgoglioso/a di essere riuscito/a a realizzare il suo sogno, le testimonianze della moglie e dei familiari ci arrivano non filtrate e trasmettono un genuino senso di perplessità e preoccupazione. (RM)

THE DEVIL’S HAIRCUT di Marco Gatti

Il secondo documentario ‘The Devil’s Haircut’ del regista torinese Marco Gatti, aveva come protagonisti alcuni giovanissimi prostituti, travestiti o transessuali di Bangok, i ladyboys, intervistati dal regista tramite un Iphone. Si tratta di un film che in un primo momento può anche irritare per la scarsa qualità di alcune scene e soprattutto per la pochezza dei contenuti delle interviste a questi ragazzi. Proseguendo nella visione ci si rende però purtroppo conto che in effetti questo vuoto di contenuti è una rappresentazione veritiera della realtà ed è di per sé una denuncia. (RM)

Di seguito l’intervento dell’autore.


Angelo Acerbi con Marco Gatti

Marco Gatti : The Devil’s Haircut è un video realizzato con una certa libertà e una dose di istinto all’interno dell’ambiente dei locali notturni e dei bar di Bankok, locali che sono ormai sempre più in mano a queste figure misteriose e strane che sono i ladyboys. In sostanza è un lavoro che cerca di sfruttare le potenzialità dell’Iphone. Da che ho l’Iphone, e non è tantissimo, sono rimasto colpito dalla qualità e dalle potenzialità di manegevolezza dello strumento. Ero interessato a raccontare questi personaggi che vivono in una dimensione di immaginario sfrenato, nel senso che fanno della loro vita una messa in scena continua e radicale e quindi parliamo di ossessioni legate alla musica, alle immagini e in generale a tutto ciò che è superfice e corpo. Io ho cercato semplicemente di indagare questo ambiente e di creare una serie di ritratti con un tocco il più possibile leggero di queste figure. Aggiungo, che questo non è un documentario che ha una pretesa sociale, anche per il fatto che vengono raccontate tutte figure che fanno le prostitute e i transessuali in Tailandia non fanno tutti le prostitute ma sono la maggioranza. Mi interessava anche questa relazione tra il transessualismo e la prostituzione, che è una cosa in continua crescita. Mi incuriosiva ed è un po’ un’indagine di un aspetto misterioso dell’immaginario sessuale che riguarda soprattutto gli uomini occidentali.
Sono riuscito a convincere questi ladyboys ad esporsi con me, passando del tempo con loro nei luoghi dove vivono e lavorano. Con alcune ho anche instaurato dei apporti di amicizia. Di fatto però il meccanismo è che sono tutte quante pagate: io proponevo una piccola cifra per fare l’intervista, perché assolutamente non fanno niente gratis. Con i soldi guadagnati alcune vogliono operarsi, però la maggioranza spendono un sacco di soldi per cose costosissime, scarpe e vestiti firmati che fanno arrivare dall’Europa. Alcune mandano anche i soldi alla famiglia, perché tutte le ragazze che lavorano nei locali di Bankok, non solo i ladyboys, spesso provengono dalle campagne, da famiglie non ricche, però sinceramente io ho non avuto la sensazione di problemi grossi di miseria; c’è una scelta di vita di alti guadagni. Vivono in una dimensione di fiction continua , in un’illusione se vuoi neanche così brutta, nel loro ambiente sono anche abbastanza felici tra di loro, poi la Tailandia è anche il posto ideale per fare indagini di questo tipo, perché sono delle comunità visibili, scoperte e, come si vede nel finale del video, c’è sempre la possibilità di tornare in campagna nel loro paese dove sono accettate, anche perché fin da piccoli iniziano da lì spesso questo tipo di percorso. Riguardo al modo di entrare in contatto con loro, mi piaceva che il meccanismo del video rispecchiasse il modo di relazionarsi con loro.
Il materiale è stato montato in due tranches, la prima di un mese che avevo passato in Tailandia, poi ho iniziato a montare il materiale e sulla base di quello ho deciso come andare a completare il resto. Poi sono tornato e ho cercato di completare il grosso per circa quattro mesi, cercando di avere sempre presente degli spazi e degli oggetti in particolare, come gli specchi, e chiaramente i capelli che sono un po’ l’oggetto simbolo di loro; c’è questa cosa curiosa dei tailandesi, per cui se hai i capelli lunghi sei una donna se hai i capelli corti sei un uomo. Anche il titolo cerca un po’ di evocare questa cosa dei capelli. Nel titolo si parla poi del diavolo, simbolizzato anche come ermafrodita. Il diavolo è il numero uno dei ribelli e queste figure sono molto ribelli, vivono una vita sfrenata, libera, per i fatti loro e anche un po’ inquietante e in realtà forse non tanto libera, un’ossessione della libertà che poi si ritorce su se stessa.
Nel film non ho tradotto le parti parlate in thai perché io comunque lì non capivo quello che dicevano e mi andava proprio di non nascondere il mio punto di vista, perché è tutto filtrato chiaramente attraverso un occhio occidentale, io non capivo le loro parole e il fatto che sembrino cosi aliene mi andava bene così.
Poi ho riportato nei sottotitoli esattamente le loro parole pronunciate in inglese, oltre che per motivi di comprensione, anche perché c’è un po’ questa sorta di parole che sono ripetute a mantra, questa forma a slogan, molto naif, di nominare le cantanti, le cose e io volevo che fossero anche rese visibili queste cose molto semplici che loro dicono. Loro vivono solo nel presente, non c’è riflessività, non c’è analisi.
Ho utilizzato l’iphone anche perché con un altro mezzo sarebbe stato molto più complicato, perché in questi ambienti non puoi entrare con delle telecamere; devi stare molto attento a non riprendere i clienti perchè rischi di essere aggredito. Oltre al fatto che si è trattato di una cosa senza budget, con una telecamera sarebbe stato tutto più complesso, perché quando punti un obiettivo in faccia a qualcuno già incidi sulla realtà. Ho voluto metterli a loro agio e lo smartphone ormai è un protagonista di questi ambienti, e si pone nella stessa lunghezza d’onda. (trascrizione di R. Mariella)

“UNA FAMIGLIA GAY” di Maximiliano Pelosi

Un docufilm intelligente e furbetto, più film che doc, utilissimo per comprendere il significato del matrimonio gay appena legalizzato in Argentina, ma non solamente. Il film ci mostra la vita di coppia del regista Maximiliano Pelosi e del suo compagno David, anche nei momenti più intimi (la scena, un po’ gratuita, del sesso a tre è quasi hard), ma soprattutto impegnata a verificare la possibilità o meno di sposarsi usufruendo dell’equiparazione legale tra matrimoni etero e gay. Inizia così un’indagine che coinvolge parenti, coppie gay e lesbo già sposate, personalità laiche ed ecclesiali, militanti del movimento gay, istituzioni pubbliche, ecc. dove tutti hanno qualcosa di interessante da dire o testimoniare sulla problematica del matrimonio gay. Molto interessante la storia, raccontata da una coppia di militanti gay, del percorso che ha portato all’ottenimento dal Parlamento argentino dell’attuale legge paritaria. A metà percorso erano nate divisioni anche all’interno del movimento, poi fortunatamente superate, soprattutto quando una parte voleva un matrimonio che avesse peculiarità diverse, magari più liberale, ad esempio senza l’obbligo della fedeltà o dello stesso domicilio. Abbiamo anche momenti commoventi come quando assistiamo quasi per intero alla celebrazione del matrimonio tra una coppia di gay che già convivono da otto anni e sono ancora innamoratissimi (gli abbracci dei genitori ai neo-sposi strappano le lacrime) oppure alla festa per l’anniversario dei due protagonisti, o l’incontro con la coppia lesbica ed il loro bambino che bacia teneramente il suo pupazzetto. Alla fine sembra di aver visto non un doc ma un bel racconto sulla vita privata e sociale di una affiatata coppia gay, sensibile alle problematiche del matrimonio e dell’adozione, desiderosa soprattutto di aiutare lo spettatore a comprendere meglio e approfondire le tematiche sull’amore gay, sulla parità dei diritti, sul significato del matrimonio e di come questo possa o meno cambiare la vita di due persone che si amano. Non possiamo naturalmente dirvi la scelta che i nostri due eroi compiranno alla fine del film dopo la loro lunga e proficua indagine socio-sessual-sentimentale. (GM)

Giudizio artistico:

“LA PARTIDA” di Antonio Hens

Fino ad oggi è il più probabile candidato al premio del miglior film, sicuramente quello preferito dal numeroso pubblico del Festival (per tutti quelli che abbiamo intervistato era il film preferito). Il film è ambientato nelle zone povere dell’Avana (ma è stato girato a Puerto Rico) di oggi e ci racconta con molto realismo la storia di due giovani cubani (uno più carino dell’altro), amici nella vita e compagni di gioco su campi di calcio amatoriali, in lotta per la sopravvivenza quotidiana. Uno, Rey (Reinier Diaz), è sposato, ha un figlio piccolissimo e vivono in una povera abitazione insieme alla madre. Rey non ha un lavoro ma riesce a portare a casa qualche soldo andando a prostituirsi coi turisti stranieri, cosa, cioè lavoro, approvato (per non dire forzato) sia dalla moglie che dalla madre. Una situazione completamente inedita nel cinema queer, testimonianza del degrado economico e spirituale di una società, quella cubana, stretta ancora oggi in una morsa di povertà e contraddizioni. Gli omosessuali, chiamati froci (maricon), sono disprezzati ma in fondo compresi e quasi giustificati, come fossero parte integrante della miseria che li circonda. Sorprende quando anche la fidanzata di Yosvani (un fantastico Milton Garcia), Gema (Beatriz Mendez) si ribella al padre che ha cacciato il suo ragazzo perchè frocio e lo rivuole a casa, fregandosene del fatto che sia gay (in qualche modo riusciva sempre ad eccitarlo). Il ritratto di Yosvani è quello a noi più vicino, è il primo a riconoscere ed accettare la propria omosessualità, a capire che la sua felicità dipende dalla realizzazione del proprio amore per Rey, e a capire che c’è una sola possibilità, quella della fuga verso una vera libertà. E’ la forza del suo amore che pian piano riesce a liberare, ma non del tutto, anche Rey che vorrebbe invece continuare nella falsa convinzione di non essere gay (dice a tutti così). Interessante il ritratto della prostituzione che ci offre il film attraverso questo personaggio, che vediamo frequentare assiduamente l’affollatissimo marciapiede dove le marchette cubane (ma di qualsiasi origine) si offrono ai turisti in una dura concorrenza. Seguiamo da vicino l’incontro di Rey con il turista Juan (Toni Canto), un bell’uomo in vacanza, che oltre al sesso, sembra offrire anche sentimento (bellissima la scena in cui li vediamo, dopo un amplesso, appoggiarsi docemente sul letto uno sull’altro). Ma per Rey è soprattutto una questione di sopravvivenza, cioè di denaro. Quando finalmente i due ragazzi, Yosvani e Rey, riescono a scopare ed a trovare un rifugio tutto per loro (la terrazza di un alto edificio che domina la città), li vediamo per la prima volta felici, rincorrersi nudi e giocare, finalmente liberi da tutto e unici padroni di sessi. Hanno acquisito la consapevolezza di quello che sono e di quello che vogliono. Li attende una difficile lotta contro tutto e tutti… Un bel film, che non arriva al capolavoro perchè concentrato su troppe direzioni (l’omosessualità segreta, l’oppressione famigliare, la prostituzione, le aspirazioni calcistiche, ecc.) che tolgono unità all’insieme ma offrono comunque un variegato quadro ambientale ed esistenziale. (GM)

Giudizio artistico:

“SOMETHING MUST BREAK” di Ester Martin Bergsmark

Storia di un percorso intimo, in pratica del viaggio da uomo a donna, di un’affascinate e androgino Sebastian (Saga Becker), in lotta con la propria identità e con il colpo di fulmine provocato dall’incontro con l’altrettanto affascinante Andreas (Iggy Malmborg), macho quanto basta per irretirla. Si sono incontrati in un bagno pubblico dove Sebastian aveva sbagliato preda provocando un’aggrssione omofoba e poi soccorso da Andreas che pure riceve un pugno in faccia. Per Sebastian è amore a prima vista (bacia il fazzoletto sporco del sangue di Andreas), che sembra inizialmente ricambiato in un rapporto sessuale dove Andreas gode di un rapporto non propriamente etero (un ditalino), nonostante ci tenga a precisare che lui non è gay (sorprendendo Sebastian e il pubblico). Al ritratto di Sebastian e del suo cammino verso Ellie, la regia ci propone in parallelo quello di Andreas, non risultando però altrettanto efficace e comprensibile. Cos’è veramente Andreas? Un bisessuale? Un omosessuale represso? Un etero indeciso? Dice di amare Sebastian ma cade in profonda crisi (e pianto) quando Sebastian gli dice di voler cambiare nome preferendo il femminile Ellie. Sebastian lo incontra in un locale in compagnia di una coppia etero e di un bell’uomo, come fossero due coppie, e l’amico di Andreas tenta pure un approccio con Sebastian (nel bagno). Sembrerebbe che Andreas è un gay che non riesce ad accettarsi, però sta con un amico che, almeno per Sebastian, sembra il suo compagno (e per questo riceverà una bottigliata in testa da Sebastian-Ellies). Il ritratto di Sebastian, il suo dolore per l’amore che non riceve, la lotta interiore ed esteriore per realizzarsi come donna, sono spiegate molto bene, anche grazia alla superba interpretazione dell’attore, mentre, come dicevamo, la figura di Andreas, la sua identità, i suoi controversi sentimenti verso Sebastian (a parole dice ti amo ma nei fatti l’abbandona) risultano ambigui fino alla fine del film, lasciandogli addosso un alone di ambiguità, che alcuni potrebbero leggere come qualcosa di misterioso che contribuisce al fascino del film. In definitiva un esordio di tutto rispetto, programmato in grandi festival come Rotterdam e Tribeca. (GM)

VIDEO DEL REGISTA LEESONG HEE-IL CHE PARLA DELLA SUA TRILOGIA ALL’INTERNO DEL FOCUS DEDICATOGLI DAL FESTIVAL

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