Viene pubblicizzato come il film di Natale, di un Natale intelligente, divertente e riflessivo nello stesso tempo, capace di commuovere e coinvolgere un vastissimo pubblico. Tutto vero. Noi, che avevamo letto il libro “The lost Child of Philomena Lee” di Martin Sixsmith (ora pubblicato col titolo del film da Piemme Edizioni), siamo rimasti leggermente delusi. Non per le qualità del film, ottime soprattutto per l’equilibrio tra provocazione e sottile ironia, e soprattutto per le interpretazioni da Oscar dei due protagonisti. Delusi solo perchè al centro della vicenda non c’è più la storia, anno per anno, di un orfano catapultato da un convento di suore, dove ha vissuto i suoi primi tre anni di vita, nella ricca e conservatrice classe media americana, dove viene adottato da una famiglia che ha già tre figli, con padre autoritario e madre succube ma amorevole.
Anthony, che diventa Michael, è un bambino dolce e sensibile, che deve sopportare il peso di tante diversità. Peccato che il film lo abbandoni appena arriva in America e ce lo faccia ritrovare solo molti anni dopo, grazie all’accanimento di una madre che non ha smesso di amarlo per tutta una vita (ma non abbastanza, tanto da decidersi a cercarlo solo dopo 50 anni). Nel libro, che vi consigliamo di leggere dopo aver visto il film, potete seguire dettagliatamente tutta la vita di Anthony, dalla sua fanciullezza, con l’istintivo bisogno di essere amato senza essere più abbandonato, l’adolescenza coi primi turbamenti sessuali, le reazioni del suo assistente spirituale quando gli confessa che crede di amare gli uomini più delle donne, con una pesantissima critica alla Chiesa (il film avrebbe dovuto calcare troppo sull’anticlericalismo), le cure che in quegli anni venivano adottate per raddrizzare l’orientamento sessuale, la scoperta del sesso occasionale (vissuto come una liberazione), e, nella maturità, l’incontro con l’amore vero e la possibilità di una vita normale, ecc.
Tutto questo nel film, dicevamo, non c’è. Anche se la storia, nel suo complesso, viene rispettata. La sceneggiatura, scritta a due mani da Stephen Frears e dal protagonista maschile Steve Coogan, che interpreta il giornalista Martin, sfrutta la complicità e gli inevitabili contrasti, spesso esilaranti, tra un’anziana madre (una indimenticabile Judi Dench), semplice e diretta, autenticamente cristiana e appassionata dei romanzetti rosa stile Liala e un giornalista colto (Steve Coogan), laico e civilmente impegnato. Tra tante cose che li dividono ce n’è una che sorprendentemente li unisce: il giudizio positivo che entrambi hanno dell’omosessualità. Quasi una sorpresa scoprirlo in una donna così religiosa e così legata alla tradizione, tanto da aver perdonato tutti i soprusi che ha dovuto subire in un convento che sfruttava, complice una legislazione troppo ossequiosa, le adozioni transcontinentali dei figli naturali di ragazze-madri che venivano esposte al pubblico ludibrio per il loro ‘peccato’. Philomena, la madre, riesce, senza troppa cultura, a separare molto bene il ‘peccato’ dal ‘peccatore’. Andando oltre, fino a mettere in dubbio lo stesso ‘peccato’, a partire da quello suo, quando ha ceduto alle avance di un sconosciuto (“mi sono sentita in paradiso”), fino alla scoperta del figlio come omosessuale (“era così sensibile”) che non intacca minimamente il suo amore materno.
Anche se il film non ci ha raccontato la vita gay di Anthony, la seconda parte del film è tutta giocata sul tema dell’omosessualità. La sorpresa del giornalista (e dello spettatore) che teme la reazione della madre, la scoperta della felice vita privata di Anthony col suo fidanzato (diversa da quella pubblica in quanto impegnato col partito repubblicano), e soprattutto l’emergere di una persona assolutamente positiva… Il messaggio del film è chiaro, senza essere mai didattico o pesante, sia verso la condanna di una Chiesa opportunista e crudele ma che riece a tenere nel suo grembo anche persone oneste e semplici che cercano di vedere solo il bene, sia verso gli omosessuali, persone come tutti gli altri, bisognose d’amore e comprensione, spesso con sulle spalle il peso di storie e destini dolorosi.