[aggiornamento del 7/9/2013]
IL 7mo QUEER LION E’ STATO VINTO DA
PHILOMENA di Stephen Frears
La giuria presieduta da Angelo Acerbi, e composta da Daniel N. Casagrande, creatore del leoncino queer, Marco Busato, delegato generale dell’associazione culturale CinemArte, ha assegnato all’unanimità il premio “per aver saputo dare il giusto e rilevante peso a temi quali omosessualità, Aids ed omofobia in un’opera incentrata sulla dolorosa vicenda della ricerca di un figlio durata mezzo secolo, e per aver sottolineato, con leggerezza ed ironia, l’immediata ed amorevole accettazione da parte di un’umile donna di convinta fede cattolica, degli importanti e fondamentali aspetti dell’identità sessuale e dei relativi affetti familiari di un figlio appena ‘ritrovato’.
TUTTI I PREMI ASSEGNATI A FILM CON RIFERIMENTI LGBT:
“PHILOMENA” di Stephen Frears:
Premio Queer Lion
Premio SIGNIS
Premio Brian dell’Uaar (atei e agnositici)
Premio P. Nazareno Taddei
Mouse d’Oro
Premio Giovani Giurati del Vittorio Veneto Film Festival
Premio INTERFILM per la promozione del dialogo interreligioso
“EASTERN BOYS” di Robin Campillo:
Premio Orizzonti per il Miglior film
“TOM A’ LA FERME” di Xavier Dolan:
Premio FIPRESCI
“VIA CASTELLANA BANDIERA” di Emma Dante:
Coppa Volpi miglior protagonista femminile (Elena Cotta)
Premio Lina Mangiacapre
Premio Soundtrack Stars
“GIOVANI RIBELLI – KILL YOUR DARLINGS” di John Krokidas
Premio Internaziinale Venice Days con la seguente motivazione: “un’opera di forte creatività autoriale in grado, grazie a una rigorosa scelta di stile e ad originalità di approccio, di segnare la nuova stagione del cinema americano in cui sono rispettate le ragioni del pubblico, della cinefilia, della memoria culturale del secolo. Forte di uno spettacolare gioco d’attori, della forza della colonna sonora, di una cinematografia spiazzante e raffinata, il film è diventato un autentico evento nel contesto della 70 Mostra del Cinema”
“SACRO GRA” (contiene una scena con transessuali):
Leono d’Oro 2013
Leoncino d’Oro Agiscuola per il Cinema
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Ci siamo! Abbiamo finalmente visto tutti i 9 + 1 film che al Lido si stanno contendendo il Queer Lion e siamo così in grado di fare qualche commento che possa essere anche di guida a voi webnauti. 9 + 1 perchè ai 9 titoli di cui trovate le schede informative in questa pagina, pubblicate quando è stato presentato il premio, in corso d’opera si è meritatamente aggiunto PHILOMENA. Come si è ampiamente visto, letto e sentito si tratta dell’acclamata opera di Stephen Frears tratta da una storia vera in cui la magnifica Judy Dench interpreta il ruolo di una madre che dopo 50 anni si mette alla ricerca del figlio che le era stato sottratto nei primi anni ’50 quando lei era ragazza, ospite forzata in un convento di suore. Nel corso del suo peregrinare in cerca di notizie tra l’Irlanda e il Nord Amarica finirà per scoprire che il figlio era gay e che è morto di Aids dopo aver fatto parte dello staff repubblicano di Regan nel periodo dei grandi tagli ai fondi per la ricerca medica e scientifica. La rivelazione avviene a circa metà della pellicola e sorprende come la protagonista, cattolica praticante e osservante, accetti senza particolari traumi le scelte sessuali del figlio, e anzi ne condivida a distanza di tempo il percorso di autoaccettazione e le dolorose contraddizioni in campo politico. Il momento in cui il compagno “vedovo” le mostra i super8 casalinghi e le foto della loro vita in comune sono tra le sequenze più toccanti dell’intera vicenda e neppure i beceri dal cuore più incallito riescono a non versare almeno una lacrima. I primi piani di Judy Dench, che proprio attraverso quella scena riesce a recuperare l’essenza più profonda e più autentica del figlio perduto, restano tra gli episodi più memorabili dell’intera edizione 70 del festival veneziano. Sembra che gli impazienti dovranno attendere qualche mese prima di poter a loro volta commuoversi per questa storia e con questa storia; pare infatti che la distribuzione italiana abbia preso accordi con la produzione per far uscire i film solo a metà del prossimo gennaio, in una data più prossima alle nomiation agli Oscar ’14. Quale definizione sceglieremmo per PHILOMENA? Forse quella di titolo più “politically correct” della mostra che grazie al perfetto equilibrio degli ingredienti (storia inusitata, carattere vulcanico della protagonista, umorismo delle battute quasi inconciliabili con lo sviluppo del dramma) è in grado di mettere d’accordo laici e credenti, conservatori e progressisti, attivisti del movimento gay e integralisti papalini. Alla definizione di “film più politically correct”, in realtà, avrebbe mirato anche GERONTOPHILIA del ragazzaccio terribile Bruce LaBruce. Lui per primo ha dichiarato, anche nell’incontro col pubblico, la propria intenzione di voler abbandonare con questo film la sua carica eversiva a favore di un cinema più romantico e più main stream. Come se varcata la soglia dei 40 avesse deciso di lasciare il mondo dell’off e dell’underground per accreditarsi presso le case di produzione che maneggiano i budget a decine di zeri espressi in dollari. Peccato che la sua storia del 18enne (interpretato da Pier-Gabriel Lajoie) che preferisce gli 80enni (come l’attore Walter Borden) alle ragazzine attiviste del postfemminismo abbia ben poco di scabroso e tanto meno di scandaloso al di là del soggetto trattato. I baci in dissolvenza flou ricordano troppo da vicino i modi dei commercial da prime time e le riprese della carne cedevole e della pelle tutta rughe sono ben poca cosa se paragonate a tante trasmissioni del piccolo schermo dedicate alla chirurgia estetica o alla semplice medicina generale. Per non dire di sequenze pressochè gratuite come il lesbobacio della ragazzina che sbronza si getta in un lingua-lingua sul palco di un concerto con una cantante punk. Il tentativo di LaBruce di usare gli sterotipi della commedia non ne vanno minimamente a scardinare dall’interno i significati narrativi (come fa Almodovar) ma li ripropongono volutamente nei valori e nei modi più convenzionali, e del resto a LaBruce non riesce neppure di scalfire il main stream con quegli inattesi graffi da John Waters dopo la conversione a “bravo ragazzo”. Il risultato? In sala gli sono arrivati per primi gli applausi convinti delle “signore per bene”, le benpensanti per eccellenza, che si sono tanto, tanto, tanto intenerite per la vicenda e hanno tifato per tutto il tempo a favore di una coppia tanto inusuale. Una usuale coppia lesbica che sembra inusuale in contrasto con un mondo che pare usuale ma che non lo è affatto ci viene presentato invece da Emma Dante nel suo folgorante esordio dietro la macchina da presa in VIA CASTELLANA BANDIERA. Rosa una siciliana che è fuggita dalla madre, dalla famiglia e dalla sua terra, mentre Clara è una grafica disegnatrice milanese più espansiva ed estroversa. Insieme si trovano in un momento di empasse del loro rapporto e durante un transito in auto per Palermo si trovano coinvolte in una situazione che metterà in luce la vera natura dei loro reciproci sentimenti. Chiusa nell’abitacolo della propria vettura Rosa sfida l’anziana Samira che guida un’auto in senso contrario nella stessa strettissima strada. Lo scontro tra le due conducenti coinvolge l’intero quartiere e sconvolge la vita di vicini e parenti. Non si mangia, se si mangia il cibo lo si va a comprare alla polleria più gettonata del rione, tanto più non si beve, chi beve per prima è una perdente, l’urinare diventa un’arma che può uccidere l’avversaria, vivere diventa sopravvivere sotto un sole che ti schiaccia come nella notte, che ti nasconde alla vista di tutti. La Dante procede nel cinema come ha sempre fatto sul palco del teatro, usa le immagini come “materia viva” del narrare, le situazioni come metafore dell’incombente (la rete sottomarina da cui non ci si riesce a districare come proclama della insolubilità del conflitto, il vento tra gli alberi come presagio della lotta immanente, la strada che via via si allarga a indicare il cambio della visuale, la magnifica corsa collettiva del finale verso un baratro che ci aspetta tutti come un monito di condanna e speranza) e anche nel cinema la potenza dei suoi simboli raggiunge la poesia. Il bacio di riconciliazione tra Rosa (la stessa Emma Dante) e Clara (Alba Rohrwacher) forse il più bel bacio d’amore tra donne offerto dal cinema italiano, per naturalezza, per lirisimo, per intensità affettiva. Nota di cronaca per i puri e duri dell’ideologia gay che ancora cercano fuori da sè portabandiera e appoggi per le proprie posizioni politiche: in conferenza stampa la regista ha affermato che si stupisce di dover ancora giustificare la presenza di due lesbiche come protagonise di un film, che dovremmo vivere in una società evoluta dove è assodato e naturale portare sullo schermo qualsiasi tipo d’amore senza doversene ogni volta scagionare come di una colpa. Ancora una coppia lesbica muove il soggetto di PICCOLA PATRIA di Alessandro Rossetto che con questa pellicola debutta nel lungometraggio di fiction. Siamo nel Triveneto , in una provincia dove i valori di fondo non sono molto cambiati da quelli ritratti dal Germi di SIGNORE E SIGNORI. Una provincia dove tutto si fa di nascosto, dove ogni vizio è coperto dall’ipocrisia e dal perbenismo apparente, l’incesto tra fratello e sorella, come l’andare con le prostitute di sabato sera e in chiesa la domenica mattina. Un’area contemporanea più di costume che geografica dove ai sentimenti si è sostuito il modo con cui si appare e dove la sola, unica e somma divinità risponde al nome di “Denaro”, anzi di “Sghei” come si definiscono qui. L’articolata vicenda ruota intorno a un ricatto sessuale ai danni di un piccolo imprenditore. A metterlo in atto è una delle due ragazze che vorrebbe il malloppo per fuggire con l’amica amata (solo un fugace toccamento di labbra tra le due) altrove, non sa nemmeno lei esattamente dove, sogno alla fine frustrato. Non è la vicenda amorosa tra le due ragazze il centro della storia, ma senza di quella nulla avrebbe un senso compiuto. Intorno ad essa c’è tutta una realtà fatta di nuovi immigrati, di piccoli imprenditori dai precari equilibri economici, di sosteniori di una popolazione-razza pura e incontaminata, una visuale del mondo che non va oltre la finestra della tavernetta. Narrato in uno stile asciutto tra Benevenuti e Diritti, è un altro dei begli esordi di cui è ricca questa Venezia 70. Anche KILL YOUR DARLING è una di quelle opere d’esordio che difficilmente si dimenticheranno. Il regista John Krokidas, che non ha mai fatto mistero della sua identità gay, si è fatto le ossa nei cortometraggi, alcuni dei quali sono stati premiati in molti festival e distribuiti in home video nel progetto QUEER AS F***S. Per il suo debutto nel lungometraggio di fiction ha preso come punto di riferimento il volume E GLI IPPOPOTAMI SI SONO LESSATI NELLE LORO VASCHE, il libro scritto a quattro mani da William S. Burroughs e Allen Ginsberg nel ’45 e scoperto solo in anni recenti (in Italia è edito d Adephi). I due padri nobili della Beat Generation vi narrano quasi in presa diretta la propria storia di adolescenti arrivati al college universitario da differenti esperienze. Nel film la narrazione è concentrata sui fatti del 1944 ed è mirata principalmente su Allen Ginsberg, giovane ebreo piccolo borghese del New Jersey, figlio di un apprezzato poeta e di una madre affetta da gravi problemi di salute mentale. A interpretare l’autore di URLO è Daniel Radcliffe, che con questo ruolo chiude definitivamente con la figura pulita di Harry Potter e col suo passato di maghetto per preadolescenti entrando a pieno titolo nel novero degli attori maturi. Invece non si sa ancora se in Italia si avrà modo di vedere pubblicamente TOM A LA FERME che il regista canadese Xavier Dolan ha realizzato a partire da un testo teatrale di Michel Marc Bouchard, già autore del soggetto e dei diaoghi del gay-film di culto LILIES. Si segue una vicenda inquietante di sopraffazione e sottomissione in un ambiente agreste dal sapore più carcerario che bucolico. Il sopraffattore è un aitante colono trentenne (il virilissimo Pierre-Yves Cardinal) che non vuole che la madre venga a sapere dell’omosessualità del figlio morto lontano, nel tentacolare caos della metropli. Il sopraffatto è l’amante del morto, cui dà vita lo stesso Xavier Dolan, che accetta di mentire e che coinvolge in un gioco perverso anche una collega che accetta di fingersi la fidanzata del defunto. Con uno stile che cita Fassbinder e Ozon, Dolan costruisce momenti di ottimo cinema come l’inseguimento tra i campi autunnali del mais o come la sequenza in cui la madre tira fuori una scatola in cui sono conservate le memorabilia dell’ormai lontana adolescenza del figlio, o ancora la scena del tango danzato dai due protagonisti nella stalla vuota, ma la narrazione risente di eccessivi compiacimenti e narcisismi e soprattutto usa le ambiguità della piece non come misterioso punto di arrivo, ma come escamotage degli sviluppi del percorso. La pur importante tematica omosessuale di partenza è messa in ombra dall’interesse per la malattia dei rapporti, dall’indagine psicologica su uno stato mentale prossimo alla sindrome di Stoccolma. Forse i nostri cugini francesi lo liquiderebbero col termine di "film intello". Mentre ben poco di "intello" c’è nel doumentario JULIA della fotografa J. Jackie Baier, che ha seguito per una decina d’anni con fotografie e filmati le vicende di un transessuale esule dalla natia Lithuania fino alla gelida e inospitale Berlino. Una vita spesa tra la prostituzione per strada e la scuola d’arti applicate, la chiesa ortodossa e un cinema a luci rosse diventato rifugio per emarginati del sesso. Un’ora e mezza di cinema ben noto e quasi venuto a noia per chi frequenta il Torino GLBT Film Fest o il Mix milanese ma che qui al Lido ha forse ancora il sapore della novità e della trasgressione. Così, sempre per rimanere in argomento trans, va riferito del lungo episodio presente nel film spagnolo 3 BODAS DE MAS di Javier Ruiz Caldera. Si tratta di una classica commedia iberica, ben costruita e assai divertente, titolo perfetto per chiudere sabato prossimo la sezione Giornate degi Autori. Tutto ruota attorno a una non più giovanissma biologa che poco prima delle nozze si vede scaricata per l’ennesima volta dall’ultimo dei fidanzati e che, prima di trovare la perfetta anima gemella, è costretta ad accettare per tre volte in un mese l’invito ai matrimoni di tre suoi ex. Uno di questi è in realtà "la sposa" e non "lo sposo" in un paesino della Spagna più profonda e arretrata. Dei tre balordi ex-fidanzati, quello che ha cambiato sesso, è di certo il meno svitato, e il regista non fa fatica a portare lo spettatore dalla sua parte, riuscendo perfino a inserire nella sua storia battute di propaganda a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. L’episodio, per quanto divertente e ideologicamente progressista, resta comunque marginale rispetto al plot narratvo principale. Viceversa, gli ultimi due titoli che concorrono al Queer Lion si presentano con una tematica assolutamente fondante. L’ARME DU SALUT di Abdellah Taïa, presentato nella Settimana della Critica, è un illuminante spaccato della realtà omosessuale in Marocco, narrata con uno sguardo consapevole e partecipe. Attraverso le vicende dell’adolescente Abdellah ci viene narrata l’ipocrisia di una società maschilista, con un comportamento entro le mura di casa e uno del tutto differente nelle situazioni pubbliche. Un ragazzino può facilmente incontrarsi e far sesso con uomini adulti, può perfino prendere l’iniziativa e sedurli ma se poi li incontra per strada è richiesto che finga di non conoscerli, si può camminare in pubblico mano nella mano ma senza dichiarare la vera natura del legame affettivo, il turista gay è ben accettato in quanto soggetto da sfruttare ma il giudizio su di lui è di totale e assoluto spregio. Il film si articola in due parti, una principale dedicata all’adolescenza del protagonista che in casa vive dell’ammirazione verso il fratello maggiore da cui verrà abbandonato, al suo rapporto col padre violento e con la madre che lo esclude programmaticamente dal nucleo femminile della famiglia, alle sue scopate cercate o subite; per poi arrivare ad un epilogo ambientato a dieci anni di distanza dove lo si vede coinvolto in un complesso rapporto amoroso con un docente universitario svizzero. L’opera è un debutto nel lungometraggio assolutamente di buon livello, più per la capacità del regista di entrrare nella psicologia delle situazioni che per la sua capacità di sperimentare nuove vie della narrazione. Dovendo sintetizzare con un solo aggettivo e un solo avverbio: antropologicamente esotico. Ultimo nel report ma tra i primi per valori espressi, resta da dire dell’ottimo lavoro del francese Robin Campillo EASTERN BOYS ambientato nel mondo della prostituzione maschile parigina. E’ un film che per un’ora e mezza lascia sorprendentemente esterefatti, lucido, diaccio, impietoso verso i personaggi e verso lo spettatore con tanti echi fassbinderiani a partire da L’AMORE E’ PIU’ FREDDO DELLA MORTE e pasoliniani (certi rapporti psicologici rimandano a OSTIA), ma poi l’ultimo dei capitoli in cui si articola il film crolla in una sorta di noir mal sviluppato con incongruenze narrative e momenti prossimi al ridicolo. Per capirlo bisogna spiegare bene il soggeto (che si può desumere anche dalla sinossi pubblicata sulla scheda del film). La vicenda parte con un lungo piano-sequenza senza dialoghi ambientato nella Gare du Nord dove Daniel, cinquantenne borghese di buon livello sociale, resta affascinato da un ragazzo ucraino intorno ai 18 che fa parte di una banda di ragazzi dell’est (quelli del titolo, appunto) che arrivano dalla Russia, dalla Moldavia, dalla Georgia e da altri paesi dell’ex-Unione Sovietica. Una sorta di banda-famiglia capeggiata da un boss al massimo venticinquenne che ha già una moglie e un figlio. Mai dare il proprio indrizzo a un marchettaro per farlo venire nel proprio appartamento! A Daniel capita di trovarsi la casa invasa dai ragazzi e svuotata di mobili e suppellettili. La scena è di una violenza insostenibile in quanto ambientata in una specie di festa a cui il padrone dell’abitazione è costretto a partecipare contro suo malgrado, ma in cui finsce per trovare anche lati divertenti e assurdamente piacevoli. Senza poter neanche protestare nè dire una parola, la vittima dell’aggressione, balla, beve e se la spassa mentre vede i simboli e i ricordi dell’intera sua vita oltraggiati e violentati. A tal punto che lo stesso ragazzo ucraino, che risponde al nome di Marek, si sente in dovere di tornare da solo quasi a scusarsi per l’accaduto. Da questo punto inizia una vera love-story tra i due, tutta basata sullo scambio tra denaro e sesso ma dove i sentimenti lentamente mutano in entrambi i protagonisti. Mentre le scopate (mirabilmnte mostrate in modo esplicito ma mai integrali) dimuiscono di numero e di intensità, la passione di Daniel cede il passo a un affetto di tipo paterno e il piacere fisico di Marek si muta in una disperata ricerca di affetto e di integrazione nella società borghese. E’ questa la parte più fassbinderiana del film anche per i colori chiarissimi e gelidi usati nella fotografia, ed è anche la parte più interessante per lo scavo psicologico dei personaggi. Fino a quando, nel momento in cui il ragazzo decide di lasciare la banda per andare a coabitare definitivamente con l’adulto, il tono della narrazione cambia completamente di stile e di ritmo. L’azione si sposta nell’hotel in cui il branco, in quanto composto da esuli, è ospitato a spese della municipalità parigina. Qui il Marek viene prima picchiato a sangue dai suoi giovani amici, poi segregato in una stanza e infine salvato dal suo amato che interviene romanticamente come eroe sul bianco destriero durante un’incursione della polizia che ha del paradossale per come è condotta. Mentre la banda viene sconfitta e dispersa e il cattivissimo boss si scioglie in un fiume di lacrime, il finale per la coppia si colora tutto di rosa nell’attesa del verdetto giudiziario che permetterà al giovane di essere adottato dal vecchione non più libidinoso ma redento. E’ probabile che l’alto numero di ore passate in sala cinematografica qui al Lido abbia offuscato una corretta lettura della parte conclusiva della pellicola, e che una nuova visione più rilassata e più lucida permetta di comprendere meglio la sterzata finale, ma quello che poteva essere il nostro Queer Lion di Venezia 70 ha perso parecchie posizioni. La penserà così anche la giuria ufficiale? Lo si saprà sabato prossimo alle 17:30 quando l’ex-ministra Josefa Idem consegnerà la targa al film vincitore. LA CLASSIFICA PHILOMENA – Fuori classifica per la "troppa perfezione" del fim che non permette di guardare lo schermo da un punto di vista differente da quello del regista (abilissimo Stephen Frears!!!). Personalmente non mi piace essere teleguidato e dover commuovermi a comando, ma se amassi il regista il voto sarebbe 10. A questo punto i voti assegnati diventano 10 a KILL YOUR DARLINGS di John Krokidas (Usa)
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Sandro Avanzo