PREMIO “OTTAVIO MAI” : Boven is het stil
MIGLIOR DOC: The Love Part of This
MIGLIOR CORTO: BUNNY
Il Queer Award va a Joven & Alocada
Si è chiusa con grande successo e un forte incremento di pubblico la 28a edizione del Torino GLBT Film Festival, diretto da Giovanni Minerba.
A Boven is het stil (Paesi Bassi/Germania, 2013), un’intensa storia di solitudine e quotidianità diretta con stile rigoroso della regista olandese Nanouk Leopold, il Premio “Ottavio Mai”, assegnato dalla giuria del Concorso lungometraggi, composta da Federico Boni, Diego Dalla Palma, Travis Fine, Vladimir Luxuria e Lidia Ravera. Già presentato alla Berlinale 2013 e interpretato da Jeroen Willems, scomparso nel dicembre scorso subito dopo la fine delle riprese, il film è incentrato sul rapporto scostante, fatto di silenzi e rancori mai sopiti tra uno scapolo cinquantenne e suo padre costretto a letto, con cui vive. La morte del padre apre però una breccia che solo l’amore potrebbe riempire.
Nel Concorso documentari ha invece trionfato The Love Part of This di Lya Guerra, premiato dalla giuria composta da Basil Khalil, Nina Palmieri e Piergiorgio Paterlini.
I giurati del Concorso cortometraggi, Juanma Carrillo, Luki Massa e Alessandro Michetti, hanno assegnato il premio per l’opera migliore a Bunny di Seth Poulin e Nickolaos Stagias.
La giuria composta dagli studenti del Dams di Torino ha inoltre assegnato il Queer Award, riconoscimento che premia un titolo tra otto selezionati, sparsi tra diverse sezioni, che più si avvicina alle tematiche tipiche del mondo dell’adolescenza. Quest’anno ha vinto Joven & Alocada di Marialy Rivas, pellicola inclusa nell’Open Eyes: Forever Young.
Le motivazioni.
Concorso lungometraggi. Vince Boven is het stil “per i temi intrecciati narrati con un’onestà di arte cinematografica di vigorosa qualità. Per l’elevato livello recitativo degli interpreti, per la crudezza poetica, per la fotografia livida e carnale. Per la capacità più unica che rara di trasformare il silenzio tragico nelle relazioni umane in grande forza comunicativa attraverso lo schermo”.
Menzione speciale a Will You Still Love Me Tomorrow? di Arvin Chen.
Concorso documentari. Vince The Love Part of This: “per la straordinaria capacità di trasformare una storia normale e quotidiana in un viaggio emozionante dentro al quale lo spettatore viene portato per mano fino a sentirsene partecipe. I giurati sono rimasti molto colpiti dall’importanza, dall’attualità e dall’intensità di tutte le storie, i personaggi e i temi raccontati nei documentari in concorso. Si è soffermata quindi sulla capacità di trasformare questi temi in racconti cinematografici”.
Menzione speciale a Born this Way di Shaun Kadlec e Deb Tullmann.
Concorso cortometraggi. Vince Bunny: “per aver raccontato quel che succede quando la gioventù lascia il campo alla vecchiaia e alla malattia, presentate entrambe con ruvida onestà e senza fare sconti. Bunny porta in una realtà possibile che tutti speriamo di vivere, in cui l’amore è solidale, presente e assoluto e che, per questi motivi, ci spaventa meno. È poi un segnale importantissimo di come il cinema omosessuale non abbia paura di affrontare anche il tabù della vecchiaia, mostrandosi sempre più sensibile e maturo nei confronti di tutte le sfaccettature della vita”.
Menzione speciale a The Men’s Room di Jane Pickett “per come ha saputo esplorare una storia controversa e ambigua raccontandola con rara eleganza tecnica. Il bisogno, la paura, la ricerca di comprensione e la solitudine del protagonista vengono rappresentati con un’architettura filmica che scava nel profondo delle emozioni, tenendo lo spettatore col fiato sospeso fino all’ultima sequenza”.
Il pubblico del 28° Torino GLBT Film Festival ha assegnato i propri premi.
Lungometraggi.
Alata di Michael Mayer (Israele/Usa, 2012).
Documentari.
Paul Bowles: The Cage Door Is Always Open di Daniel Young (Svizzera/Marocco, 2012).
Cortometraggi.
Holden di Juan Arcones e Roque Madrid (Spagna/Francia, 2012).
26 aprile Torino
immagine da “Chaser”
Fra i corti presentati ne spiccano due. Per chi ama le sensazioni forti, Chaser, dello statunitense Sal Bardo, è l’ideale. Un giovane docente ebreo gay, nel sentire che la sorella avrà un figlio, prova dello scoramento al pensiero che non sarà padre. Per esorcizzare questo pensiero, la sua mente vaga nell’universo del sesso, immaginando i rapporti più vari, fino a un’orgia finale.
immagine da “Happy Birthday”
L’altro, molto atteso, è Happy Birthday del danese Lasse Nielsen. In 24 minuti viene raccontata la storia di Thomas, un quindicenne che ama chattare sul suo pc in siti gay e nello stesso tempo è attratto fortemente dal suo vicino di casa, un piacente uomo maturo. Quando finalmente riesce a comunicare con lui in incognito sul sito, è fatta: Thomas gli scrive messaggi sempre più espliciti, raccontandogli però che ha 18 anni. Quando la verità viene a galla il vicino si arrabbia e la cosa sembra chiusa lì. Ma poi, complice il suo compleanno, la partita viene riaperta, foriera di chissà quali sviluppi. Abituato a parlare di adolescenti, Nielsen (è il regista del celebre Du er ikke alene/You Are Not Alone) scava a fondo nella curiosità del ragazzo e nel suo immaginario erotico, in maniera però rispettosa e delicata, dando verosimiglianza alla vicenda.
Immagine dal film “Il rosa nudo”, prossimamente in distribuzione nelle sale italiane
Nell’ambito della sezione “Focus: chilometro zero“, dedicato al cinema italiano, si è fatto apprezzare Il rosa nudo, un documentario del cagliaritano Giovanni Coda, ispirato alla vita di Pierre Seel, la cui biografia, inedita in Italia, è stata tradotta in molte lingue.
La storia di Seel (1923-2005) è veramente impressionante. Nel 1940, quando aveva 17 anni, sperando di imbattersi in qualche incontro piacevole, andò a battere in un parco di Mulhouse, in Alsazia. Per sua sfortuna, un ladro gli rubò l’orologio. Senza saperlo, la denuncia del furto fatta alla polizia fu l’inizio di tutti i suoi immani guai futuri. Schedato dalla polizia come omosessuale, fu infatti dopo pochi mesi internato in un campo di concentramento dai nazisti, segnato dal famigerato triangolo rosa. Uscito da lì al termine della guerra, invecchiato nello spirito e nel fisico, provò a cancellare dalla sua mente tutto ciò che gli era accaduto, anche perché la sua stessa famiglia non ne voleva sapere niente. Dunque, si sposò ed ebbe tre figli. Il suo silenzio fu infranto solo nel 1982 quando, indispettito per i toni omofobi del vescovo di Strasburgo, raccontò – primo omosessuale francese in assoluto – le nefandezze che aveva dovuto subire.
Coda, un regista specializzato in video e in installazioni, nel rispetto di un cinema indipendente dai mezzi limitati, non ha cercato di ricostruire il contesto, ma ha lavorato in altra maniera: mentre l’atroce testo di Steel è rievocato con una voce fuori campo, il discorso è stato allargato ad altre memorie di internati col triangolo rosa, ricordando anche testi biografici di ufficiali nazisti e i tremendi esperimenti medici di Mengele e del danese Carl Peter Vaernet.
Le scene create con delicatezza, inventiva e con rigore formale da Coda sono di fatto scollegate dal testo, ma ne convidono comunque, volta per volta, alcuni punti di basi: la crudeltà del nazismo, il suo voler annichilire le persone, la pietà, il bisogno del silenzio. Giocato dunque tutto su un versante visuale, con attori espressivi al massimo per fisicità e mimica, il documentario risulta quanto mai poetico. E nell’occhio dello spettatore rimane impresso il ricordo della tremenda uccisione nazista del diciottenne ragazzo di Pierre, Jo, che lo tormenterà per tutta la vita.
Vincenzo Patanè
25 aprile Torino
È raro assistere, uno dopo l’altro, a due film così diversi come è successo ieri in serata del ToGay. Ma non è una critica, anzi, credo sia un modo indovinato per far capire come un festival abbia il dovere di rappresentare il cinema di tutto il mondo in tutte le sue espressioni, quanto più possibile a 360 gradi.
Immagine da Will You Still Love Me Tomorrow?
Will You Still Love Me Tomorrow?, diretto da Arvin Chen, è una commedia divertente, dal ritmo fluido e ben congegnato. Certo, il cinema taiwanese ci ha abituato a prodotti molto più raffinati – si pensi a Tsai Ming-liang o a Chin-yen Yee (Incrocio d’amore) – ma questo comunque non dispiace. È la storia di due coppie: quella formata dal quarantenne Weichung e da Feng, che hanno un delizioso bambino di 6 anni, e quella di Mandy, sorella di Weichung, e San-San, in procinto di sposarsi. La prima coppia sembra stabile e avere le carte in regola per essere felice, la seconda lo aspirerebbe a diventare, ma in tutti e due i casi c’è qualcosa che rompe le uova nel paniere.
Nel caso di Weichung c’è il ritorno della sua vera identità, visto che è gay e si è sposato più che altro per avere una vita tranquilla; certo, da quando sta con Feng, ossia da 9 anni, non ha mai più avuto rapporti gay, ma ora sul suo cammino è comparso un bel giovanotto che lo insidia e allora le cose cambiano e si complicano maledettamente. Nello stesso tempo, a pochi giorni dal matrimonio Mandy è in crisi, ha terrore della monotonia di una vita in comune affianco a San-San e allora è scoraggiata e vuol lasciare perdere. Alla fine, le sorprese non mancano: ciò che sembrava compromesso si aggiusta e viceversa. Insomma, la morale è che si può pensare quanto si vuole prima di prendere una decisione, tanto poi le cose si scontreranno con altre dinamiche e andranno nelle direzioni che vogliono. Ricco di battute a effetto, con episodi simpatici – come l’attore di una soap opera che esce dallo schermo più volte per consigliare Mandy e il gruppo scanzonato di amici gay – il film appare riuscito anche se non certo di particolare spessore.
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Immagine da It’s All So Quiet
Boven is het stil (It’s All so Quiet), dell’olandese Nanouk Leopold, resterà sicuramente nella memoria anche per l’eccezionale interpretazione del protagonista, Jeroen Willems, purtroppo scomparso subito dopo le riprese.
Willems è Helmer, un cinquantenne scontroso e solitario che vive in una remota fattoria dove si produce latte, assieme al padre vecchissimo e moribondo, col quale ha un rapporto fortissimo di odio/amore e che pure impone cure costanti, e nel ricordo del fratello tragicamente morto. Il suo carattere schivo e introverso lo tiene a distanza da tutti, a cominciare dalla vicina di casa, e forse solo nelle carezze di qualche animale trova un minimo di conforto fisico. Così le premure di un collega coetaneo, evidentemente invaghito di lui, che viene a ritirare il latte vengono regolarmente rifiutate. Qualcosa sembra cambiare con l’avvento di Henk, un giovane bracciante, che gli dà una mano nella conduzione della fattoria. Helmer è sicuramente affascinato dal giovane, molto bello, ma quando questi una sera entra nudo nel suo letto per abbracciarlo e forse per far sesso con lui, si limita, dopo una forte resistenza, a ricambiare l’abbraccio. Poi però non esita a mandarlo via. Però l’episodio, unito alla (sospirata) morte del padre, muta il suo atteggiamento, come si vede nei momenti finali.
Giustamente, il film è stato recepito dal pubblico in maniera diseguale, con prodotti di questo genere è fatale, sono destinati a giudizi estremamente difformi. I silenzi di Helmer – peraltro tipici di una certa cinematografia, si pensi all’olandese Jos Stelling nelle cui opere non si dice una sola battuta per tutto il tempo – e i suoi sguardi fissi scandagliano con devastante potenza la sua personalità inespressa, tutta chiusa a riccio in se stessa, e appaiono certamente poetici e toccanti. Però come dare torto a chi rimane infastidito da essi, abituato magari ad altro cinema, ritenendoli semplicemente vuoti e noiosi? Insomma, è ottimo cinema ma certo non per tutti…
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Immagine da Sexual Tension: Volatile
Il regista argentino Marco Berger, che qualche anno si fece apprezzare con Ausente, quest’anno si è presentato al festival con ben due film – in realtà, meglio ancora parti di un dittico – girati assieme al connazionale Marcelo Mónaco. Il primo, Sexual Tension: Volatile, esplora l’universo maschile, il secondo (in onda oggi al ToGay), Sexual Tension: Violetas, quello femminile.
Ambedue i film sono composti da episodi. Sexual Tension: Volatile ne vanta sei, tre girati da Berger e tre da Monaco. In “Ari” vediamo un ragazzo che va a farsi fare un tatuaggio da un tatuatore, appunto Ari, sexy e dalla prorompente personalità; per quanto il ragazzo sogni di concupirlo, comprandogli anche un bracciale, è così imbranato da non riuscire neanche a fare la prima mossa. “El primo” (Il cugino) è la storia di un giovane (Javier De Pietro, il protagonista di Ausente) che va a trascorrere un periodo presso un amico, rimanendo invaghito dal giovane cugino di questi, dalle forme flessuose e seducenti. In “El otro” (L’altro) due ragazzi, a parole etero, non fanno altro che parlare di ragazze ma, con la scusa che uno dei due non riesce mai a combinare realmente qualcosa con loro, l’altro gli insegna come comportarsi sul piano fisico, scendendo anche nei particolari, spogliandosi e toccandolo al punto giusto. In “Los brazos rotos” (Le braccia rotte) un massaggiatore accudisce e lava un giovane ingessato, titillando così le sue pulsioni sessuali. “Amor” (amore) vede una giovane coppia sposata etero soggiornare in un agriturismo, ma lui è maledettamente attratto dal prestante ragazzo che porta avanti l’azienda, riuscendo anche a farsi una doccia assieme. Infine “Entrenamiento” (“Formazione”) vede due palestrati che si spogliano sempre di più (e chissà come andrà a finire…), con la scusa di scattarsi delle foto col cellulare da mandare poi a ragazze da conquistare.
Come sempre accade in questi casi (si pensi ai film a episodi così tipici del cinema italiano anni Sessanta), non tutti gli episodi appaiono all’altezza, ma il film certo non annoia mai, anzi. I migliori sono senza dubbio “Ari” e “El primo“, giocati sul non detto, sulla sottile linea, però non sempre vincente, di una seduzione che cerca di entrare in azione. Tutto il film, parlato il giusto, gioca comunque – con un linguaggio spigliato, mai noioso e soprattutto con intrigante ironia – sulle varie forme in cui si presenta l’attrazione, che spesso sfocia in giochi seduttivi più o meno efficaci, in atti mancati che evidenziano “ciò che avrebbe potuto essere ma poi non è stato”, mostrando quanto il sesso, in tutte le sue forme, sia ineffabile e volatile.
Vincenzo Patanè
24 aprile Torino
Una immagine da Joshua Tree, 1951: A Portrait of James Dean
C’era una certa attesa ieri per Joshua Tree, 1951: A Portrait of James Dean, diretto dallo statunitense Matthew Mishory, perché il fascino di Jimmy Dean non accenna a diminuire, anzi è più che mai un’icona gay. Il film ricostruisce il periodo immediatamente precedente al suo sbarco nel cinema hollywoodiano, dove girò tre film indimenticabili (La valle dell’Eden, Gioventù bruciata e Il gigante), per poi morire tragicamente in un incidente d’auto con la sua Porsche nel 1955, cosa che ha contribuito non poco al suo mito.
Qui James è solo un prestante ragazzotto affascinato dalla poesia di Rimbaud, che studia recitazione, vive e scopa con un atletico coinquilino (dal nome sconosciuto), frequenta il ricco Roger (il quale gli permette di partecipare a scintillanti party e conoscere gente altolocata) e fa sesso episodicamente con i ragazzi che gli piacciono. Ambientato in California, appunto a Joshua Tree, e girato in un bianco e nero dai grigi pastosi, il film colpisce per l’accurata ricostruzione degli anni Cinquanta e per la fotografia preziosissima, che va a nozze con la ricerca di immagini di decisa eleganza. Però proprio questa scelta stilistica sembra frenare l’opera, che non sembra ambire ad altro e a volte è anche un po’ noiosa. Per fortuna però c’è James Preston, ex modello di Bruce Weber, bravo e bellissimo nonché molto somigliante a Dean (anche meglio, forse…), attorniato da ragazzi statuari e plastici, spesso nudi o impegnati in scene di sesso. A proposito, chi si aspetta le scene forti di sesso descritte nelle biografie di Dean o nei ricordi di Kenneth Anger rimarrà deluso, si dovrà contentare di qualche sigaretta spenta nell’ombelico…
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Una immagine da White Frog
La serata si è conclusa con White Frog, di Quentin Lee, regista statunitense di origine asiatica. Chi non seppe trattenere le lacrime anni fa per il suo Ethan Mao, facilmente anche ieri si è commosso. La storia gira attorno a Nick, un ragazzo quindicenne afflitto dalla sindrome di Asperger (autistico, in altre parole…). L’unico punto di riferimento per lui è il fratello Chaz, generoso e altruista, che però muore investito mentre è in bici. Per Nick è la fine, non può che rientrare nella sua bolla virtuale che lo isola dagli altri, con i quali proprio non riesce a comunicare. Ma gli amici di Chaz – Doug e Randy su tutti – nonostante la sua giovane età, lo coinvolgono in alcune cose che faceva il fratello. Grazie a ciò, Nick piano piano cresce, aprendosi un po’ agli altri; contemporaneamente scopre tante cose su Chaz, ma quando viene a sapere che era gay e stava con Randy per lui è troppo, è qualcosa che rompe i suoi rigidi schemi (così come quello dei suoi genitori, conformisti e religiosi). Ma alla fine Nick capirà…
Il delicato e umano percorso di Nick è mostrato con tatto e sensibilità, con una crescita interiore che lo porta a capire come in realtà tutti “siamo diversi” e per questo più che mai meritiamo rispetto per le nostre scelte. Straordinario il cast artistico, particolarmente prelibato per il pubblico giovanile: assieme all’affascinante Joan Chen, che lavorò ne L’ultimo imperatore di Bertolucci, e a BD Wong (Law & Order), ci sono infatti il protagonista Booboo Stewart (la saga di Twilight), Harry Shum Jr (il ballerino asiatico di Glee) e Tyler Posey (la serie Teen Wolf). Non c’è sesso ma che importa? Al di là del fatto che ci sono splendidi ragazzi che rallegrano la vista, il film dà tanto, ma proprio tanto allo spettatore.
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Una immagine da Monster Pies
Il lungometraggio australiano Monster Pies, diretto da Lee Galea, non racconta niente che non si sia già visto. Will è un ragazzo col padre alcolista e la mamma gravemente ammalata; schivo e introverso, a scuola fa amicizia con Mike, anch’egli alle prese con qualche problema familiare (i genitori sono divisi) ma più tranquillo. Dopo qualche naturale schermaglia iniziale, i due capiscono di essere reciprocamente attratti e quindi scoprono il sesso e la bellezza di avere finalmente qualcuno che ti vuole bene. Ma qualcosa cova dentro Will e i nodi alla fine vengono tragicamente al pettine. Pur girato con una certa fresca delicatezza, la storia, dai tracci romantici, non spicca dunque per originalità. Inoltre, l’episodio traumatico che caratterizza la fine è un po’ gratuito, e comunque non suffragato da quanto visto prima, dà l’impressione di voler dare un senso di seriosità al tutto. In compenso, non male le scene erotiche e quella nella piscina deserta a disposizione dei due ragazzi, che là scoprono il primo bacio.
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Una immagine da One Zero One
One Zero One del tedesco Tim Lienhard, in concorso per i documentari, è una scoperta. È la storia di due personaggi poco conosciuti in Italia: le drag queen BayBjane e Cybersissy. Dietro questi improbabili nomi ci sono il trentatreenne marocchino Mourad Zerhouni e il quarantenne olandese Antoine Timmermans. Il primo è alto un metro e mezzo, con un occhio solo e una gamba più corta, il secondo è un artista originale, calvo e dall’enorme, ingombrante fisico. Una strana coppia, dunque, che ha pensato bene di trasformarsi in drag queen, che danno luogo a performance provocanti ed eccentriche, camp e kitsch (se non a volte freak…), con le quali illuminano le folli notti di tanti locali europei, a cominciare da Ibiza.
Lienhard, che li ha conosciuti dopo uno spettacolo a Colonia, ci fa vedere i loro spettacoli – che ammiccano a Divine, Lindsay Kemp, Leigh Bowery, Bette Davies e Joan Crawford – ma soprattutto riesce a cogliere efficacemente lo spaccato umano che c’è dietro, di due persone sensibilissime che così hanno dato un senso ben preciso alla loro esistenza, superando i notevoli problemi personali e familiari.
Vincenzo Patanè
23 aprile Torino
Una immagine da Yossi
Film a sorpresa ieri sera, come ormai è di prammatica in tanti festival. Già in mattinata l’arcano è stato però svelato e si è diffusa la notizia che si sarebbe proiettato Yossi, l’ultimo film di Eytan Fox, vecchia conoscenza del pubblico torinese.
Il film si riaggancia direttamente a Yossi & Jagger, che dieci anni fa portò tanta fortuna al regista israeliano, premio del pubblico al ToGay ma anche un discreto incasso nelle sale italiane. La storia, molti la ricorderanno, è quella di due soldati dell’esercito israeliano, sperduti in un avamposto ai confini col Libano. I due sono legati da un amore fortissimo, vissuto in clandestinità, confidando magari in una vita futura assieme. Ma la morte di Jagger, sventrato da un’esplosione, stronca ogni altro discorso, lasciando il suo compagno nel dolore più straziato.
Dieci anni dopo, Yossi è cardiologo in un ospedale di Tel Aviv. La sua abnegazione nei confronti del lavoro è notevole, ma in realtà evita di prendersi ferie perché non saprebbe neanche come consumarle, intento com’è a rimuginare senza posa il ricordo della sua sfortunata storia d’amore con Jagger. Ogni tanto cerca qualche incontro erotico in chat, ma poi la sua sgraziata forma fisica (è visibilmente ingrassato) non gli permette granché. L’incontro casuale con i genitori di Jagger – ai quali rivela l’intensità del loro rapporto – non porta a nulla, anzi: i due rifiutano quella verità e nello stesso tempo le tracce di Jagger, come la sua stanza ancora intatta, gli fanno ancora troppo male. Costretto a prendersi comunque dei giorni di ferie, dà in macchina un passaggio a 4 soldati, che spendono in allegria i giorni prima del fronte. Uno di essi, il bel Tom, è gay. Attratto dall’introverso distacco dal mondo di Yossi, Tom lo seduce. Finalmente Yossi ha di nuovo qualcuno accanto…
Il film gioca tutto sul fatto che, pur a distanza di tanti anni Yossi, non ha ancora (giustamente) metabolizzato il lutto per la persona amata. È solitario, triste, svogliato, senza mordente e così porta avanti la sua vita stancamente. Il tutto è raccontato bene, con delicatezza (anche se il rapporto con Morte a Venezia fra Mann e Mahler, ripetuto più volte, sembra francamente fuori posto e comunque non sfruttato) ma sinceramente si ha l’impressione che il film sia inutile, non aggiunge niente a quello precedente. In realtà, porta avanti un solo concetto: che la vita deve comunque andare avanti per rispetto proprio e anche delle persone care che non ci sono più. Concetto nobilissimo, ma talora il film spesso sembra girare a vuoto, nonostante la finissima interpretazione di Ohad Knoller nei panni di Yossi.
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Un immagine da Mixed Kebab
Il film di Fox è stato preceduto da un corto libanese, Cant di Sam Shaib, in cui due baldi giovani, un occidentale e un siriano, stanno assieme felicemente, almeno fino a quando il primo non scopre che l’altro – che gli aveva taciuto la cosa – sta per andare in patria a sposarsi. A nulla valgono le recriminazioni del siriano, il rispetto per la religione e la famiglia, il fatto che il matrimonio non toglierà niente al loro rapporto eccetera. Ormai qualcosa si è rotto definitivamente.
Il corto fa parte della sezione “Mezzaluna rosa/Pink crescent“, incentrata sull’omosessualità nei paesi islamici. Tra i numerosi film c’è particolare attesa per Out Loud, il primo film a tematica libanese, e I Am Gay and Muslim dell’olandese Chris Belloni, in programma nei prossimi giorni.
Tra quelli già visti, si è fatto notare Mixed Kebab, del belga Guy Lee Thys. È la storia del giovane gay turco Ibrahim che vive ad Anversa, in una famiglia tradizionalista. Bisognoso di una copertura sociale ma soprattutto per tacitare l’irruente padre, Ibrahim va in Turchia per conoscere la cugina, sua futura sposa. Porta con sé Kevin, un amico fiammingo che gli piace particolarmente e lì, nell’hammam dell’albergo turco, fra i due scoppia la passione. Al ritorno in Belgio sarà però un disastro: la famiglia di Ibrahim lo caccia da casa, il fratello – avvicinatosi agli integralisti – pensa addirittura di uccidere Kevin, ma alla fine le cose prendono una piega diversa e insospettata. Pur concepito in Belgio, il film affronta di petto il rapporto fra omosessualità e cultura islamica nonché il dissidio fra due diverse culture (alla fermezza del padre di Ibrahim si contrappone la madre di Kevin, che spinge perché suo figlio si metta con Ibrahim), divertendo e facendo riflettere. L’unico appunto, semmai, è che la sceneggiatura sembra un po’ costruita a tavolino, concentrando in un solo discorso quante più cose possibili. Ma arriva comunque a segno, sottolineando come anche le nuove generazioni di islamici, pur nate in paesi occidentali, comunque debbono lottare anche contro tante altre cose, in primis il retaggio familiare.
Vincenzo Patanè
22 aprile 2013 – Torino
Serata di gala ieri sera al ToGay e non solo per i due film presentati. Ieri infatti è stata la volta della consegna del premio Dorian Gray alla carriera a Ingrid Caven, moglie di Rainer Werner Fassbinder e più in generale musa di tanti eccezionali personaggi di un momento unico del cinema tedesco (personaggi, lo ha ricordato lei con commozione, in gran parte scomparsi). Prima della consegna, è stato proiettato un filmato, con stralci di uno dei film più intensi di Fassbinder – L’anno con tredici lune (in cui Ingrid interpreta Zora) – nonché la registrazione di un film-concerto tenuto da Ingrid Caven nel 2006 alla Cité de la Musique di Parigi, in cui ha cantato, con voce roca e sensuale, alcuni pezzi del marito e altre canzoni, tra cui Each Man Kills the Things He Loves, quella cantata da Jeanne Moreau in Querelle.
Primo bilancio positivo per la 28a edizione del Torino GLBT Film Festival, diretta da Giovanni Minerba.
Nei primi tre giorni, la manifestazione torinese ha registrato un forte incremento di pubblico, raggiungendo un picco di incassi nel fine settimana che, rispetto alla scorsa edizione, è superiore di oltre il 20%. «Un risultato molto importante – ha dichiarato Giovanni Minerba – che va al di là delle pur ottimistiche aspettative e che, ci auguriamo, possa migliorare ancora di più nei prossimi giorni. Un dato positivo e in controtendenza rispetto al preoccupante calo degli incassi ai botteghini dei cinema italiani».
Immagine dal film “In the name of”
Il primo film è stato il polacco W imi?… (In the Name of…), vincitore del Teddy Bear 2013 a Berlino, che ha suscitato tante polemiche nella cattolicissima Polonia. Adam, il prete protagonista del coraggioso film diretto da Malgorzata Szumowska (la regista di Elles), è decisamente anticonformista: gioca a pallone con i ragazzi, fuma, beve (riuscendo a scolarsi una bottiglia di vodka d’un solo fiato), corre a perdifiato con la musica nelle orecchie attraverso i boschi ma è benvoluto per il lavoro che porta avanti nella comunità del villaggio della sua parrocchia. È stato trasferito in questa località tremenda (un “letamaio”, come dice un personaggio) perché aveva abbracciato con troppo ardore un ragazzo durante il suo precedente incarico; ora Adam bada ad adolescenti trasferiti lì dal riformatorio e quindi con problemi comportamentali; se li potrebbe scopare tutti – come confida via skype alla sorella che vive a Toronto – ma si limita a osservarli con sguardo voglioso, magari anche quando fanno sesso fra di loro. Nello stesso tempo, rifiuta le avance di una bella ragazza, che si mostra seminuda davanti a lui. Ma con Lucasz, un ragazzo emarginato che si è invaghito di lui, è diverso e, nel ricambiare il suo affetto, tanti turbamenti che sembravano sopiti vengono riaccesi. Quando nel villaggio si sparge la diceria che sia frocio, Adam viene nuovamente trasferito. Raggiunto da Lucasz, alla fine trova l’escamotage per continuare la loro relazione.
Il film non è facile, spesso è urticante e fastidioso, è un po’ lento, segnato da momenti di riflessione forse poco consoni al nostro cinema, da passaggi e simbolismi non sempre chiari, che fanno venire a galla atti mancati o pulsioni represse. Ma l’assunto è chiaro e il tema scabrosissimo dell’omosessualità nel sacerdozio viene fuori a chiare lettere, senza mezzi termini (talora anche con scene blasfeme, come quando Adam balla da solo con il ritratto del Papa), con indubbio impatto emotivo per lo spettatore, anche per la forza inedita di tante scene.
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Immagine dal film “Out in the Dark”
Alata (Out in the Dark) dell’israeliano Michael Mayer, ha chiuso degnamente la serata. Siamo in Israele, in una Tel Aviv aperta e apparentemente tollerante, ma in cui non si muove foglia senza che i servizi segreti sappiano tutto. In un locale gay, si incontrano il giovane avvocato ebreo Roy e lo studente universitario palestinese Nimr. È subito amore, vissuto dai due in maniera trascinante e infuocata, anche sul piano fisico. Il problema per loro è provare a immaginare un futuro assieme, soprattutto quando Nimr non avrà più il permesso per venire da Ramallah per frequentare nella capitale un corso all’università.
All’inizio la loro storia sembra dunque solo una riedizione in termini diversi di Romeo e Giulietta, un ebreo e un palestinese che vogliono stare tenacemente assieme ad onta delle loro provenienze inconciliabili, ma poi le cose si complicano maledettamente. Tutto sembra cospirare contro loro due (magari con l’eccezione dei genitori di Roy, abbastanza aperti), in particolare contro Nimr: i servizi segreti israeliani (che vorrebbero che collaborasse con loro e dopo il suo rifiuto gli tolgono il permesso), i suoi connazionali, la famiglia e soprattutto suo fratello Nabil (che ha in casa un arsenale di armi), che non sopportano che frequenti ebrei e più che mai che sia gay. Alla fine non c’è scampo per Nimr: senza che abbia fatto niente, colpevole solo di amare Roy, è tra l’incudine e il martello, braccato dai suoi connazionali e dai servizi segreti. Inizia a fuggire, ma per andare dove? Per fortuna al suo fianco c’è però sempre Roy…
Man mano che il film va avanti si trasforma dunque in un thriller dai toni esasperati, in una Tel Aviv sempre più oscura e aggressiva, che avvince lo spettatore anche perché non è prevedibile dove la vicenda vada a parare (e infatti il finale è incredibilmente a sorpresa). Il film è un atto di accusa contro una situazione politicamente insostenibile, con un popolo (che peraltro vanta un altissimo numero di laureati) schiacciato e senza possibilità d’espressione, e in cui è impossibile rimanerne fuori anche per chi non è interessato. Ma è anche una storia d’amore straziante e coinvolgente, che non si dimentica facilmente, in cui chi è gay paga ancora più duramente le proprie scelte.
Vincenzo Patanè
21 aprile 2013 Torino
Il sabato e la domenica, si sa, sono i momenti migliori per il ToGay. In altre parole, buon incasso (cosa che non guasta, anzi…), code abbastanza lunghe per entrare ma soprattutto una bella atmosfera, un’ottima occasione di incontro per tanti amici. Così è stato anche ieri.
Immagine da El sexo de los ángeles
In serata due film, evidentemente ideali per una buona affluenza di pubblico: El sexo de los ángeles e Five Dances. Il primo, dello spagnolo Xavier Villaverde, ha divertito molto il pubblico, forse un po’ di meno i critici. In effetti è un film girato scolasticamente, con situazioni tutt’altro che originali. Però piace, in molte occasioni diverte, e questo proprio non è un male…. La storia è quella di Rai, un bellissimo giovane gallego (come il regista) che vive a Barcellona, insegnando karate e praticando la breakdance con amici. Un giorno casualmente conosce Bruno, anche lui assai belloccio, e tanto fa che riesce a sedurlo, nonostante questi stia con Carla, di cui è sinceramente innamorato. Da allora colpi di scena a ripetizione: a causa di Rai Bruno abbandona Carla (che li ha beccati in flagrante mentre fanno sesso sotto la doccia), ma poi lei accetta obtorto collo che il suo ragazzo abbia due relazioni contemporaneamente; in seguito Carla capisce però che la cosa in realtà la fa stare male e quindi per ripicca va a letto con Rai, ma anche lei si innamora del bel giovanotto. Bruno, cambiato ruolo, si ingelosisce e quindi nasce un patatrac che poi però porta a un lieto, prevedibile finale. Insomma, proprio niente di nuovo: il solito, vecchio triangolo esaminato in tutte le salse e le combinazioni possibili e immaginabili, roba vista e stravista. Però i tre protagonisti sono molto carini, le battute sapide, i personaggi di spalla (come Marta, l’amica di Carla) simpatici, le scene di sesso ammiccanti (ma pudiche), Barcellona è invitante. Insomma, si esce dalla sala con voglia di vivere…
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Immagine da Five Dances
Five Dances è altra cosa, altra musica altro ritmo, verrebbe da dire. E ci sta anche bene, visto che il film è tutto giocato sulla danza. Il regista Alan Brown, già presente lo scorso anno con l’apprezzato Private Romeo, presenta un’opera di particolare eleganza, dai toni stilizzati e intimisti. Cinque soli personaggi in scena, alle prese con le prove di uno spettacolo di danza a New York. A rispondere agli ordini del giovane e prestante maestro di danza Anthony, ci sono quattro ragazzi: Chip – un diciottenne venuto dal Kansas a cercare fortuna -, Katie (presso cui Chip va a vivere per un po’, invece di dormire nella sala da ballo all’insaputa di tutti), Cynthia (che va a letto con Anthony) e Theo. Theo è gay ed è affascinato da Chip, di poche parole ma dal fisico perfetto. Chip prima è recalcitrante, non l’ha mai fatto, ma poi cede alle profferte sessuali e sentimentali dell’altro.
Il film, il quinto di Brown, esplora con curiosità e meraviglia il mondo della danza, capace di comunicare e di far vibrare le corde del cuore. Cinque momenti di danza, quelli richiamati dal titolo, scandiscono con splendide performance la storia minimale, fatta di piccole azioni, di gesti, di momenti di ripensamento o di sconforto dei cinque protagonisti. Al centro la storia d’amore dei due ragazzi, nella realtà ballerini talentuosi e apertamente gay (Chip è Ryan Steele, in realtà ventunenne, come gli altri un attore non professionista).
Fra tutti i personaggi domina Chip: schivo, delicato, introverso (per attrarre l’attenzione, sfrutta la sua capacità di essere ventriloquo), stordito da quella città capace di regalarti promesse ma anche solitudine e dalla madre che gli intima al telefono di tornare a casa (perché fare il ballerino non è cosa buona…). Chip sopperisce alla sua timidezza con la capacità di far parlare il suo corpo come nessun altro, esprimendosi compiutamente: il suo corpo dinoccolato e muscoloso sa conquistarsi lo spazio dopo averlo esplorato, proprio come il suo personaggio conquista più sicurezza ogni giorno che passa. Film magari non per tutti (ma l’ultima lunga scena fra Chip e Theo, a lume di candela, che contrasta un po’ con lo stile rarefatto del film, quella sì dovrebbe piacere a tutti…), ma decisamente ottimo.
Vincenzo Patanè