Non è un film facile questo “Oltre le colline” di Cristian Mungiu, film doppiamente premiato a Cannes (protagoniste e sceneggiatura) e accolto ovunque molto bene dalla critica. Non perchè sia incomprensibile o girato in modo strambo, anzi, all’opposto, è un film molto lineare e dalla struttura tradizionale. E’ difficile per quello che dice, non per come lo dice, è difficile perchè per due ore e mezza ci porta a vivere all’interno di una piccola comunità religiosa, coi suoi tempi e i suoi rituali quotidiani, composta da un prete, dalla moglie e da un gruppetto di donne che, rispetto alla vita che conducevano prima nel mondo (solitudine, miseria e soprusi nella Romania del dopo Ceausescu), sembrano aver trovato la serenità. Per questo sono assolutamente obbedienti, devote e pronte a qualsiasi durezza (non c’è luce elettrica e l’acqua bisogna prenderla ogni giorno dal freddo pozzo), ma felici di avere ogni giorno il pasto assicurato e l’amabile compagnia delle consorelle. Il prezzo è solo quello di una fede assoluta, che non permette dubbi o domande, manifestata con le continue preghiere, l’obbedienza ai superiori, e la convinzione di essere i soli a possedere la verità.
La sceneggiatura ci fa scoprire queste cose pian piano, assicurandoci dell’assoluta buona fede di tutti, tutti credono sinceramente in quello che fanno, sicuri di essere nel giusto, di fare solo del bene a se stessi e agli altri. In poche parole possiamo dire che ci viene presentata l’essenza di ogni religione, con la fede che solo per il fatto di possederla dovrebbe garantirci la pace assoluta e difendere da ogni male. Il regista ha così sintetizzato l’essenza del suo film: “Oltre le colline è soprattutto un film sull’amore e sul libero arbitrio, e principalmente sul modo in cui l’amore deve confrontarsi con il concetto di bene e male. La maggior parte dei più grandi errori di questo mondo sono stati compiuti in nome della fede e nella convinzione che erano compiuti per una buona causa“.
Il film, dice quindi il regista, vuole essere un film sull’amore, in questo caso un amore lesbico, non ortodosso, che deve confrontarsi con i precetti di una religione, che a sua volta dice di fare tutto in nome dell’amore, di Dio e dei fratelli. Peccato che il film sia troppo sbilanciato sulla denuncia religiosa e molto meno sulla storia d’amore lesbico delle due protagoniste. Tanto che leggendo molta critica non vi si trova mai la parola lesbica od omosessuale, limitandosi a parlare di un’amicizia nata nell’infanzia. Anche se con questi presupposti ci sembra difficile poter comprendere la storia del film.
Alina (Cristina Flutur) e Voichita (Cosmina Stratan) si conoscono dall’età di cinque anni, sono cresciute insieme nello stesso orfanatrofio in Romania, dove si sono innamorate e sostenute a vicenda fino a quando Alina ha scelto di andare a vivere con una famiglia e poi è emigrata in Germania in cerca di lavoro. Voichita ha sofferto moltissimo per questa separazione ed ha poi deciso di rifugiarsi nel vicino convento (ancora non consacrato ufficialmente) governato da un prete ortodosso e dalla moglie, che, significativamente, tutte le devote chiamano papà e mamma. Qui Voichita ha trovato una famiglia e forse anche l’amore (puro) di qualche consorella. Alina invece non deve aver trovato fortuna all’estero, e soprattutto si è sempre portata nel cuore l’amore per Voichita, così ha deciso di tornare in Romania per riprendersela e iniziare con lei una nuova vita, insieme per sempre.
Tutto questo possiamo comprenderlo già nella prima scena del film, che ci mostra lo struggente abbraccio tra le due ragazze che s’incontrano dopo anni alla stazione. Il pianto di felicità di Alina che stringe a sè Voichita e non vuole più lasciarla, mentre Voichita dimostra il suo imbarazzo (“tutti ci stanno guardando”), mette subito allo scoperto il dramma d’amore che le due donne dovranno affrontare. Il film però, come dicevamo, non si dilunga troppo su questo tema, e tra le due protagoniste quasi non esiste dialogo. Difficile quindi comprendere subito le reazioni di Alina (che per alcuni può sembrare epilettica), davanti alla freddezza e alle titubanze dell’amica. Non riusciamo nemmeno a capire se il vero problema di Voichita sia che non l’ama più o che ha solo paura di continuare ad amarla. Questo riserbo (o ambiguità) della regia e della sceneggiatura possono però avere una giustificazione, in quanto ci fanno guardare alla loro storia d’amore con gli stessi occhi degli altri protagonisti del film: le consorelle, che non osano nemmeno pensare ad un amore lesbico, e il prete e la moglie, che sicuramente hanno capito come stanno le cose ma preferiscono (per opportunismo venale e religioso) far credere che la ragazza sia posseduta dal demonio. In fondo l’amore omosessuale è una cartina di tornasole per la buona fede di tante religioni che dicono di fondarsi sull’amore, mentre in realtà per amore intendono tutt’altro. E, come dice uno dei dialoghi finali del film, in nome dell’amore spesso si giustifica l’odio e la violenza. Allo spettatore sembra di stare seguendo una storia del medioevo ma il regista, con la lunga inquadratura finale sulla movimentata cittadina, ci ricorda che purtroppo siamo ai nostri giorni.
Ricordiamo che il film è tratto da una storia vera, e forse per questo il finale ci lascia un po’ sospesi, supponendo magari che tutti conoscano come andò a finire la vicenda, che nella realtà vide condannata e dispersa la piccola comunità religiosa.