LUCIANA LITTIZZETTO PREMIATA AL FESTIVAL LGBT DI TORINO

Con modestia ma con decisione si dichiara sostenitrice della nostra causa, affascinando tutto il pubblico. Il concorso si chiude con due film strepitosi, “Parada” che ottiene cinque minuti d’applausi, e “Speechless” che unisce poesia e folle passione gay nella Cina d’oggi

Il Festival ha fatto centro ancora una volta col premio Dorian Gray assegnato quest’anno all’icona numero uno dei gay italiani (considerata come la nostra Barbra Straisand), Luciana Littizzetto, sempre pronta, ovunque e comunque, a spendersi in difesa dei dirittti degli omosessuali. Dopo Milano e Roma, questo è il terzo importante premio che le viene assegnato dalla comunità gay. Osannata sia alla conferenza stampa (presenti quasi tutti i principali quotidiani) che alla cerimonia di premiazione nella grande sala del cinema Massimo, ancora strapiena dopo sei giorni di programmazione del Festival. Come sempre in ottima forma, semplice e diretta, capace di passare senza soste dalla battuta scherzosa e leggera a quella pungente e profonda, costretta continuamente a frenare l’irruenza degli applausi e delle grida del pubblico che l’adora. Nonostante il grande successo che sta ottenendo sia al cinema che alla tv, si dimostra sempre affabile e spontanea con chiunque (tantissimi volevano una foto con lei), con un’umiltà e una naturalezza difficili da trovare nel suo ambiente. Irresistibile quando scherza anche su se stessa, come quando dice “Io un’icona gay? Non mi sono mai sentita un’icona, al massimo un’ocona” oppure, riferendosi al premio che nelle motivazioni fa riferimento al suo sostegno alla causa dei diritti delle persone GLBT: “Che responsabilità. Eppure non ho fatto nulla di strano, mi sembra naturale accettare le differenze e sostenere i diritti GLBT, si dice così? Li ho difesi senza nemmeno sapere come si chiamavano». Inizia il suo breve discorso parlando anche di Giovanardi, “Uno che fa uscite come le sue deve avere seri problemi, dovrebbe vedere uno specialista, di quelli bravi, se no un giorno rischiamo di trovarcelo come Anthony Perkins in Psycho, travestito da sua madre che accoltella omosessuali”. Di seguito la trascrizione dei suoi interventi.

INCONTRO E CONSEGNA DEL PREMIO DORIAN GRAY A LUCIANA LITTIZZETTO

G.MINERBA: Abbiamo qui la nostra Luciana. Quando abbiamo istituito questo premio tre anni fa era per un artista, indipendentemente dal sesso, che col suo lavoro avesse contribuito alla causa GLBT. La motivazione, scritta da noi, del premio di quest’anno è: come attrice ha saputo, con la sua ironia, ribaltare i luoghi comuni sull’amore, sostenendo con impegno costante la causa dei diritti delle persone GLBT.

L.LITTIZZETTO: Delle persone?

G.MINERBA: GLBT. Gay, lesbiche, bisessuali e transgender.

L.LITTIZZETTO: Ah ho capito. Non sapevo si chiamassero così. Pensa, li ho difesi senza neanche sapere come si chiamavano!

G.MINERBA: Dunque, è il terzo anno questo. Il primo anno James Ivory, il secondo Lindsay Kemp.

L.LITTIZZETTO: Che responsabilità! No, io sono molto contenta di essere qua. Però io sono sempre stata qua, non è una novità per me. Il fatto di essere premiata, certo, è una bella cosa, mi lusinga molto. Però per me il Festival Gay c’è sempre, da sempre, ci sono sempre andata, sono sempre stata presente in qualche modo e sono sempre stata vicina alla causa.

G.MINERBA: Secondo te, la società italiana è pronta per accogliere maggiori diritti per le persone GLBT?

L.LITTIZZETTO: Apparentemente sembrava di sì. C’è stato un momento in cui mi sembrava che tutto fosse più libero, più aperto, più tranquillo. Adesso c’è una recrudescenza che non si spiega, un accanimento anche nelle dichiarazioni che non riesci a pensare che della gente, tra l’altro che ci governa, riesca a dire delle cose così nel 2012. Mi sembra che siamo tornati un po’ indietro in questi ultimi tempi, perché forse se non si chiedono diritti si riesce a chiudere un occhio, a far finta di non sentire, poi però quando invece si chiedono dei riconoscimenti, dei diritti normali, delle leggi non particolarmente strane, ecco che allora si scatenano le ire di Dio. Sentire ancora adesso una persona che dice che vedere due donne che si baciano è come vedere uno che piscia secondo me è una delle cose più brutte che si possano mai sentire. E’ una persona che si deve curare e in fretta, da uno bravo, perché se va avanti così con questa ossessione che ha per i gay, finirà che lo vediamo travestito da Tony Perkins in “Psycho”, vestito da sua mamma, che vuole accoltellare gli omosessuali. Cioè, c’è una bella differenza tra vedere due persone che si baciano e uno che piscia! Se hai bevuto molta grappa forse li puoi confondere, se hai fumato tanta roba che ti fa vedere le magie, altrimenti c’è una gran bella differenza. Posso anche capire che a te dia fastidio, ma ci sono molte altre cose che a me danno fastidio, che non mi piacciono, il fegato al burro per esempio è una cosa che mi da fastidio, il pelo nell’insalata, i preti che danno i sacramenti ai mafiosi mi fanno schifo, però non è che vado lì a rompere troppo le palle: me lo tengo per me e poi basta. Se proprio una cosa ti dà fastidio, compi atti di masochismo all’interno di casa tua, bastonati col bastone per la polenta e fine, se hai tutta questa rabbia dentro di te. Questa cosa qua diventa proprio pericolosa, perché mette nell’animo delle persone una continua sensazione di disagio per chi vive quella vita lì e negli altri un senso di accusa, di guardare di sottecchi, di giudicare, che è un atteggiamento veramente ormai vecchio, passato, non se ne può più. Persino alla stessa Carfagna, quando sente le dichiarazioni di Giovanardi, vengono “gli occhi del porca troia”, anche perché lei ci ha provato e questo bisogna riconoscerglielo.

G.MINERBA: Sì, all’inizio aveva qualche problema anche lei, però poi ha cambiato decisamente registro.

L.LITTIZZETTO: Eh ma noi italiani abbiamo proprio la pirlagine nel DNA, soffriamo proprio di pirlite mediterranea, perché questa è una cosa talmente naturale che io non capisco dove stia il problema.

G.MINERBA: La colpa è un po’ dei giornalisti, che dovrebbero smetterla di chiedere a certa gente cosa ne pensa delle coppie di fatto o di due donne che si baciano, perché tanto ormai le risposte le sappiamo già.

L.LITTIZZETTO: Ma il problema non è che gli venga fatta la domanda, ma che loro pensano veramente quello che dicono, poi ci governano anche.

G.MINERBA: Senti, i protagonisti dei tuoi monologhi a “Che Tempo Che Fa” sono spesso il Walter e la Yolanda. Quando farai qualcosa su Yolanda e Yolanda e Walter e Walter?

L.LITTIZZETTO: Yolanda e Yolanda e Walter e Ugo! Sì ho già fatto qualcosa, in occasione di un’altra dichiarazione, di un altro politico, che adesso non ricordo chi fosse, forse sempre lo stesso, che ha detto che essere gay è oggettivamente sbagliato e che essere gay è come non pagare le tasse. Non pagare le tasse è un reato! Essere gay non mi sembra sia un reato! Io non so se li pagano per dire puttanate. Poi cosa c’è nella vita di oggettivamente sbagliato? Certo, se spari a qualcuno, l’omicidio. Ma cosa te ne frega di quello che fanno due persone nell’intimità della loro camera da letto? Non c’è niente di più soggettivo del sesso, ognuno lo fa come vuole, è un’opera di fantasia, non è come montare un comodino dell’Ikea che se sbagli una vite devi ricominciare da capo, ognuno fa come vuole, l’incastro può essere vario. Veramente, non c’è niente di più misterioso, di più strano e di più importante da rispettare di quello che avviene tra due persone che si vogliono bene, che siano appunto Yolanda e Francesca o Walter e Ugo, questo non mi interessa, non mi è mai interessato e secondo me, quelli a cui interessano queste cose qui hanno veramente delle cose da risolvere con se stessi, perché è una domanda che proprio non ci si deve fare secondo me. L’amore prende tante strade. Poi un’altra cosa strana è questa vicinanza costante, soprattutto da parte della Chiesa, tra omosessualità e pedofilia, come se fossero due cose che vanno non dico a braccetto, ma per lo meno parallele. E’ una cosa orribile, pazzesca, fuori dalla grazia di Dio davvero. La pedofilia è una malattia da curare e l’omosessualità non lo è, uno nasce finocchio e sta bene così e non è malato per niente. Non è possibile che ancora adesso si pensi che l’omosessualità sia una malattia. E come ci si contagia? Ascoltando un cd di Tiziano Ferro? Com’è che ti viene? Vedi una puntata di “Kalispera” con Signorini e ti viene l’omosessualità? Vai in ascensore con Malgioglio e diventi omosessuale? Oppure come l’influenza: “Sai mio marito è stato due settimane a letto” “Ah sì? Con la febbre?” “No, con uno coi baffi”! Ma ti pare? Com’è questa cosa qua? Tra l’altro, se fosse una malattia, figurati te se le case farmaceutiche non si sarebbero ingegnate nell’inventarsi una medicina cura gay, che tu la prendi, sei Lele Mora e diventi Gad Lerner. L’avrebbero già fatta a quest’ora, fanno tutto, dai bracciali per il mal di mare ai coni per le orecchie che si incendiano, potrebbero anche farla una medicina cura gay, magari non in supposte, altrimenti siamo sempre lì. Questa è un’altra cosa pazzesca, che quando si sente, io non so… Per me, che sono eterosessuale, è una roba insopportabile, il sangue mi va in aceto. E’ proprio una roba orribile.
Io comunque sono molto contenta di essere qui. Anzi mi chiedevo perché Dorian Gray, che non è proprio un’immagine edificante quella di una persona che passa la vita a nascondere i segni del tempo sul proprio volto, poi mi è stato spiegato che è riferito ad Oscar Wilde e allora ho capito.

G.MINERBA: E’ l’immagine del premio, che poi vedrai.

L.LITTIZZETTO: E’ figo? Perché di solito sono… E’ una scultura?

G.MINERBA: E’ stato creato dal nostro attuale presidente del Museo del Cinema, Ugo Nespolo.

L.LITTIZZETTO: Ah be’, allora sarà bello sicuramente

G.MINERBA: All’epoca però non era ancora presidente, non c’è nessun conflitto di interessi. Poi lo vedrai, spero che ti piaccia.
Ci sono domande dal pubblico?

GIORNALISTA: Io volevo sapere come te la spieghi questa recrudescenza, questa omofobia latente.

L.LITTIZZETTO: A dire il vero non lo so, non sono una sociologa. Però penso che nella società si stia creando proprio una spaccatura tra quelli che sono i conservatori e chi apparentemente è progressista. E i conservatori si stanno tirando sempre più indietro su temi come la famiglia, le tradizioni, anche se poi magari sono divorziati, vanno in giro a farne di ogni e magari sono anche gay, però all’occhio del lettore devono essere perfetti, senza sbavature. Io credo che sia questo. Cioè, il voler mantenere i voti e di prenderne di nuovi. Credo che nella nostra classe politica ci sia quel problema lì, quindi tutto si basa su quello, sul prendere e mantenere dei voti, per cui la parte politica più conservatrice si accanisce su valori un po’ datati.

GIORNALISTA: Ti senti un po’ un’icona gay? E’ curioso poi che spesso le icone del mondo gay siano donne e non necessariamente siano omosessuali. Le donne forse sono più sensibili, più aperte.

L.LITTIZZETTO: Io lo penso in generale che le donne siano più aperte, più sensibili e più possibiliste, più accoglienti credo, rispetto agli uomini. Anche perché c’è sempre stato questo pensiero che per gli uomini essere gay è un’onta, da subito, io lo vedo anche nei ragazzini, che dicono “Non sono mica gay!”, come se fosse un problema, una vergogna. Per le donne invece è diverso. Io non ho mai sentito dire una donna “Non sono mica lesbica”, cioè, cosa me ne frega a me? E’ proprio un problema che non si pone, se lo sei, lo sei, se non lo sei, non lo sei. Non c’è il problema che potresti esserlo agli occhi degli altri, invece per il maschio molto di più, non so come mai. Tra le ragazze poi c’è molta intimità tra di loro, soprattutto quando sono adolescenti, i maschi invece molto meno, sono più distaccati, anzi se si crea l’intimità fanno attenzione ad allontanarsi perché nessuno parli male, che nessuno equivochi. Invece le ragazze non hanno problemi in quel senso lì: dormono insieme, si abbracciano, si baciano, si prendono per mano, sono più rilassate rispetto ai maschi. E’ molto difficile vedere due maschi che dormano insieme che non due donne che dormano insieme, eppure cosa cambia?

GIORNALISTA: Invece nel mondo dello spettacolo, come si vive questa questione? E’ sentito, ci sono ancora discriminazioni oppure si dimostra abbastanza aperto? Tu stessa per esempio, in quanto icona gay non sei oggetto magari di qualche osservazione negativa?

L.LITTIZZETTO: Ma io sono un’icona gay?

GIORNALISTA: Una super icona gay!

L.LITTIZZETTO: Guarda, nello spettacolo ci sono poche lesbiche devo dire, dichiarate almeno, non ne conosco. Ci sono invece molti gay, soprattutto parrucchieri, truccatori, ma anche artisti, poi ci sono quelli che si dichiarano e quelli che non lo fanno, però bisogna rispettare tutti. Anche questa storia di Dalla, veramente, a me ha fatto venire una tristezza. Tutti che cercavano di definire chi fosse questo ragazzo, ma se lui non l’ha fatto evidentemente non voleva, quindi bisogna rispettare la sua scelta.

GIORNALISTA: Però il caso di Frecero, che per aver difeso una serie gay, “Fisico-Chimica”, è stato sospeso per due settimane, è grave.

L.LITTIZZETTO: Sicuramente. Io non so bene cosa sia successo con Frecero. So che lui è molto fumantino, quindi magari si è comunque un po’ agitato di suo e quindi…

GIORNALISTA: Non potrebbe esserci la lunga mano dei cattolici e della politica in Rai, che da sempre è stata un feudo della destra cattolica italiana?

L.LITTIZZETTO: Io però posso dirti che magari molti dopo si incazzano, però io posso dire quello che voglio. Questo vorrei proprio sottolinearlo. Nessuno sa che cosa dico, tanto meno Fabio. Poi magari dopo mi fanno dei gran panettoni, però lì per lì posso dirlo, quindi questa è una grande ricchezza della Rai, almeno nella mia rete. Ma anche quando mi ha invitato qualche settimana fa Maria De Filippi. Non c’è nessuno che voglia sapere prima quello che dico, eppure lo sanno che non è che ci vada giù leggera. Per cui questa cosa di questa censura latente non è poi così vera, almeno io non la vivo in questo senso. Vivo dopo che mi cazziano magari oppure che c’è una specie di mobbing sotterraneo oppure di rivalse, di minacce successive, ma lì per lì non esiste, almeno nel mio caso, qualcuno che mi bloccasse prima di parlare, neanche quando lavoravo a Mediaset. Questo lo devo dire.
(Riferito a Laura Righi) Comunque lei è una delle donne più donne che io conosca, ha una femminilità che io non ho. E com’è possibile questo fenomeno? Non si spiega.

GIORNALISTA: Nei tuoi film hai interpretato la mamma di molti ragazzi e in “E’ Nata una Star” dici: “Meglio pornodivo che bullo”, diresti lo stesso se tuo figlio fosse gay?

L.LITTIZZETTO: Ma certo. Nel bullismo c’è violenza, mentre io credo che l’omosessualità sia ingiustamente vista come una trasgressione, una cosa brutta, e si tratti invece semplicemente di una scelta sessuale, poi chi si ama si ama. Cioè, penso che l’amore sia uguale, poi a letto lo fai in modo diverso, ma chi se ne frega. Poi magari non è neanche così alla fine, ma non mi interessa, non me ne frega niente.

G.MINERBA: Ma se tuo figlio, che è giovane, a un certo punto ti dicesse…?

L.LITTIZZETTO: Ma io preferirei che non fosse gay, ma semplicemente perché ti fai un culo doppio, perché è tutto molto più difficile, perché appunto intorno c’è ancora tutta questa difficoltà, ma poi francamente che stia bene lui. Io sono felice se lui è felice. Se è felice di fare l’amore con un uomo, e se fosse una donna di fare l’amore con una donna, io sono contenta per lui, davvero, su questa cosa qua sono molto tranquilla.

GIORNALISTA: In concorso non ci sono film italiani, a parte un paio, secondo te come mai in Italia non si fanno film a tematica GLBT?

L.LITTIZZETTO: E’ vero. Già si fa fatica a trovare i soldi per i film e la cultura in generale, poi questa è considerata una tematica di minoranza, quindi chi se ne importa. Se devonono spendere i soldi, li spendono per qualcosa che possano vedere tutti, perché pensano che le cose che riguardano le storie gay siano solo per i gay.

A.ACERBI: Siamo arrivati dunque alla consegna del Premio Dorian Gray, che come sapete viene dato a persone del mondo della cultura e dello spettacolo che si sono particolarmente distinte sia professionalmente che personalmente in difesa dei diritti della comunità GLBT.

U.NESPOLO: E’ un piacere essere qui con questo foltissimo pubblico ed è un piacere dare questo premio ad un personaggio che noi stimiamo molto. E’ vero che siamo in un momento di crisi, ma noi difendiamo moltissimo innanzitutto il Museo del Cinema e le sue cose più importanti, i suoi festival, in particolare questo festival a cui noi siamo molto affezionati e di cui noi siamo soprattutto fieri, perché secondo me, e secondo tutti, è sicuramente una delle manifestazioni più importanti non solo a livello italiano, ma anche a livello internazionale. Un festival unico in termini di qualità, per il suo livello e per tutto. Naturalmente le risorse sono quelle che sono per tutti, ma andiamo avanti tranquilli e sereni, perché se guardiamo al futuro, io sono certo che ce la faremo sempre.

G.MINERBA: Allora, come già preannunciato, il Premio Dorian Gray 2012 va a Luciana Littizzetto.

L.LITTIZZETTO: Io sono ovviamente contenta di questo riconoscimento. Ci tengo particolarmente, intanto perché è la mia città e che questo festival si faccia nella mia città è una grande ricchezza e poi perché ho tantissimi amici gay ed è una cosa che mi sta veramente a cuore, è una delle cose che mi stanno più a cuore la causa omosessuale, non perché lo sia, ma perché penso che nel 2012 questo problema dovrebbe essere già ampiamente superato. Io non sono gay però…

G.MINERBA: Perché ogni volta sottolinei “io non sono gay”?

L.LITTIZZETTO: No be’, perché sai, uno dice sposo la causa perché sono finocchio. Non lo sono, però io sposo la causa lo stesso perché mi sembra giusta. Poi chi lo sa, magari io tra qualche anno mi innamoro dell’Annunziata, chi lo sa. Comunque io, per chiudere, mi auguro che questi movimenti di consapevolezza, di cultura, di anima, di sesso continuassero. Io sposerò sempre le causa gay, anche il matrimonio gay, anche se io non credo nel matrimonio in generale, però va bene che ci sia il matrimonio gay. Se non vogliamo chiamarlo matrimonio gay, chiamiamolo unione di fatto, unione delle patte, patte di unione, chiamiamolo come vogliamo. Anzi, sarei molto contenta di vedere finalmente una coppia di gay maschi dove uno dei due si china a raccogliere i calzini per terra e fa partire la lavatrice finalmente, sarebbe una grande soddisfazione.

A.ACERBI: Bene, per consegnare il premio chiamo sul palco Carmine Amoroso, che è nostro ospite.

L.LITTIZZETTO: Grandissimo regista, col quale ho lavorato, regista di “Cover Boy”.

C.AMOROSO: (consegna il premio) Luciana è una portatrice sana di verità, per cui è un bene da salvaguardare. La prossima volta sarà l’Unesco a darle un premio.

L.LITTIZZETTO: Eh sì, dopo Rita Levi Montalcini ci sono subito io, che tra l’altro dimostro più anni di lei. (applauso) Mi sembra di essere Emma Marrone a Sanremo!

A.ACERBI: Ok, ringraziamo Luciana. Grazie, grazie ancora per tutto quello che hai fatto.

L.LITTIZZETTO: Grazie a voi e tanti baci!

(a cura di G. Borghesi)

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Come tradizione nei migliori Festival di cinema, anche questo ha sparato le sue cartucce più dirompenti nell’ultima giornata dedicata ai film in concorso, con due film importanti e bellissimi nel loro genere.
“Parada” del serbo Srdjan Dragojevic, dovrebbe essere almeno il vincitore del premio del pubblico se facciamo riferimento al lunghissimo applauso, quasi cinque minuti, che ha ottenuto alla fine, senza contare quelli a scena aperta. “Speechless” del cinese Simon Chung, porta il cinema gay di quel Paese ai più alti livelli qualitativi.

PARADA di Srdjan Dragojevic

voto 9/10

Capita raramente di dare un voto così alto ad una commedia che si pone come primo obiettivo quello di suscitare la risata e il divertimento del pubblico. In questo caso succede perchè il film ci fa ridere (in continuazione) sfruttando le nostre principali tematiche, come l’amore gay e il suo diritto alla visibilità. In pratica ci troviamo davanti ad una delle migliori commedie-militanti del cinema internazionale. E’ anche uno dei rarissimi film dove gli stereotipi e lo scheccaggio risultano necessari ed acquistano un valore di testimonianza e di lotta. Il film si mantiene sempre ai massimi livelli, con un leggero cedimento nella parte centrale che prolunga un po’ troppo il viaggio dei nostri eroi alla ricerca di una milizia che deve difendere lo svolgimento della Parade, il primo grande (relativamente) Gay Pride di Belgrado.
L’idea base del film è forse la più geniale, mettere insieme un manipolo di ‘sfigati’ attivisti gay, continuamente sotto l’attacco dei peggiori elementi di una società omofoba e razzista, con il capo di una gang altrettanto omofoba, ma sotto il condizionamento della fidanzata progressista e liberale.
I personaggi sono tutti esilaranti, dalla futura moglie del boss, capace di sostituirlo egregiamente nei momenti più difficili, ma che condivide lo spirito e la sensibilità gay, dalla coppia gay protagonista, un veterinario e un artista ridotto ad organizzatore di matrimoni, che ci fanno impazzire riassumendo nei loro personaggi tutte le migliori e peggiori caratteristiche dei gay, fino al gangster omofobo che diventa paladino della causa gay, ma sempre cercando di mettere al sicuro il suo posteriore. Divertimento intelligente, battute spiritose su politica, società e comportamenti da condannare senza riserve. Una lezione di ottimo cinema al servizio di un’ottima causa.

SPEECHLESS di Simon Chung

voto 8/10

Film di ottima qualità, che mescola una storia sentimentale e privata con tematiche di denuncia politica e sociale. Il regista, presente in sala, ci ha raccontato delle grandi difficoltà che ha incontrato nella realizzazione e nel mettere insieme il cast del film, film che ha potuto essere completato solo come opera indipendente. La Cina, ha detto Chung, è ancora un Paese omofobo, ma l’omofobia risulta ancora maggiore all’interno di quelle comunità cristiane che in Cina stanno crescendo, nonostante siano ostacolate dal regime, e che, proprio per questo, si chiudono ancora di più in loro stesse. La vicenda del film, essenzialmente una grande storia d’amore gay tra uno studente francese e un indigeno, nasce proprio all’interno di una comunità cristiana cinese, coinvolgendo poi un giovane infermiere d’ospedale. Il film è ricco di momenti di poesia, che sfruttano anche le bellissime campagne del Sud della Cina. Il protagonista, che vediamo completamente nudo all’inizio del film (con la poliziotta cinese che si vergogna a guardarlo) ha un fascino tutto particolare, e il suo dramma interiore regge tutta l’ossatura del film. Non parla (qualcuno del pubblico ha suggerito che potrebbe simboleggiare la difficoltà di parlare dei gay cinesi, lettura che il regista ha condiviso), è chiaramente traumatizzato (sembra anche volersi suicidare) ma il suo viso e le sue espressioni comunicano una infinita dolcezza. Che affascina gli altri personaggi del film (dalla poliziotta, al medico e soprattutto all’infermiere, alle prese col problema dell’identità) ma anche lo spettatore, sempre più curioso di conoscere il suo segreto. La storia scivola un po’ nel melò rocambolesco verso la parte finale, quando interviene un’amante tradita, ma la regia è sempre attenta ad indagare nell’intimo dei personaggi, nel coglierne le sofferenze e le contraddizioni, e soprattutto il grande bisogno d’amore.
(G. Mangiarotti)

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CORTOMETRAGGI E DOCUMENTARI FUORI CONCORSO

Veramente interessanti i cortometraggi trasmessi in sala 2. Giovanni Minerba accompagnato dal suo splendido cane labrador, ci ha presentato tre giovanissimi autori di corti. Due italiani, Paolo Ferrarini e Silvia Borroni, oltre all’autore di ‘Charlotte‘, Daniel Monks.
Paolo Ferrarini (autore di Sandanski): “io sono prevalentemente un musicista. Ho iniziato a fare video clip, che dovevano servire alla promozione delle mie canzoni. Ma ho notato che il modo in cui mi piace fare video clip, è quello di raccontare delle storie. E siccome le storie che voglio raccontare sono storie che mi sono molto vicine e che devono rappresentarmi, spesso trattano di tematiche GLBT e spesso quindi assumono delle connotazioni molto simili a dei veri e propri cortometraggi a tematica. Il mio video non è la storia di Alfredo Ormanno ovviamente, non mi sarei mai cimentato a portare sullo schermo una storia cosi forte e drammatica senza macchiarmi di poco rispetto nei suoi confronti. Quando Ormanno ha fatto quel suo gesto cosi simbolico importante e tragico io ero nella fase finale della mia lotta interiore per arrivare alla mia auto accettazione, quindi il mio coming out. Quando ho sentito questa storia per me è stato qualcosa di molto significativo che in molti modi mi ha segnato personalmente. Quando anni dopo, ho cominciato a fare musica, volevo descrivere questa terribile condizione psicologica in cui una persona decide di prendere una risoluzione cosi drammatica come quella di uccidersi, e in un modo cosi doloroso come darsi fuoco. Quindi ho pensato di fare un video clip in cui il personaggio principale faceva un percorso personale e psicologico per poi arrivare a quel gesto. Ovviamente non sono cose facili né da vivere e neanche da descrivere“.

Silvia Borroni (autrice di The 8th Wonder): ” Nel mio lavoro c’è una sorta di riconciliazione tra omosessuali e eterosessuali, in un mondo in cui alla fine viviamo tutti senza più essere guardati male. Normalmente nei film a tema, si tende a demonizzare una delle due parti, finisce che gli omosessuali vengono sempre vittimizzati, mente gli eterosessuali vengono visti come omofobi. Invece nel mio lavoro nessuna delle due parti viene demonizzata. C’è una specie di sospensione in un luogo che ribalta la situazione.. Non è un lavoro autobiografico, c’ è un’atmosfera surreale che riguarda le prime due parti seguita da una riconciliazione finale“.

Daniel Monks (autore di Charlotte e Wild Imaginings):” In Charlotte c’è un aspetto autobiografico perché l’argomento principale che volevo trattare è la percezione che uno ha di se, e di come lo percepiscono gli altri, e l’elemento autobiografico è la mia disabilità“.
Tra i cortometraggi poi trasmessi, tutti di ottima qualità, oltre ai due italiani, che non sfiguravano in mezzo agli altri, segnaliamo “Why Does God Hate Me?” di Joel Ashton McCarthy, veramente esilarante descrizione della vita di un bambino gay, che ha la sfortuna di avere dei genitori fanatici religiosi impegnati nella lotta contro gli omosessuali.

Il pomeriggio è continuato con la proiezione del bellissimo documentario italiano “Schuberth – L’Atelier della dolce vita‘ di Antonello Sarno presente in sala. Un ‘com’eravamo omofobi’ da non perdere.
Antonello Sarno: “Emilio Schuberth è stato un po’ il papà dell’alta moda italiana. Il primo sarto italiano, la parola stilista allora non esisteva, che ha sfilato a Parigi e che, come dice Benedetta Barzini nel documentario, non ha imitato nessuno, ha agito in base ad una suggestione completamente sua, molto ricca, molto sfarzosa, che rifletteva il momento storico che l’Italia stava vivendo, questa ostentazione della gioia di vivere dopo le privazioni e le ansie della guerra,. E devo dire che le sue creazioni sono ancora oggi stupefacenti. A Venezia è arrivato tutto lo stato maggiore dell’alta moda italiana, con Vogue al completo. E assieme all’altro documentario su Diana Vreeland, ci siamo presi la nostra rivincita perché di solito cinema e moda, nei grandi festival, sono un po’ come i film comici, non sono considerati tanto. E invece come documentari sono andati molto bene. E’ uno specchio di quel periodo. Schuberth lo ha vissuto con grande creatività ma anche, come poi vedremo con grande ironia e autoironia. Nell’atelier di Schuberth si vestivano contemporaneamente in due stanze diverse per non incontrarsi, la Loren e la Lollo, che per altro sono presenti entrambi, l’unico documentario della storia del cinema con la Loren e la Lollo insieme, che ancora si chiamano ‘quella’ : ‘c’è pure quella?’, ‘non so se te la faccio intervistare’, ‘quella? C’ha ottant’anni’ . Però alla fine le abbiamo messe d’accordo, non sono insieme, però vengono una dopo l’altra.
Schuberth a proposito della donna a fiore o ad anfora, nasce come bustaio e poi si è evoluto via via sino a diventare ‘le grand createur’ che dava lavoro a designer come Balestra, Capucci e Valentino.
Per quanto riguarda l’omofobia, è stata una delle molle che ha fatto scattare in me l’idea di fare questo documentario, perché avendone fatti tanti sulla storia del cinema, mi imbattevo continuamente in questo ometto, con questo gigantesco riporto, le giacche eduardiane con i polsini rivoltati, che salutava tutti quanti con grandi segni della mano, e in cambio riceveva dai cinegiornali dell’epoca delle sferzate che oggi il Valentino che fa Dario Ballantini su Striscia è veramente all’acqua di rose. Stiamo parlando di uno che all’epoca era veramente il numero uno, c’erano lui, le sorelle Fontana e pochissimi altri. E allora continuando a vedere queste sferzate pazzesche in tutte le ricerche che facevo per altri documentari, mi dissi facciamone uno su Schuberth. Mi sono interessato, documentato, abbiamo trovato la figlia di Schuberth. Egli era talmente auto-ironico che non solo non ha mai querelato nessuno, oggi sarebbe impensabile con quello che vedrete, ma addirittura è riuscito a fare della presa in giro che facevano su di lui, un personaggio che gli tornava utile per la pubblicità dei propri vestiti. E devo dire che con quello che vedrete e sentirete è una cosa assolutamente assurda. Voi vedrete nel documentario che nella prima parte si parla di moda, e poi si parla di tutto quello che Schuberth riusciva a mettere intorno alla sua creazione, che era una cornice pubblicitaria che poi in qualche modo ha dato origine a delle figure che ritroviamo nella Dolce Vita, lo chiamavano l’atelier della Dolce Vita perché andavano tutti da lui in via Condotti. In origine, la versione veneziana era dedicata in coda a Giò Staiano, che era scomparso di lì a poco, e che compare nel film, brevemente intervistato, come campione dell’omofobia che avevano i cinegiornali dell’epoca. Oltre alla Lollo e la Loren, sono venti interviste, tutte testimonianze autorevoli.

Giovanni Minerba ha poi introdotto il suo documentario “Il Fico del Regime” realizzato nel 1991 insieme ad Ottavio Mai. Un omaggio a Giò Staiano, mancata ad agosto dell’anno scorso, personaggio a cui è anche stato dedicato il catalogo di quest’anno.
Prima di “Il Fico del Regime” è stato trasmesso un breve working progress di un documentario che sta realizzando Fabio Massimo Lozzi insieme ad Antonio VenezianiNessuno è perfetto“. Progetto di un libro di interviste che sta scrivendo Antonio Veneziani sui transessuali in Italia, mentre Fabio Massimo Lozzi sta realizzando il documentario.
Fabio Massimo Lozzi: ” Antonio Veneziani, oltre ad essere uno dei più importanti poeti viventi della scuola romana è anche autore di molti libri di inchiesta molto importanti come ‘I mignotti’, ‘Porno cuore’, ‘La gaia vecchiaia’, libri di interviste con gente comune che parla di volta in volta del proprio essere anziani e omosessuali, o giovani omosessuali come nel caso di ‘Porno cuore’ . E diciamo che vuole continuare in questa serie di libri inchiesta, intervistando persone che rientrano in tutti i tipi di transessualità, da pre e post-operation, trans section, transgender e via dicendo. Parlando co Veneziani di questo progetto, mi è venuta l’idea: se io ti vengo appresso e cominciamo a riprendere… E da li è nata questa cosa, che forse anziché essere un documentario sulle tante transessualità è un documentario su Antonio Veneziani che lavora a questo libro e si interroga su di un mondo, che non è propriamente il suo ma che conosce abbastanza bene“.
Quindi Fabio Massimo Lozzi, a nome di IndiCINEMA , una federazione di associazioni di professionisti del settore, che sta cercando di creare uno spazio produttivo e distributivo, esclusivamente per il cinema indipendente e particolarmente italiano, ha letto un appello: ’99 parole per il cinema italiano’ in cui si chiedono quattro misure fondamentali per rilanciare il cinema italiano, e principalmente l’eliminazione dei ‘ristorni al botteghino’ , iniquo sistema di finanziamento del cinema, che prema automaticamente i film che hanno incassato di più (i cine panettoni) prendendo dai pochi fondi disponibili per la cultura ed il cinema.
Chi vuole aderire a questo appello può andare sul sito www.indicinemaitalia.it e dare la sua adesione.

(R. Mariella)

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DUE FILM DEL FOCUS “LE NOSTRE OLIMPIADI”

ELEVEN MEN OUT di Robert I. Douglas

voto: 6/10

Ottar Thor è la stella del KR Reykjavik, una squadra di calcio islandese, ma è anche un uomo spavaldo ed estremamente sicuro di sé. Non si fa dunque molti problemi a fare coming out davanti a tutti i suoi compagni di squadra e ad una troupe di giornalisti, giunti lì per intervistarlo dopo una partita. Le conseguenze però sono immediate: viene espulso dalla squadra. La notizia della sua omosessualità si diffonde in fretta e a pagarne lo scotto è soprattutto Maggi, il figlio di Ottar, che quasi non gli rivolge più la parola per la rabbia e la vergogna che il padre gli ha suscitato. Intanto, un amico di Ottar ed ex calciatore professionista gli offre un posto nella sua squadra di dilettanti, dove già militano due gay. L’attaccante accetta di buon grado, seguito poi da altri uomini che, siccome omosessuali, vogliono far parte di una squadra che riesca ad accettarli per quello che sono. Partita dopo partita i KS Pride United mettono a segno un risultato utile dopo l’altro, fino a chiudere la stagione primi in classifica. Forse, dopotutto, il KR avrebbe fatto meglio a tenersi stretto Ottar.
Film un po’ cupo e un po’ lento, intriso di pregiudizi, in cui i personaggi principali non fanno molto per farsi amare dal pubblico. “Eleven men out” ci regala comunque qualche momento divertente.

RENEE di Eric Drath

voto: 8/10

Documentario che ripercorre la vita e la carriera di Renée Richards, la prima atleta transgender a cui è stato permesso di competere all’interno dello US Open. Renée nacque nel 1934 come Richard Raskind, in una famiglia di medici. Studente modello e atleta promettente, Richard si specializza in oftalmologia e diventa capitano della squadra di Tennis di Yale. In questo periodo ha molte storie d’amore, tanto che nessuno metterebbe mai in dubbio la sua virilità e mascolinità. Eppure, nel segreto della sua stanza, il dottor Raskind indossa abiti femminili e solo così si sente pienamente se stesso. Matura dunque la decisione di andare a Casablanca, all’epoca l’unico posto dove si praticava la chirurgia per il cambio di sesso, ma una volta lì gli manca il coraggio. Tornato in America, nel tentativo di allontanare quella difficile situazione, Richard sposa una bellissima modella, con cui ha anche un bambino, Nicholas. Qualche anno dopo però si rende conto di non poter vivere così e decide di farsi operare da un chirurgo americano. Richard Raskind diventa così Renée Richards. Per poter vivere in pace questa sua nuova condizione, Renée (in francese “rinato/a”) si trasferisce in California, lasciandosi alle spalle famiglia, amici e lavoro. Qui decide, alla veneranda età di 41 anni, di riprendere in mano la sua carriera di tennista, pur senza rivelare la sua identità precedente. La verità comunque non tarda a venir fuori e Renée ne fa una battaglia personale, in particolare contro la USTA (United States Tennis Association), che nel 1976 impedisce a Renée di partecipare allo US Open introducendo un test cromosomico che dimostri l’origine genetica e il sesso biologico degli atleti. Il timore dell’Associazione di Tennis statunitense è che i comunisti possano sviluppare una generazione di atlete nate uomini che avrebbero superato le tenniste statunitensi sia sul piano fisico che su quello del gioco. Lo scontro legale andò avanti un anno, ma infine il giudice si pronunciò a favore di Renée emettendo una storica sentenza che le consentiva di partecipare allo US Open di quell’anno, il 1977. Molte sono state le atlete che si sono rifiutate di gareggiare con Renée nel corso degli anni, data la sua sproporzione fisica rispetto ai canoni del tennis femminile, ma molti anche i consensi, in particolare da parte di Billie Jean King e Martina Navratilova. Una conquista comunque che ha avuto più a che vedere con i diritti umani che con lo sport.
Un documentario molto interessante, che trasmette la forza, il coraggio e anche il sacrificio della vita di Renée Richards, un faro per la comunità LGBT, che però sta ancora tentando di sistemare le cose con il figlio Nicholas, che ha sofferto molto il cambio di sesso del padre, e che sta ancora cercando l’amore.

DUE FILM LESBICI

ALLES WIRD GUT di Angelina Maccarone

voto: 7/10

Nabu ha il cuore spezzato, ma non si dà per vinta: riconquistare Katja diventa lo scopo delle sue giornate. Per riuscirci si fa assumere come domestica da Kim, una donna in carriera così concentrata su se stessa da non avere neanche il tempo di rifarsi il letto. Col passare dei giorni tra le due sembra insinuarsi una sottile alchimia, fino a quando Nabu, riconquistata Katja, si rende conto di essersi innamorata di Kim, che a sua volta la ricambia in segreto, seppur fidanzata con un collega di lavoro. Confessare i propri sentimenti non è mai facile, ma alla fine ci penseranno le stelle ad unire questi due destini. Resta solo un problema: Dieter, il compagno di Kim, sta per chiederle di sposarlo. Accetterà?
Film divertente al quale non mancano certo i dialoghi, la trama e anche le scene d’amore, considerando che si tratta di un film tv del 1998.

SERVING IN SILENCE di Jeff Bleckner

voto: 7/10

Margarethe Cammermeyer, norvegese di nascita, è un colonnello dell’Esercito americano e una veterana del Vietnam, che dopo molti anni passati in prima linea decide di ritirarsi nella tranquillità di Seattle come infermiera della Guardia Nazionale. Madre di quattro figli, tutti mormoni, e con un matrimonio di quindici anni alle spalle, nessuno si sarebbe mai aspettato di vederla insieme a un’altra donna, probabilmente nemmeno lei stessa. Invece, poco dopo esser tornata a casa, incontra Diane Divelbess, una pittrice californiana di cui si innamora ricambiata. Siamo nel 1989, in pieno regime “don’t ask, don’t tell” e alla domanda relativa alla condotta immorale postale da un ufficiale dell’Esercito, Margarethe ammette candidamente di essere lesbica. A causa di questa dichiarazione riceve l’avviso di congedo. Il colonnello decide di non arrendersi e fa causa all’Esercito degli Stati Uniti per discriminazione e pregiudizio, con l’aiuto e il supporto della sua compagna, della sua famiglia e dei suoi amici. Commovente l’appoggio che i figli le hanno dimostrato, anche testimoniando a suo favore durante il processo. La legge è legge però e Margarethe non può far altro che accettarlo. Cinque anni dopo, nel 1994, viene stabilito che il suo fu un caso di ingiusta discriminazione e torna in servizio presso la Guardia Nazionale fino al 1997, anno in cui va in pensione.
Una storia vera che decisamente non fa rimpiangere il “don’t ask, don’t tell”, abolito nel 2011 da Barak Obama. Un film tv del 1995 che vanta collaborazioni illustri, come Barbra Straisand alla produzione e Glenn Close come attrice protagonista, ma che, in un’epoca ancora così chiusa restrittiva, non poteva osare tanto. “Serving in Silence” riesce comunque a trasmettere in pieno il sentimento d’amore che lega le due protagoniste, pur mancando di scene d’amore: tutta la passione è racchiusa in un unico, delicato, casto bacio.

(G. Borghesi)

Fabio Massimo Lozzi e Giovanni Minerba

Il regista Panayotis Evangelidis presenta il suo film ‘Diptych’

(Video a cura di R. Mariella e A.Schiavone)

IMMAGINI DELLA GIORNATA

Luciana Littizzetto alla conferenza stampa
Ugo Nespolo, presidente del Museo del Cinema
Luciana Littizzetto alla cerimonia di premiazione
Carmine Amoroso consegna il premio Dorian Grey a Luciana Littizzetto
Il regista Simon Chung con A. Golinelli presentano "Speechless"

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