Secondo giorno del 26mo Torino GLBT Film Festival

Superlativi i primi corti in concorso, ottimi i film (“80 Days” è splendido, quasi un capolavoro), interessantissimo il doc sul cinema gay francese. La giornata di Dario Argento, ospite del Festival.

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Da accaniti cinefili non potevamo mancare al documentario “De la Cage aux Roseaux” di Alessandro Avellis, sul cinema gay francese contemporaneo. Nel film alcuni dei maggiori autori e registi francesi omosessuali, tra i quali André Téchiné, Catherine Corsini, Gaël Morel, Olivier Ducastel et Jacques Martineau ci parlano di come hanno affrontato le tematiche gay nelle loro opere e che rilevanza hanno avuto in importanti film degli ultimi anni. L’amicizia virile e l’omosessualità nascosta, la censura e l’autocensura, l’omoerotismo, l’omofobia, il cinema gay come categoria, la misoginia nel cinema gay, il travestitismo, il cinema gay tra cinema d’autore e cinema popolare, le principale icone, il mondo gay come viene rappresentato nella tv francese (pochissimo e male, dicono tutti), sono tra i tanti argomenti che vengono discussi in modo estremamente interessante. Un film che ci aiuta a capire dove siamo e dove stiamo andando come protagonisti della settima arte. Un momento di sintesi utilissimo e fondamentale (bisognerebbe vederlo alla moviola per non perderne nessun fotogramma).

Nel pomeriggio abbiamo visto anche i primi documentari in concorso: secondo noi tutti di altissima qualità, tutti da premiare, e vi assicuro che non stiamo esagerando. Alessandro Golinelli ha detto, presentandoli, che i selezionatori hanno mirato soprattutto all’originalità, sia per i temi che per il modo con cui sono stati affrontati. A noi è parso che oltre all’originalità posseggano anche tutte le migliori qualità del vero cinema.

Short of Breath” (18′)della norvegese Aasne Vaa Greibrokk era l’unico a tematica lesbo: in un paesaggio nordico mozzafiato (neve sulla spiaggia di fiordi circondati da alte montagne) avviene l’incontro tra una scenografa che sta progettando un nuovo spettacolo di balletto (le sue visioni si materializzano in una coppia di ballerini sulla spiaggia) e una adolescente 17enne che vive sola con la nonna e che ha già ben chiari i suoi desiderata sentimentali. Estasiante. VOTO: 8

Masala Mama” (9′) di Michael Kam mescola la violenza omofoba di un genitore con la inattesa solidarietà che si viene a creare tra un negoziante gay effeminato (che si scioglie ogni volta che entra nel negozio un aitante poliziotto) e un ragazzino appassionato di fumetti. Alla fine entrambi si trasformeranno in supereroi. L’amore, di qualsiasi tipo, può vincere qualsiasi violenza. VOTO: 7

Santiago del otro lado” (11′) di Mauro Mueller, con una storia che riprende la scena clou di Brakeback Mountain (la moglie che vede il marito baciarsi con l’amico) qui trasformata in una ragazza innamorata e segretamente incinta che attende ansiosa l’offerta di matrimonio dal suo bellissimo ragazzo. Alla fine vinceranno l’ipocrisia e l’opportunismo mentre il viso della protagonista affonda nell’angustia più triste. Sconsolante. VOTO: 8

Spring” (13′) di Hong Khaou, dopo essere stati sollecitati per mesi dalle splendide immagine che ci arrivavano dalla pubblicità di questo corto, finalmente eccolo scorrere per intero davanti ai nostri occhi. Effettivamente i due protagonisti sono superbi e il più giovane ha un fisico ed un viso estasianti. La storia, forse già vista, è comunque accattivante. L’iniziazione sadomaso non è facile, ma il desiderio cresce e le aspettive sembrano corrispondere, fino a quando succede una cosa inattesa… Alla fine però qualcosa rimane, come ci rivela il soddisfatto sorriso del protagonista. Godibile. VOTO: 8

The Colonel’s Outing” (17′) di Christopher Banks. I due protagonisti sono over 70. S’incontrano in una casa di riposo famigliare. Uno è uno scrittore che passa il tempo a rileggere il suo unico libro pubblicato, l’altro è un colonnello celibe che vive rimpiangendo tutti i ragazzi che l’hanno fatto innamorare prima di convolare a regolari nozze. Diventano amici e forse qualcosa di più sotto lo sguardo prima perplesso e poi complice della figlia dello scrittore. Il romanticismo della terza età: invidiabile. VOTO: 8 ½

Love, 100°” (22′) di Kim Jho Gwang-soo, adolescenza, handicap e omosessualità possono diventare il paradiso ma anche l’inferno. Un ragazzino sordo e segretamente omosessuale trova l’amore nel massaggiatore gay velato della sauna dove viene mandato dalla madre per le pulizie del corpo. L’amore trasforma e risolve l’originaria timidezza del ragazzo che però dovrà arrendersi davanti alla violenza omofoba. Più di un corto, quasi un film. Struggente. VOTO: 9

80 DAYS di Jon Garano e José Mari Goenaga

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80 Days” (105′) degli spagnoli Jon Garano e José Mari Goenaga. Il capolavoro della giornata. Per la storia, per i personaggi, per gli attori di una bravura incredibile. Per il tema poco frequentato: l’amore over 70. Il titolo del film, che racconta l’incontro durato 80 giorni tra due donne anziane che si rivedono dopo 50 anni, vuole dirci in realtà che un’intera vita può essere contenuta in 80 giorni, quelli che fanno vivere alla protagonista la sua prima e unica grande storia d’amore. Axun ha avuto una vita normale, si è sposata con un bell’uomo, ha avuto una figlia che ora vive in America, ed ora lavora all’uncinetto mentre il marito gioca a carte nel paese. Non sa nemmeno che si possa amare una donna, o forse non ha mai avuto il coraggio di pensarlo. Ora anche la tv parla delle lesbiche, ma è un argomento che non piace a nessuno, nemmeno alle sue amiche del paese. Incredibile la bravura degli autori nel farci seguire un percorso di svelamento, di scoperta di se stessi, partendo da una situazione di completa estraneità al problema. Le due amiche si erano date un fuggevole bacio da adolescenti, ma poi solo una, Maite, aveva trovato e seguito la sua vera inclinazione, vivendo una vita aperta, intensa, con un grande amore lesbo e diventando una brava maestra di musica. Axun invece, aveva seguito onestamente un percorso del tutto normale. Ora suo marito l’ama ancora e non saprebbe vivere senza di lei. Il reincontro con Maite sarà finalmente rivelatore, Axun è perplessa e quasi incredula davanti all’emergere di un sentimento del quale forse non conosceva nemmeno l’esistenza. Ma le cose non saranno facili, non lo sono nemmeno se siamo giovani, figuriamoci a quell’età, dove tutto dovrebbe essere fossilizzato e definito per sempre. Ma in realtà non è nemmeno vero, ci ripetono le protagoniste, che i vecchi possiedono la saggezza, e che ormai conoscono tutto. Un grande film indimenticabile che ci fa conoscere un mondo nuovo, proprio l’opposto di vecchio.

GUN HILL ROAD di Rashaad Ernesto Green

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Gun Hill Road” (88′) di Rashaad Ernesto Green, secondo ottimo film in concorso. Il tema non è nuovissimo, la transfobia e il machismo di un genitore ispanico che vive nel Bronx, ma l’ambientazione tra nuovo e vecchio, tra la comunità lgbt emergente, con i suoi locali, il battuage, le amicizie e il machismo delle gang e la disperata volontà di avere una famiglia ‘normale’ con un figlio virile sono presentati in modo originale, con il bene e il male che si mescolano ovunque, e dove tutto è in evoluzione. Il protagonista dovrebbe essere il padre macho, appena uscito di prigione, desideroso di riprendersi la sua famiglia e il suo ruolo di padre padrone, come tutti i suoi compagni si attendono da lui. E’ disposte a perdonare i tradimenti della moglie (“non è normale stare tre anni senza sesso” concede alla moglie), ma quando scopre le tendenze transgender del figlio non riesce a sopportarle ed è disposto a fare qualunque cosa pur di recuperarlo alla mascolinità. Bellissimo il ruolo della madre che invece comprende ama ed aiuta il figlio Michael nel suo percorso. Bellissimo anche, in tutti i sensi, il personaggio di Michael, un 17enne che ha ormai chiarissimo il suo orientamento transgender, già alla ricerca dell’uomo giusto da amare ed in grado di accettarlo per quello che è (esemplari la scena del suo primo rapporto completo e della prima infelice uscita pubblica col suo amante). Uno struggente melodramma moderno.

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INCONTRO CON DARIO ARGENTO

Dario Argento è quest’anno testimonial della sezione del festival ‘Midnight Madness’ curata da Flavio Armone e inaugurata lo scorso anno, che presenta il cinema di genere in un’ottica LGBT . Dario Argento ha un rapporto stretto col festival gay di Torino, gliene aveva parlato sua figlia, che era stata anni fa entusiasta madrina del festival. Lo abbiamo ascoltato all’incontro con la stampa organizzato e introdotto da Fabio Bo dove il direttore del Festival Giovanni Minerba ha colto l’occasione per ringraziare il produttore Simone Morandi che ha reso possibile questo incontro e sta collaborando con Dario Argento nel suo prossimo film che girerà fra Biella e Torino. Flavio Armone ha introdotto i film della sezione, l’horror tailandese ‘Slice’ che parla di temi importanti, come omofobia e pedofilia visti in un’ottica particolare; ‘All about Evil’ una divertente black commedy americana pervasa di uno spirito camp; e ‘The Craving’, un’altra black commedia americana diretta da una giovane regista che si ispira all’opera di Dario Argento.
Flavio Aimone chiede a Dario Argento se, come ha detto certa critica, si vede come discendente artisticamente da Mario Bava e da un’altra parte da Sergio Leone.
Dario Argento ha risposto che Mario Bava era una persona di famiglia, già amico di suo padre, ma aveva un certo spirito molto diverso dal suo e quindi non crede di dovere molto a lui. Argento nei suoi film si è ispirato a spunti molto personali, legati alle sue letture, gli espressionisti tedeschi, e alla sua attività di critico cinematografico. Con Sergio Leone, Dario Argento ha lavorato quando ha scritto con Bernardo Bertolucci ‘C’era una volta il west’. Allora Argento era molto giovane. Con Leone, Argento parlava molto di cinema. Leone gli ha fatto capire quanto fosse importante la macchina da presa nel cinema, che è come la penna dello scrittore. Inoltre Leone insisteva sulla non verbosità del film, lui odiava i film molto parlati. A Leone, Argento deve anche un certo uso dei dettagli e dei primi piani.
Fabio Bo chiede ad Argento il suo rapporto con il cinema gay in generale, visto che in molti suoi film ci sono personaggi gay o comunque personaggi la cui identità era messa in discussione.
Dario Argento ricorda che infatti in alcuni suoi film ci sono personaggi gay importanti, come in ‘Tenebre’ c’era una coppia di lesbiche con un bellissimo ruolo. Poi anche in ‘Quattro mosche di velluto grigio’ c’era un protagonista che era un investigatore gay che moriva nel momento in cui scopriva l’identità dell’assassino. Per tante persone della sua generazione quando erano ragazzi l’omosessualità era inesistente, non se ne doveva parlare, non solo che non c’erano film sugli omosessuali, ma proprio non se ne parlava in famiglia, poi dopo è cambiato tutto quanto. Invece Argento è cresciuto in una famiglia del cinema, e casa sua era continuamente frequentata da registi, scenografi critici, omosessuali. Come un famoso critico amico del padre di Dario, con il quale egli giocava spesso a ping pong . Poi c’erano scenografi famosissimi, attori, ecc. però erano nascosti, non dicevano. Ma mio padre e mia madre dicevano, questo è omosessuale, quello li pure, quello è il suo fidanzato. Lui è cresciuto insieme a loro e quando ha cominciato a fare cinema per lui era normalissimo introdurre dei personaggi omosessuali.
Fabio Bo ha poi chiesto ad Argento perché ha inserito in almeno quattro suoi film dei personaggi omosessuali, se era una cosa casuale oppure voleva significare qualcosa. Dario ha risposto che li ha messi perché ci sono nella vita, sono tra noi, sono nostri fratelli, amici, compagni di lavoro, in un film devi raccontare la vita, e siccome ci sono gli omosessuali, perché non raccontarli. (R. Mariella)

JENTER MED BALLER di Kenneth Elvebakk

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6/10
   
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Protagoniste di questo documentario sono le daKINGS, un gruppo norvegese di drag king alquanto variopinto: l’eterogeneità delle donne che ne fanno parte sembra essere anche la chiave del loro successo, il loro punto di forza. Ognuna delle sei componenti interpreta un ruolo e un personaggio in particolare, da Elvis a Tom Jones, da un poliziotto in stile Village People a un uomo in giacca e cravatta alla Men In Black. Così, oltre alle esibizioni in comune, hanno tutte la possibilità di essere protagoniste a livello individuale durante lo show. Le daKINGS infatti si esibiscono abbastanza regolarmente in ambito locale e ora vorrebbero fare il salto di qualità. L’occasione si presenta con uno show che decidono di preparare con Malin, coreografa e compagna di Karine, una componente delle daKINGS. Si alza la posta in gioco e aumentano le tensioni e i dissapori all’interno del gruppo; emergono le personalità forti, come quella di Marit, che mal tollera l’idea di essere redarguita da Malin, quelle più deboli, che si eclissano piano, fino ad andarsene, come quella di Mervi. E’ evidente che il gruppo deve ritrovare la propria dimensione e la propria stabilità per poter proseguire nel proprio cammino, ma due caratteri tendenzialmente dominanti all’interno del gruppo metteranno a repentaglio il futuro delle daKINGS.
Il documentario in sé è diretto abbastanza bene, consente allo spettatore di stare al passo con l’evolversi degli eventi e di affezionarsi ai personaggi. Un po’ carente forse nel finale. Ciò che comunque salta maggiormente all’occhio è il tema trattato: le drag king. Qui in Italia si tratta di una figura più unica che rara, che suscita molta curiosità e molto interesse nel pubblico lesbico, ma non solo. Il regista invece non si sofferma sulla particolarità della tematica, dando quasi per scontato che lo spettatore sia immediatamente a suo agio. E probabilmente fa bene, è il modo migliore perché si abbia sempre più familiarità con l’ancora emergente figura della drag king. (G. Borghesi)

BLATTANGELUS di Araceli Santana

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8/10
   
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Quando si pensa al Messico, si ha in mente uno stato fortemente cattolico e probabilmente non ci si aspetta che riesca ad essere al contempo così liberale. Qui infatti le coppie omosessuali possono sposarsi e si sta discutendo su una legge che consenta l’adozioni alle coppie omoparentali. A colpire è forse soprattutto l’atteggiamento della gente, che in generale, almeno nelle città più grandi, si confronta con la realtà e con la comunità GLBT in modo abbastanza naturale e rispettoso. Per arrivare a questo punto ovviamente ci sono voluti tempo, pazienza e tenacia. E spiccano in questo senso personalità come quella di padre Jorge Sosa, reverendo della Chiesa della Riconciliazione messicana. Nel corso del documentario ci racconta la sua storia, fatta di pulsioni omosessuali represse e vissute come se fossero un peccato e una colpa per tantissimi anni. Data la sua formazione in scuole e collegi cattolici, Jorge Sosa è sempre stato vicino all’istituzione della Chiesa, fino a giungere a fondare un proprio ordine religioso, ovviamente non riconosciuto dal Vaticano, per appunto riconciliare la dimensione sessuale e quella spirituale dell’essere umano. A far più clamore però è il fatto che nella sua Chiesa si celebrino matrimoni omosessuali, soprattutto quando, negli ultimi anni, questo è stato uno dei temi più dibattuti anche in ambito politico. L’atteggiamento di padre Sosa è tranquillo e rassicurante, in contrapposizione con le rigide posizioni della Chiesa Cattolica Romana, la sua forza e il suo coraggio si esprimono attraverso calma e serenità. Ci si auspica che di persone come lui ce ne siano tante. Ma non per sovvertire “l’ordine naturale delle cose”, come la Santa Sede teme, ma semplicemente per riuscire ad abbracciare anche la comunità omosessuale, affinché abbia gli stessi diritti (e gli stessi doveri) di quella eterosessuale e affinché l’anima di tutte quelle persone tanto credenti quanto omosessuali non si spezzi e possa bensì trovare pace. Dopotutto, checché ne dica la Chiesa, l’unico peccato che l’omosessuale in quanto tale commette è soltanto quello di amare. (G. Borghesi)

CLAIRE OF THE MOON di Nicole Conn

Un cult lesbico molto audace, se si tiene conto che è del 1992, in cui le protagoniste si rincorrono e si scontrano per quasi tutta la durata del film in un climax ascendente. Alquanto denso dei classici stereotipi degli anni Novanta, con scenari e personaggi un po’ alla Baywatch, “Claire of the Moon” conserva comunque una dimensione poetica molto forte nei dialoghi e nelle musiche. Il pubblico del terzo millennio sorride nel vedere quei jeans a vita alta e quegli improbabilissimi computer di prima generazione, ma Nicole Conn ha avuto molto coraggio e lungimiranza nell’affrontare una tematica così scottante, con scene di sesso esplicite, baci saffici, masturbazione e con la figura della butch in camicia di flanella. Comunque, un rapido giro dall’estetista da parte delle protagoniste decisamente non avrebbe guastato! (G. Borghesi)

365 WITHOUT 377 di Adele Tulli

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7/10
   
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Questo lo slogan con cui il 2 luglio del 2010, in India si festeggiava il primo anniversario dell’abrogazione della Section 377 del Codice Penale Indiano. Tale legge, più o meno applicata nel corso degli anni, prevedeva la condanna da dieci anni di carcere fino all’ergastolo per gli omosessuali ed era stata introdotta nel 1860 dai coloni inglesi. 150 anni dopo, mentre qui in Italia, e a Torino in particolar modo, celebriamo l’unità del Paese, in India uno sparuto e festoso gruppo di gay, lesbiche e transgender festeggia il proprio diritto di esistenza.
Primo lavoro della giovane regista romana Adele Tulli, “365 without 377”, che vanta la collaborazione di Ivan Cotroneo, è un piccolo grande ritratto della comunità LGBTI indiana. I fili variopinti che reggono i titoli di testa e di coda e che tirano la trama del documentario sono una metafora perfetta delle svariate facce dell’India e del pionieristico lavoro della Tulli. Il ritmo e i colori avvolgono lo spettatore, mentre le scene di vita quotidiana riflettono i racconti di vita dei protagonisti. Tre personaggi soltanto, che comunque riescono a rappresentare le molteplici realtà sottostanti la comunità LGBTI: un ragazzo gay, una ragazza lesbica e una hijra (transgender). Ognuno di loro racconta con orgoglio la propria storia, dalla scoperta di sé al coming out, dai primi amori ai desideri per un futuro migliore. Perché, come sostiene uno dei protagonisti, per la comunità LGBTI indiana la lotta è appena cominciata. A dimostrazione di questo, il documentario include degli stralci di telegiornali e dibattiti sull’abrogazione della Section 377, in cui gli intervistati sembrano voler mettere alla gogna omosessuali e transgender.
Emblematico lo stacco sulle persone che si fermano a guardare, probabilmente spinte dalla curiosità, i festeggiamenti del 2 luglio: appoggiate a una cancellata, sembrano dietro le sbarre. Chi è davvero in prigione? I gay, che vivono semplicemente secondo la propria natura, o chi li demonizza, schiavo dei propri pregiudizi?
Nonostante tutto comunque, il documentario trasmette tanta speranza e tanta voglia di vivere e di essere se stessi, sia attraverso le parole dei protagonisti sia grazie alla musica e alla fotografia, che senz’altro rendono giustizia a un paese esotico e particolare come l’India. (G. Borghesi)

DIFFICULT LOVE di Peter Goldsmid e Zanele Muholi

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“Difficult Love” è un documentario sull’arte, sul lavoro e sulla passione di Zanele Muholi, giovane fotografa sudafricana, e una fotografia della situazione delle lesbiche nere in Sudafrica.
Zanele Muholi è un’artista fuori dal coro, che non ha paura di essere se stessa e di lottare per le altre lesbiche di colore sudafricana. Le sue fotografie sono la sua presa di posizione e vogliono rappresentare il lato migliore della comunità lesbica: l’amore. Sono fotografie molto intense: lo sguardo, il modo di vestire, la postura dei soggetti sono estremamente carichi. Metafora della pesante situazione che le lesbiche nere sono costrette a subire in Sudafrica. Una fra tante, la testimonianza diretta di Millicent Gaika, la cui storia ha commosso il mondo soltanto pochi mesi fa: stuprata e picchiata per quasi una notte intera soltanto perché lesbica, è quasi irriconoscibile. Dai suoi occhi, quasi completamente chiusi a causa delle percosse, faticano a scendere anche le lacrime. Eppure il messaggio che tuona più forte, oltre alla condanna all’omofobia, è la voglia di ricominciare di queste donne, il riuscire ad apprezzare ed essere contente di quello che hanno, che per noi non è niente.
Un documentario che fa riflettere e che nelle due parole del titolo sintetizza il suo contenuto: la difficoltà di essere donne lesbiche nere sudafricane, come si identifica Zanele Muholi, e la voglia di vivere e di amare in quanto tali. “Difficult Love” riesce al contempo a farci apprezzare quello che abbiamo, che per noi è poco, ma per altri potrebbe essere un mondo, e a farci sentire piccoli piccoli, proprio perché talvolta non riusciamo a riconoscere la fortuna che abbiamo e che dopotutto è puramente casuale, determinata dalle coordinate spazio-temporali della nostra nascita. (G. Borghesi)

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DRAMA di Matia Lira

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Il cileno Drama di Matias Lira è uno psicodramma incentrato sul tema dello scambio tra la vita reale e il palcoscenico. Un enigmatico e quasi mefistofelico insegnante di regia teatrale, spinge i suoi allievi a cercare nella vita reale quelle forti emozioni che poi serviranno a rendere l’interpretazione sul palcoscenico sempre più intensa . Tre ragazzi della compagnia, il bisex Mateo, la sua fidanzata Maria e il gay Angel vanno troppo oltre nelle loro sperimentazioni sulla strada, portando in superfice aspetti del loro io tenuti repressi e facendo riaffiorare episodi del passato dimenticati, come un’oscura storia riguardante la madre di Mateo scomparsa ai tempi della dittatura cilena, vicenda alla quale non è estraneo l’insegnante stesso, che invade prepotentemente nelle vite private dei suoi allievi. Come a volte accade nel cinema sud americano, c’è qui molta carne al fuoco e sebbene il film sia visivamente molto bello risulta a tratti eccessivo e di difficile lettura. (R. Mariella)

FIT

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Il regista di Fit, Rikki Beadle-Blair, già noto per aver diretto la serie tv ‘Metrosexuality’, avrebbe dovuto essere presente, ma purtroppo non ce l’ha fatta e quindi il film è stato presentato da un curatore della programmazione del festival. Questo film fa parte di un progetto educativo molto più ampio di film prodotti da Rikki per le scuole medie e superiori all’interno di un’ associazione per l’uguaglianza dei diritti dei gay che si chiama Stonewall, che in Inghilterra si occupa di lotta al bullismo. Il film è girato con un modello vagamente televisivo con attori professionisti ma giovani. Scritto diretto e interpretato (nel ruolo protagonista dell’insegnante di danza) in modo decisamente divertente da Rikki Beadle-Blair, questo film doveva essere il film di apertura del festival, ma non si è potuto fare così per motivi di formato. E’ un modello che dovrebbe ispirare anche i nostri educatori per cercare di superare i problemi di difficoltà di accettazione delle diversità all’interno delle scuole.
La storia è quella di una classe di ragazzi difficili che devono seguire lezioni di danza per poter rimediare alla loro espulsione, per i più svariati motivi, dalle classi del loro corso di studi normali. Prendendo spunto dalle singole storie dei ragazzi, vengono trattati molti temi legati al coming out, all’accettazione di se stessi e da parte dei genitori e degli amici, il bullismo, l’omosessualità repressa, l’importanza del ruolo dell’insegnamento e delle associazioni nel fornire supporto psicologico e nel dare consigli e informazioni ai ragazzi. Il merito principale del film è nel dire tutto questo in maniera assolutamente divertente, sulla falsariga della fortunata serie televisiva Glee. Gli spettatori più avanti in età potrebbero invece trovare il film un po’ didattico. (R. Mariella)

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