LE MEDUSE DI TRAVEMÜNDE

L’autore e artista Mirko Lamonaca ci presenta il suo primo romanzo, una intensa storia di omosessualità, tradimento e dissoluzione famigliare, raccontata con delicatezza e senza esasperazioni.

Le meduse di Travemünde raccoglie, nella Lubecca dei giorni nostri, dodici giorni di vita di una famiglia, gli Pfaler, in occasione dell’arrivo in città di Matteo, un ragazzo italo-tedesco ospitato per una vacanza estiva. Un rapporto non svelato, irrequieto e tacito nascerà tra Matteo e Peter, secondogenito degli Pfaler, esasperato dalla presenza di Thomas, amico e compagno di Peter. Una telefonata ricevuta dal padre di Peter sconvolgerà la quiete della famiglia, sulla quale si nasconde un segreto, custodito per quasi vent’anni, che lega Matteo alla famiglia più di quanto nessuno dei protagonisti immagini e che solo nell’ultimo breve capitolo troverà soluzione.

L’amore omosessuale, l’accettazione rassegnata dell’abbandono e del tradimento, la fine dei rapporti famigliari, sono le tematiche principali del testo.

Matteo e Peter sono le due voci narranti principali, a cui si affiancano presto, in un’alternanza dosata, quelle di Nadine e di Juergen (genitori di Peter), di Thomas (compagno di Peter) e di Amanda (amante di Juergen e, si scoprirà solo sul finale, madre di Matteo). Ospite degli Pfaler, oltre alla cordialità di Nadine e all’indifferenza di Juergen, Matteo dovrà riconoscere la tenerezza che genera in lui l’insicurezza di Peter, e la sua solitudine; non potrà però che assistere impotente prima al distacco tra i genitori del suo nuovo amico e fratello e poi all’abbandono da parte di Thomas.

Il testo è suddiviso in dodici capitoli corrispondenti a ciascuno dei giorni della presenza di Matteo in Germania. Ogni capitolo, a sua volta, è suddiviso in micro-capitoli in cui, in continua alternanza, i protagonisti vivono e descrivono in prima persona la narrazione.

La città scelta per l’ambientazione è Lubecca, che ho cercato di descrivere con lo spirito di osservazione proprio di un turista, quale è Matteo, che si trova ad affrontare per la prima volta nella vita un viaggio, da solo, all’estero. La decisione di scrivere il testo in prima persona e di assegnare a tutti i personaggi parte della narrazione è pensata con l’intento di enfatizzare il lato più intimo, insicuro e debole dei personaggi principali, che giungono a rivelare e ad auto-rivelarsi quanto di più rappresentativo della propria individualità: l’infedeltà, rappresentata da Juergen, padre e marito non esemplare, l’autolesionismo di Thomas, la rassegnazione di Nadine di fronte alla rovina della sua condizione di moglie, la continua rinuncia e sottomissione di Peter, l’ostinazione di Matteo nella ricerca e nella scoperta di un padre e di un fratello per molto tempo negati, la tenacia di Amanda, amante di Juergen e madre di Matteo, nel tentativo di avvicinare il figlio ad un padre conosciuto attraverso lo stratagemma di una vacanza.

Mirko Lamonaca
Vedi sito di Mirko Lamonaca
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LE MEDUSE DI TRAVEMÜNDE
Romanzo – Voras Edizioni – 176 pagine – € 13,50
ISBN: 978-88-96253-10-6

disponibile in libreria e presso:

www.vorasedizioni.it

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Dalle prime pagine del romanzo:

PRIMO GIORNO

Matteo

La prima sensazione è il freddo. Il mio primo volo. Il mio primo viaggio da solo. Fa freddo, e ho paura. Il cielo è uno e copre tutte le distanze. Un cielo senza nuvole, cristallino. Un cielo che è aria fredda e secca. Un cielo che è spazio aperto, senza inizio e senza fine. Non so spiegarmi come possa esserci così tanta luce: a quest’ora, in Italia, è già buio.
La seconda sensazione è il disincanto. Mi ero immaginato una pista d’atterraggio immensa, decine di grossi aerei, un edificio imponente e pareti in ferro vetro, un viavai di sirene lampeggianti e rumore di turbine, messaggi agli altoparlanti per affrettare all’imbarco i passeggeri del volo in partenza. Non è così: quello che trovo è un prefabbricato di lamiera e manifesti di benvenuto che hanno il sapore di una fiera locale. Un solo altro mezzo occupa la pista, una compagnia aerea che non ho mai sentito nominare.
Seguo i compagni di volo verso l’ingresso degli arrivi. Il poliziotto che mi ha chiesto di mostrare i documenti fa segno di passare: tutto a posto, tutto regolare. Ho messo piede in Germania per la prima volta.
Sono cresciuto in una famiglia italotedesca, una famiglia bilingue. Conosco a memoria le canzoni popolari che mamma mi cantava quando ero bambino, conosco le fiabe, la geografia, un po’ di storia, i film che mamma portava a casa al ritorno da ogni viaggio. Conosco la modernità e i mutamenti quotidiani di Berlino, le piste ciclabili, le feste di piazza, le autostrade senza limiti di velocità. Mamma desidera che mi senta fiero di essere anche tedesco. Le rispondo sempre di esserlo: so di farla felice.
Nata a Colonia, mamma ha vissuto a Lubecca, lavorando in un bar, poi in un negozio di pianoforti. Tra le sue amicizie, in particolare, ci fu un uomo. Fecero conoscenza in un museo, il St. Annen. Mamma lavorava nel ristorante vicino alla sala d’ingresso. Si frequentarono, si innamorarono, si vollero bene. È così che sono stato concepito a Lubecca, benché sia nato a Bergamo, nell’Italia
del nord. Papà, lui non si è mai trasferito: è rimasto in Germania con una famiglia cui apparteneva già da tempo. Mi ha cresciuto un altro uomo, un uomo che ho chiamato papà, che ha vissuto con noi per qualche anno. Se n’è andato. Forse per un’altra donna, forse per noia. Mamma non ha mai voluto mostrare di soffrire per la separazione. Mamma era preparata. Quando vieni abbandonato una volta, ti aspetti che succeda ancora, ne fai solo una questione di tempo. Neppure io, a essere sincero, ho accusato un duro colpo: con me è rimasta mamma. È rimasta la mia stanza, la strada di casa, il parco di Sant’Agostino dove studio, dove mi sdraio per leggere, dove vado a correre o ad ascoltare musica. È rimasta la nostra lingua, quelle parole incomprensibili per Paolo, lui che si arrabbiava sempre quando mamma e io ci isolavamo nel rifugio del nostro vocabolario esclusivo. Certe sere Paolo mi manca, ma non ho mai fatto parola di questo con mamma: a casa, i miei padri sono un argomento vietato.

Peter

Questa baracca di Golf si è spenta di nuovo. Mamma dice che la cambierà l’anno prossimo. Sono anni che lo dice. Cerco di riavviarla, la macchina traballa, si scuote e si riaccende. Le automobili, io non sono mai riuscito ad amarle: per me ci sono i treni. I treni non sbagliano direzione, non restano bloccati nel traffico e trovano sempre parcheggio. I treni sono puntuali, la maggior parte delle volte, e se non ti addormenti, o se almeno ti svegli poco prima della tua fermata, ti portano esattamente dove devi andare.
Il parcheggio dell’aeroporto è pieno di auto, ma non c’è quasi nessuno sul piazzale. Mi fermo sul bordo della strada posteggiando l’auto per metà sul prato per non ostacolare il traffico. Il traffico, che umorismo: non passa mai nessuno da queste parti. Qualche auto a noleggio, gli autobus che vanno e vengono dallo ZOB, taxi sempre uguali perennemente in sosta all’ingresso, nell’attesa del prossimo volo in arrivo, la speranza di un viaggio più lungo del solito, casomai qualcuno diretto a Lüneburg, a Ratekau, ad Ahrensbök.
Naturalmente sono in ritardo.

Matteo

Eccomi qui, in piedi come un soldatino di ferro. Una valigia nera che mi arriva alla vita, la borsa verde di stoffa consumata a tracolla, sotto l’insegna di Sweets & Goods, uno di quei negozi che vendono qualsiasi cosa e che si dimenticano non appena si volta l’angolo. Sigarette, dolci di gomma, souvenir, carte geografiche, guide turistiche, dischi a basso costo con le cover di grandi cantanti eseguite da gruppi specializzati in cover di grandi cantanti. Come un soldatino resto ad attendere che tu venga a prendermi. Vedrò la tua faccia, quella vera, non più solo una fotografia o il video sgranato di una webcam. Sei biondo, ti radi i capelli con la macchinetta, hai orecchie sottili e labbra fini. Le foto che mi hai mandato parlano bene di te. Non è solo bellezza: il tuo sguardo è buono.

Peter

Ti credevo più alto. E, diavolo, quanto sei magro. Hai una valigia enorme e sei vestito come se fossi appena atterrato in Islanda. Perché ogni anno arrivate tutti addobbati come se doveste affrontare una missione sui ghiacciai?
Se volessi non potrei tornare indietro, fingere di non averti visto, di aver frainteso il tuo sorriso, di aver sbagliato persona. Intravedo i nostri profili riflessi nel vetro sporco del negozio. Ti porgo la mano. Ti guardo negli occhi, cercando di apparire calmo, un padrone di casa sicuro di sé. Non smetti di sorridere. Mi offri denti bianchissimi e occhi verdi, due occhi stupendi.
«Ciao, Peter».
«Ciao».
Hai una voce da ragazzina: questo non l’avevo immaginato. In effetti, non ho mai pensato alla tua voce prima d’ora. Leggo un’aria femminile nei tuoi gesti, nel modo in cui mi porgi la mano o afferri la maniglia della valigia, nel tuo sorriso, quel tuo abbassare la testa.
Sento che devo trovare, ora, in questo preciso momento, parole, parole per chiederti qualsiasi cosa e non cadere nell’imboscata dell’impaccio e del mutismo. Chiederti del volo, naturalmente: si domanda sempre a un visitatore come sia trascorso il viaggio appena terminato. Le parole arriveranno, ma non ne sono sicuro.

Matteo

Non so guidare. Come potrei: ho a malapena diciotto anni. Mi attende ancora un anno di liceo, il peggiore, l’incubo della mia vita. Non sono mai stato all’estero prima d’ora, conosco solo la forma della mia stanza, le strade che mi portano a casa ogni giorno, i rumori e le voci di un luogo che non conosco, una città che gli aerei hanno reso meno distante. A giudicare da quest’incontro, temo di essere atterrato su un pianeta lontano.
Tu, tu sei più grande: hai vent’anni e hai la mano sudata.
«Hai viaggiato bene?»
La tua prima domanda, scontata.
«Sì, un volo perfetto».
La mia prima risposta, geniale, da competizione. In verità non ho termini di paragone. Non so cosa sia un volo perfetto. Prima di questo pomeriggio non sono mai salito a bordo di un aereo. Volare è straordinario. Le case che minuto dopo minuto si fanno più piccole, il mondo è un plastico, quando siedi al finestrino di un aereo. Le montagne, la neve a giugno che non vedi dalle strade di casa, ma c’è, nascosta negli incavi delle alture, il lago di Como, le nuvole sottili e poi di nuovo le montagne si fanno più morbide e capisci di esserti lasciato l’Italia alle spalle. Così, minuto dopo minuto, a un’altezza stabile, sei già altrove: è la Svizzera quella che vedi là sotto, e non conosci niente, non sai più dove sei, perché non distingui le forme che ti appartenevano e che hai lasciato dietro di te. È solo allora che il viaggio inizia davvero.
Ti rendi disponibile a portarmi la valigia. Prima di attraversare la strada vorrei salutare il tassista che prima del tuo arrivo si è offerto di portarmi in centro per sedici euro, quasi fosse stato un prezzo speciale, ripetergli che non ho bisogno di lui, perché ci sei tu. Poco importa che sia arrivato con venti minuti di ritardo.

Peter

«Quindici minuti. Non ci metteremo di più».
Te lo dico per scongiurare che ti spaventi per quest’auto che sta in piedi solo perché non cade.
«Mamma lo dice sempre: la cambierà l’anno prossimo».
Al semaforo di Mülenthor-Platz la Golf si spegne di nuovo. Non riesco a riaccenderla e la poca stima che ho faticato a trovare la perdo nel primo colpo di clacson della Mercedes che ci sta dietro. Mi volto, accenno un segno di scuse con la mano, mi scuso anche con te che rispondi di non preoccuparmi, che non c’è problema, che non è colpa mia.
«Avrei dovuto prendere l’Audi di papà, ma non era in casa quando sono partito».
La macchina si riprende, per fortuna, e il semaforo ancora verde mi concede generosamente il tempo di attraversare l’incrocio. Entrati in Wallstrasse, la via di casa, rallento. Sul pavé la Golf traballa. Faccio una battuta per commentare lo stato di questo trabiccolo, ma tu non capisci. È meglio così: non avrebbe riso nessuno, in ogni caso.
Lubecca. Wallstrasse. La nostra strada: la strada che sarà anche tua. Questi alberi, questi mattoni, il canale, le barche di legno, le biciclette.

Nadine

I ragazzi arriveranno a momenti. Ho sperato di poter dare a Matteo il benvenuto in una sera come questa. A quest’ora i colori dello Stadttrave si rispecchiano sui vetri delle finestre, i riflessi dell’acqua del canale brillano sui muri, e si possono già sentire le prime rane. Non sai dove siano nascoste, non oltrepassano mai lo steccato del giardino, ma da qualche parte, tra la sponda del canale e il prato, lungo i cancelli, forse negli scafi delle barche di legno, si presentano puntuali, invisibili. Rimarranno giusto il tempo in cui te ne starai seduto sul prato, sulle poltrone della terrazza, oppure disteso sul letto della stanza, con le finestre aperte.
È cominciato tutto cinque anni fa, con l’arrivo di Jorge, il ragazzo di Salamanca. Fu una mia collega alla MarienSchule, la signora Bodenmüller, a insistere perché anche noi c’iscrivessimo nella lista delle famiglie per l’accoglienza dei ragazzi stranieri nei mesi estivi. Juergen si era opposto, era contrario all’idea di trovarsi degli sconosciuti per casa: non avevamo mai ospitato qualcuno che già non conoscessimo, qualcuno che non fosse un parente, un amico, il fidanzato di Luise. Fu invece un’esperienza meravigliosa, e fu proprio Juergen a insistere per continuare. Così, dopo l’anno di Jorge ospitammo Eric, il ragazzo francese di Arles. Poi Sophie e Pamela, le gemelle inglesi. Poi Marcelo, lo studente portoghese che restò con noi più di un mese; per poco non me ne innamorai. Mantenni con lui una corrispondenza che durò quasi un semestre. A un certo punto smise di scrivermi, con la leggerezza di cui solo i giovani sono capaci. I giovani dimenticano i vecchi. I vecchi devono imparare a riconoscere quel limite impreciso che li separa dal cuore dei giovani: non porta niente di buono.
Sento il baccano di una valigia saltellare sui mattoni di pietra che circondano la casa: Peter ha parcheggiato la Golf sul retro. Sono desolata che mio figlio sia arrivato in aeroporto con quella ferraglia; fortunatamente l’anno prossimo la cambierò.
«Quanto sei magro, santo cielo».
«Buonasera, signora Pfaler».
«Sei persino più magro di Peter».
«Avete una casa bellissima».
Le sue linee non mentono: è tedesco. Il suo accento è forse difettoso. Sua madre, però, è stata brava, ha guardato lontano. Le nostre origini sono inseparabili da noi: a volte non le riconosciamo, possiamo tentare di mascherarle, cancellarle, ce ne possiamo dimenticare, fare di tutto per ignorarle, ma le portiamo addosso, restano nelle nostre ossa e alla fine ci chiamano, gridano, e non possiamo fare a meno di prestare ascolto.
«Benvenuto a casa»…


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