La morte di Mario Monicelli, un grande Maestro del nostro cinema migliore, ci ha lasciati amareggiati anche per come è avvenuta. Era una notizia che prima o poi sarebbe arrivata, vista l’età (95 anni), ma ogni volta che leggevamo di Lui, sempre in prima linea, sempre con interventi lucidi e vitali, come lo scorso anno quando è andato dai terremotati dell’Aquila per incoraggiarli, o come quando interveniva ultimamente sulla necessità di difendere la cultura, ci sembrava che fosse ancora, come sempre, innamorato della vita e pronto a qualsiasi lotta per migliorarla. Da dieci anni era tornato a vivere da solo, adesso stava lottando contro una malattia inguaribile. C’era stato un brutto segnale quando poco tempo fa aveva rifiutato il Premio della Legion d’Onore. Alcuni che lo hanno visto recentemente hanno detto di averlo trovato depresso, che probailmente soffriva di solitudine. Triste quel Paese che non è capace di accompagnare i suoi eroi verso una fine decorosa, costringendoli a un gesto solitario di estrema durezza. Un gesto che probabilmente era rimasto dolorosamente in fondo al suo cuore da quando giovanissimo, nel 1946, aveva trovato, nel bagno di casa, il corpo esanime del padre suicidatosi con un colpo di pistola alla testa.
Monicelli viene definito il padre della commedia all’italiana, un degli autori più grandi del novecento cinematografico italiano. Debutta nel cinema con un adattamento amatoriale di “I ragazzi della via Pal” (1935) premiato alla Mostra di Venezia. Collabora dalla fine degli anni ’40 con Steno in sette film, tra i quali “Totò cerca casa” e “Guardie e ladri“. Inizia a realizzare una perfetta sintesi tra lo spettacolo leggero, la farsa e una accesa sensibilità verso i temi sociali e gli affanni quotidiani. Nei suoi film più importanti del primo dopoguerra, quelli che segnano la nascita della commedia all’italiana (“I soliti ignoti“, “La grande guerra“), e nelle opere successive (L’armata Brancaleone, La ragazza con la pistola, Amici miei, ecc.) non troveremo mai volgarità o ridicolizzazioni degli omosessuali, come accadeva spesso nel cinema popolare di quegli anni. Nel 1963 scrive con altri la sceneggiatura di “Frenesie dell’estate“, una commedia grottesca di Luigi Zampa, dove vediamo un colonnello (interpretato da Gassman) che entra in crisi con la propria virilità quando si sente attratto da un travestito che non riesce ad essere una vera donna. Con “Romanzo popolare” (1974) affronta tematiche importanti come l’immigrazione, l’estremismo e la crescita della coscienza femminista. Con “Caro Michele” (1976) traspone cinematograficamente il bellissimo romanzo della Ginzburg che ha come protagonista invisibile un omosessuale deluso dalle vicende del ’68 (nel film vediamo il suo ex amante Osvaldo). Nel 1991 dirige “Parenti serpenti“, un intenso e desolante ritratto della piccola borghesia della provincia italiana, dove tra i membri della famiglia troviamo lo scapolo Alfredo che confessa di essere omosessuale e di convivere con un uomo.
Con la morte di Monicelli abbiamo perso uno degli autori più sensibili del secondo novecento, un artista che ha saputo coniugare lo spirito popolare e la satira di costume ad una intelligente, e spesso malinconica, riflessione sulle debolezze del nostro secolo.