"Stanno tutti bene" e "The Social Network"

Due film appena usciti, diversissimi, ma entrambi notevoli e con tante cose da dirci. Il primo sulla capacità di accettare gli altri per quello che sono e il secondo sul fatto che successo e soldi non sempre danno la felicità.

Due film appena usciti sui nostri schermi meritano da parte nostra una particolare attenzione. Il primo è “Stanno tutti bene” (distribuito in 229 copie), scelta facile perché il film è da mesi sul nostro database, il secondo è “The Social Network” (distribuito in 289 copie), scelta anomala nei nostri costumi perché il film non entra nel nostro database (causa voto della redazione di 4 contro 1).


(De Niro con Drew Barrymore, la figlia lesbica)

Iniziamo con “Stanno tutti bene” di Kirk Jones, film trainato commercialmente dalla superba interpretazione di Robert De Niro. Si tratta del rifacimento USA dell’omonimo film di Tornatore del 1989, premiato con David di Donatello e Nastro d’Argento, con Marcello Mastroianni protagonista, anch’esso premiato dal Sindacato Nazionale dei Critici. Il rifacimento americano (che non capita spesso per film italiani) segue l’ossatura della storia ma aggiorna sia i personaggi che alcune situazioni. La storia racconta di un padre che rimasto vedovo vuole riavvicinarsi ai figli, ormai adulti e sistemati in giro per il Paese, che in passato erano stati seguiti più dalla madre che da lui. I figli di De Niro si sono ridotti a quattro anziché i cinque di Mastroianni (per un americano sono già tanti quattro) e hanno tutti nomi e storie differenti dall’originale italiano (essendo ambientato negli USA). Tosca è diventata Rosie (Drew Barrymore), che non è più una madre single ma una lesbica che vive felicemente con la compagna (interpretata da Katherine Moennig, la Shane di The L Word) e il loro bebè. Lasciamo a voi il piacere di scoprire le identità e la sorte degli altri figli.

Il film è molto coinvolgente e si segue con una certa trepidazione che rispetta però l’atmosfera malinconica dell’originale, che qui però viene riscattata e capovolta nell’ultima bellissima scena del film. Mentre nell’originale vedevamo Mastroianni che alla fine del film, tornato a casa, si sente uno sconfitto, e recatosi sulla tomba della moglie le dice sommessamente quello che lei avrebbe voluto sentirsi dire, cioè che i figli “stanno tutti bene”, la versione americana diventa invece una bella parabola sull’alterità, sulla diversità, sul fatto che più dei nostri desideri e delle nostre aspettative conta la felicità delle persone a cui vogliamo bene, che dobbiamo imparare ad accettare per quello che sono. Nel film la figlia lesbica risulta uno dei personaggi più affettuosi e legata al padre ( i suoi abbracci sono i più lunghi e i suoi sguardi i più amorevoli), anche se non ha mai avuto il coraggio di rivelare al padre la sua inclinazione, più per paura di deluderlo che per altro, consigliata anche dalla madre che invece sapeva tutto.
Nulla di nuovo direte, ma raccontato con grande partecipazione, finezza e un pizzico di ironia giusto per risparmiarci l’uso dei fazzoletti.


(Mark e il suo miglior amico Eduardo)

“The Social Network” di David Fincher (regista di “Fight Club” e “Il curioso caso di Benjamin Button”), acclamato da tutta la nostra critica (una media di quattro stelle contro le misere due di “Stanno tutti bene” che non sarebbe all’altezza dell’originale, nemmeno il protagonista De Niro rispetto a Mastroianni), non ha nessun ruolo lgbt dichiarato (per cui non entra nel nostro db) ma per il sottoscritto ha il protagonista principale, il celebre e miliardario Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg), assai ambiguo sul suo orientamento sessuale (stiamo parlando del film, non della realtà che ovviamente non conosciamo). Il film è comunque molto ben fatto, non ha quasi nulla di spettacolare, e richiede una particolare attenzione, almeno all’inizio, per seguire i fitti e veloci dialoghi. In poche parole racconta la storia dei processi in cui Zuckerberg deve difendere prima la paternità della sua creatura, Facebook, e poi l’esclusione dall’impresa del suo ex socio e miglior amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield).

Il suo rapporto con le donne viene chiarito subito dalla prima scena del film, dove viene abbandonato dalla sua ragazza Erica Albright (Rooney Mara). Mark parla con Erica con estrema freddezza e distacco, come se stesse davanti ad un codice da sviluppare o decifrare. Vorrebbe tenersela, probabilmente come rappresentanza, come si faceva nel medioevo con le famose “donne dello schermo” di dantesca memoria. Per Mark contano molto di più le amicizie maschili, che praticamente si riducono al suo amico di sempre Eduardo, che invece sa apprezzare molto bene la compagnia femminile, e che vede in Mark, oltre all’amico, anche una possibilità di fare affari. A Mark comunque, sempre davanti al computer, l’amicizia di Eduardo basta e avanza. Fino a quando non compare sulla scena il bello e vivace Sean Parker (il sempre più bravo Justin Timberlake), fondatore di Napster, per il quale Mark prende una improvvisa e potente ‘cotta’ (si sente subito in sintonia), tanto da lasciare perdere il fedele Eduardo (che aveva fino a quel momento impiegato tutti i suoi soldi per aiutarlo). Abbandono e tradimento pilotati dal furbissimo Sean, superdonnaiolo che sfrutta abilmente il suo fascino sul genietto informatico Mark. Il film spinge moltissimo sull’eterosessualità di Eduardo e di Sean, i suoi grandi amici, che vediamo sempre a caccia di belle ragazze, facendo risaltare ancora di più la misoginia del nostro eroe, e la sua incolmabile solitudine davanti al computer. Per di più Mark non si dimostra nemmeno attaccato ai soldi (che pure arrivano a miliardi) e rimane quindi umanamente povero, sbilanciato, probabilmente infelice appena si allontana dal computer. Senza dimenticare che durante il processo contro il suo migliore amico Eduardo, Mark sembra quasi soffrire più che gioire della sua rivalsa.

A noi il film è piaciuto moltissimo proprio perché riesce a presentarci un personaggio difficile, che dovrebbe essere felice per il successo raggiunto, ma che invece ci viene consegnato con tutte le sue contraddizioni, che ce lo rendono umano e alla fine anche limitato, vincente e perdente nello stesso tempo. La critica ha visto nel film una sottile analisi del capitalismo, dei suoi spesso crudeli meccanismi che in nome del successo possono sacrificare qualsiasi cosa. Aggiungiamo noi, anche la verità e la felicità.


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