VENEZIA 67 EN EL FUTURO: NOWHERE, ROAD TO NOWHERE

Un giudizio poco esaltante e motivato dei premi di Venezia 67 da parte di Cosimo Santoro che ci ricorda invece i titoli più interessanti passati sugli schermi del Lido (quest’anno pochissimo gay)

Si è chiusa la 67esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, quella che, per dirla con tanti, quest’anno avrebbe dovuto superare il Festival di Cannes per qualità dei titoli in programma e prestigio dei suoi registi; almeno sulla carta, perché quest’anno, a Venezia, di bei film se ne sono visti davvero pochi.

Una giuria composta per lo più da registi asseconda la volontà e i legami affettivi e professionali del suo Presidente e decide di premiare film di buon impianto produttivo, in cui il compromesso tra la scrittura e le immagini ha come risultato un desolante effetto di medietà, tralasciando, con dichiarata e disarmante convinzione, opere in cui il cinema, con i suoi codici e i suoi stilemi, lo si è respirato davvero. In un panorama contemporaneo in cui la produzione cinematografica è vittima delle sempre più sanguinarie leggi del mercato, ed è sempre più netto il divario tra produzioni che godono di ingenti supporti e produzioni che hanno nel talento dei registi l’unica arma da giocare, c’era bisogno che anche da un contesto come quello di un Festiva Internazionale d’Arte (parola di tradizione non messa a caso) Cinematografica, con in giuria chi il cinema lo fa in prima persona, arrivasse un segnale così sconfortante per tutto quel cinema vitale, creativo e di qualità che parte già penalizzato nelle risorse di budget? Che senso hanno i premi di Venezia 67? Chi aiutano?

Che senso ha premiare Sofia Coppola, che ha firmato un’opera definita minimalista, intima, delicata e che ad alcuni ha fatto pensare addirittura ad Antonioni e alla incomunicabilità dei sentimenti (aggettivi fuori luogo e grazie al cielo Antonioni non vedrà questo film), in realtà un vero e proprio pasticcio sentimentalista e medioborghese in cui lo snodo del rapporto centrale tra padre figlia rasenta anche momenti di racconto involontariamente trash e in cui la Star protagonista del film alla fine decide di lasciare la macchina in autostrada e di iniziare a camminare a piedi verso l’ignoto (ma chi lo farebbe oggi?). Oppure che senso ha l’aspettare vent’anni per poi vedere il nuovo e totalmente innocuo film di Monte Hellman, uno che è stato un vero poeta di immagini e che (lui si) ha fatto del cinema minimalista la sua strada, tutto patrimonio che con “Road to Nowhere” sembra essere andato completamente perso a vantaggio di una storiella accattivante pensata per vendere? Non è di certo questo un film in grado di poter suggerire un Premio all’opera complessiva; anzi, semmai viene voglia di fare un passo indietro. Lascia perplessi anche il Leone assegnato ad Alex De La Iglesia, appartenente a quel gruppo di registi che sono stati “famosi” negli anni Novanta, autore di un’opera calligrafica, tra l’altro su un tema mai affrontato dal cinema spagnolo (il Franchismo!), scritta a tavolino, grottesca a suo modo e come sempre nel cinema di questo regista, piena di ritmo e di una verve solo apparente, in cui si intravedono segnali di stanchezza e un’incapacità ormai da parte di De La Iglesia di uscire da un habitat visivo e narrativo in cui sembra irrimediabilmente costretto. Sarà un successo al botteghino in Spagna senza dubbio, e forse non solo; ma i premi di un Festival come Venezia sono un’altra cosa. Se si fa eccezione per “Essential Killing” di Jerzy Skolimowski, di cui per fortuna la giura si è ricordata per ben due volte, tanto da farlo sembrare il vincitore morale di questa edizione del Festival, tutti i film più interessanti del concorso non hanno trovato posto in questo palmarès; non basta la Colpa Volpi per la migliore interpretazione femminile a riscattare la profondità di un’ottima opera prima come “Attemberg” di Athina Rachel Tsangari, in concorso anche per il Queer Lion, e non basta nemmeno la Coppa Volpi a Vincent Gallo per rendergli giustizia perché il suo Promises Written in the Water, al di là dell’antipatia che Gallo può suscitare per il suo egocentrismo e le sue posizioni ideologiche, è davvero un gran bel saggio di cinema, un cinema bello e puro, che ha radici e fa riemergere i movimenti che anni fa ne hanno cambiato il corso e la storia (questo che se lo ricordino anche quei giornalisti di primo pelo che hanno chiesto a Gallo di abbassare la cresta, facessero un ripasso di Storia del cinema). Dove sono finiti poi lo sconvolgente e doloroso film a sorpresa di Wang Bing o il quasi mistico “Meek’s Cutoff” di Kelly Reichardt capaci di prove di grande spessore linguistico? Escluse anche queste dai Premi.

Più vitalità è arrivata invece dalle Sezioni Settimana della Critica e Orizzonti, mentre sempre più una brutta copia del Festival di Roma, sembra la sezione Giornate degli Autori. In Orizzonti era inserito, tra l’altro, il film vincitore della quarta edizione del Queer Lion: “En el futuro“, dell’argentino Mauro Andrizzi. Opera terza e presentata in versione provvisoria (quella definitiva avrà la sua prima mondiale al Festival di Copenaghen), un onesto e sincero racconto di vite di coppia. Una scelta facile, come ha detto la Giuria stessa, anche perché non molti erano i titoli in lista per il Premio (e quei pochi, tranne il riuscito corto di Pappi Corsicato e quasi nient’altro, o erano poco queer come Potiche o per niente riusciti come Drei, o entrambe le cose come Happy Few, poco queer e davvero bruttissimo), ed alcuni sono entrati in lista a proiezione avvenuta (come il caso del bel film di Catherine Breillat, La Belle endormie), questo non certo per responsabilità degli organizzatori del Queer Lion, ma per una non sempre efficace comunicazione dagli uffici della Mostra. La sinossi di “En el futuro” sul catalogo della Mostra recita: “In quella casa lui ci abitava. Tante volte ha guardato il cielo attraverso quella finestra; tante volte è andato su e giù per quelle scale di legno. Ora è un fantasma. Un fantasma che si aggira per lo spazio, ascoltando i suoni delle generazioni che sono venute dopo di lui. È parte del passato, ma è anche il futuro“. Perfetta, anche per essere applicata al cinema di oggi.

Cosimo Santoro
(Head of Distribution – Atlantide Entertainment S.r.l.)

La bella e brava Ariane Labed protagonista di “Attemberg” (Coppa Volpi per la migliore interpretazione)

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